La prima funzione della quaresima è il risveglio della nostra coscienza: ciascuno di noi è un peccatore, cade ogni giorno in peccato e perciò deve confessarsi creatura fragile, sovente incapace di rispondere al Signore vivendo secondo la sua volontà. Il cristiano non può sentirsi giusto, non può ritenersi sano, altrimenti si impedisce l’incontro e la comunione con Gesù Cristo il Signore, venuto per i peccatori e per i malati, non per quanti si reputano non bisognosi di lui (cf. Mc 2,17 e par.).
Con l’Apostolo il cristiano dovrebbe dire: «Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io» (1Tm 1,15). Ecco, riconoscere il proprio peccato è il primo passo per vivere la quaresima, e i padri del deserto a ragione ammonivano: «Chi riconosce il proprio peccato è più grande di chi fa miracoli e risuscita un morto».
Il cammino quaresimale si incomincia con questa consapevo-lezza, e perciò la Chiesa prevede il rito dell’imposizione delle ceneri sul capo, con le parole che ne esprimono il significato: «Sei un uomo che, tratto dalla terra, ritorna alla terra, dunque convertiti e credi alla buona notizia del Vangelo di Cristo!». Così si vive un gesto materiale, una parola assolutamente decisiva per la nostra identità e chiamata.
Di conseguenza, nei 40 giorni quaresimali si dovrà intensificare l’ascolto della parola di Dio contenuta nelle sante Scritture e la preghiera; si dovrà imparare a digiunare per affermare che «l’uomo non vive di solo pane» (Dt 8,3; Mt 4,4; Lc 4,4); ci si dovrà esercitare alla prossimità all’altro, a guardare all’altro, a discernere il suo bisogno, a provare sentimenti di com-passione verso di lui e ad aiutarlo con quello che si è, con la propria presenza innanzitutto, e con quello che si ha.
Per la quaresima di quest’anno papa Francesco ha inviato, com’è consuetudine, un messaggio ai cattolici, ispirandosi significativamente a un testo, anzi a un solo versetto densissimo di cristologia della Seconda lettera di Paolo ai Corinzi: «Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9). Anche Benedetto XVI nel messaggio quaresimale del 2008 si era lasciato ispirare dallo stesso versetto, che è davvero un’affermazione decisiva perché condensa in sé l’incarnazione del Figlio di Dio, mettendone nel contempo in risalto lo stile.
Sì, la fede della Chiesa di Corinto, fondata dall’Apostolo da pochissimi anni, confessa che Dio si è fatto uomo in Gesù, confessa che Gesù il Cristo, che era Figlio di Dio, che era Dio, al quale tutto apparteneva – potenza, eternità, ricchezza, gloria –, si è spogliato di tutte queste prerogative e si è dunque fatto uomo tra di noi, uomo fragile, mortale, per essere in mezzo a noi, uno di noi, un figlio di Adamo come noi.
Ecco lo stile del nostro Dio, non di un qualsiasi Dio. Io amo dire che il nostro Dio è un «Dio al contrario » perché si rivela nella debolezza, nella povertà, nell’insuccesso secondo il mondo, nel servire noi anziché chiedere il nostro servizio. Questo è scandaloso, perché noi abbiamo l’immagine – che gli uomini sempre fabbricano e rinnovano – di un Dio potente, che regna, che si impone.
Se il nostro Dio è un «Dio al contrario» rispetto alle nostre attese mondane, anche suo Figlio, l’Inviato nel mondo, il Messia, è un «Messia al contrario». Non è venuto nello splendore, nella gloria, nella straordinarietà di teofanie che abbagliano, ma nella povertà, nascendo non a caso in una stalla, come uno che non ha trovato un luogo in cui venire al mondo neppure in un caravanserraglio (cf. Lc 2,7).
Questo, lo sappiamo, è «lo scandalo della croce» (Gal 5,11), è ciò che lo stesso Paolo confessa nella Lettera ai Filippesi, in quell’inno che contiene il medesimo movimento: dal cielo alla terra, dalla condizione di Dio a quella mortale, da Signore a schiavo, da Onnipotente a crocifisso in una morte ignominiosa, «obbediente fino alla morte, e alla morte di croce» (cf. Fil 2,6-8). Citando il concilio, papa Francesco ricorda: «Dio in Gesù ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo» ( Gaudium et spes 22).
È in questa povertà che Gesù, il Figlio di Dio, ha voluto stare con noi, essere l’Emanuele, il Dio-con-noi (cf. Is 7,14; Mt 1,23). Questa sua povertà, che era kénosis, svuotamento, abbassamento, ha permesso a Gesù la prossimità a noi, il condividere la nostra condizione, e dunque gli ha permesso di amare nell’empatia e nella simpatia per noi.
E così ci ha insegnato la via della fiducia, del servizio, dell’«amore fino alla fine» (cf. Gv 13,1), della compassione e del perdono. Quella povertà che il Messia ha assunto è diventata per noi una via di ricchezza, certo non mondana, ma una ricchezza di comunione con Dio stesso e con tutti gli uomini. In questo messaggio, dunque, papa Francesco non fa soltanto un’esortazione morale ai cristiani, ma ricorda innanzitutto la fonte di ogni azione cristiana: la fede.
Dalla fede, infatti, scaturisce l’autentica carità; è conoscendo veramente Gesù Cristo che noi possediamo la vita per sempre (cf. Gv 17,3); è conformandoci a lui nella nostra vita, è vivendo come lui ha vissuto e con il suo stile che possiamo seguirlo e partecipare al suo Regno. Questo riguarda ciascuno di noi e riguarda la Chiesa tutta.
Sempre nel concilio Vaticano II si legge un passo purtroppo poco ricordato, ma profondamente ispirato alla lettura dell’incarnazione fatta da Paolo: «Come Cristo ha realizzato la sua opera di redenzione nella povertà e nelle persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a percorrere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza… e benché per eseguire la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, la Chiesa non è fatta per cercare la gloria sulla terra» ( Lumen gentium 8).
Dopo la confessione della fede, ossia il fondamento teologico, papa Francesco richiama brevemente la necessaria testimonianza dei cristiani. Come Dio ha voluto salvare gli uomini con la povertà, così la Chiesa e ogni cristiano devono percorrere la stessa via, perché la «ricchezza di Dio» può essere accolta e operare là dove c’è la povertà umana. E dove c’è la povertà umana – lo constatiamo ogni giorno a partire dalla conoscenza di noi stessi – là c’è anche la miseria.
La povertà è la nostra condizione umana fragile e la miseria si insinua in essa minacciando fortemente l’humanitas , il nostro cammino di umanizzazione. La povertà è la condizione in cui è possibile conoscere la beatitudine («Beati voi poveri»: Lc 5,20); la miseria è il degrado della povertà, è l’alienazione, l’oppressione e la schiavitù che in essa si può insinuare, contraddicendo la dignità e la vocazione dell’uomo.
Il nostro Dio, rivelatosi ai figli di Israele con la loro liberazione dalla schiavitù d’Egitto, è un Dio che «ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza…, guardò la loro condizione e se ne diede pensiero» (Es 2,24-25). Così si è rivelato Dio e così noi dobbiamo fare. Innanzitutto «ascoltare» l’altro, gli altri: ascoltarli nel loro essere uomini e donne, fratelli e sorelle in umanità.
È decisivo l’ascolto dell’altro, prima di ogni nostra scelta o comprensione di lui: là dove c’è un uomo, una donna, io devo mettermi in ascolto. Dopo l’ascolto dell’altro, il cristiano 'ricorda' che anche lui è stato ascoltato da Dio, anzi che Dio lo ha preceduto in ogni sua ricerca di comunione, e dunque deve riconoscere la paternità di Dio che fonda nella fede la fraternità e la sororità. Ecco allora il «guardare», che non significa solo vedere, ma avvicinarsi e guardare l’altro negli occhi, volto contro volto, negando ogni lontananza.
Soprattutto oggi, immersi come siamo nella comunicazione in tempo reale, ma senza incontrare nella realtà l’altro, dobbiamo vigilare che la prossimità sia sempre esercitata come un passo che decidiamo per rendere l’altro prossimo (cf. Lc 10,36). E infine, quando sappiamo guardare l’altro e discernere il suo bisogno, la sua sofferenza sempre diversa, quando riconosciamo la sua singolarità nel patire, allora «ci diamo pensiero», ci prendiamo cura di lui, come fa il nostro Dio!
Così facendo, scopriremo la miseria materiale, il bisogno di cibo, vestito e casa, presente nell’altro; scopriremo la miseria morale, l’alienazione al vizio, la degradazione delle persone in cammini di schiavitù, che spingono uomini e donne sulla via della morte, vittime della storia e dell’egoismo umano; scopriremo anche la miseria spirituale di chi è alienato agli idoli, non conosce una vita interiore, non dà senso alla propria vita.
Il papa ci invita dunque alla diakonía, parola del Nuovo Testamento che indica il servizio agli altri. Se il Figlio di Dio si è fatto povero per stare in mezzo a noi, per essere come noi, si è fatto anche «servo» per servirci, per piegarsi davanti a noi, per lavarci i piedi (cf. Gv 13,1-15): «Io sto in mezzo a voi come colui che serve » (Lc 22,27), ha detto Gesù.
Questo il denso messaggio delle parole di papa Francesco, che così conclude, citando ancora una volta Paolo: «Sì, noi siamo come afflitti, ma sempre lieti; come poveri, ma capaci di arricchire molti; come gente che non possiede nulla e invece possediamo tutto» (2Cor 6,10). Se davvero tutti i cristiani cattolici, sulla traccia fornita da papa Francesco, tentassero con risolutezza di vivere questa quaresima, allora la riforma della Chiesa che tanti aspettano e chiedono a Francesco potrebbe muovere i primi passi. Ma si smetta di chiedere al papa di operare lui ciò che riguarda tutti noi e che dovrebbe farci mutare qualcosa della nostra vita cristiana: dovrebbe farci operare la conversione, nulla di più, nulla di meno.