di padre M. Pellegrino
Quaranta giorni dopo la Risurrezione, Gesù ascende al Cielo davanti agli sguardi stupiti degli Apostoli. Prima di lasciare la terra, Gesù parla per l'ultima volta, affidando ai suoi Discepoli l'incarico di evangelizzare tutte le genti, dicendo: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19-20). È questo il mandato missionario che Gesù ha lasciato alla sua Chiesa e che fedelmente dobbiamo eseguire, affinché tutti conoscano il Vangelo e abbiano la Vita eterna.
Da una parte, l'Ascensione del Signore ci invita a innalzare il nostro pensiero alle realtà celesti, distaccandolo dalla terra, secondo le parole che abbiamo sentito nella seconda lettura, ove l'apostolo san Paolo ci esorta a comprendere sempre di più «a quale speranza [Dio ci ha chiamati], quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi» (Ef 1,18-19); dall'altra parte siamo invece chiamati a non rimanere inerti, in una passiva attesa del ritorno del Signore, ma a edificare il regno di Dio su questa terra.
Dunque, se in poche parole vogliamo sintetizzare il messaggio di questa solennità, possiamo dire che, alla luce dell'Ascensione del Signore, siamo esortati a innalzare i nostri cuori al Cielo e appoggiare bene i nostri piedi a terra, adoperandoci per la diffusione del Vangelo nel mondo intero. Ci vuole la contemplazione e ci vuole l'azione. Questi due elementi vanno sempre insieme. Le sorti di questo mondo non si migliorano nelle discussioni, nelle riunioni, nelle pianificazioni, ma innalzando il cuore al Signore e attingendo da Lui la luce e la forza per operare e per diffondere il bene nel mondo. I più grandi realizzatori sono stati quelli che meno ne avevano le apparenze, sono stati quelli che hanno derivato dalla contemplazione l'efficacia della loro azione.
Il mondo è pieno di iniziative: i progetti si moltiplicano, le forze si debilitano, ma le cose non migliorano. C'è bisogno di un'unica cosa: tornare al Signore, rivolgere a Lui i nostri cuori, pensando che, nella nostra opera di bene, saremo efficaci nella misura dell'unione con Dio.
L'Ascensione non ha separato Gesù dalla sua Chiesa. Anche se è salito al Cielo, Egli continua ad essere sempre con noi. Ce lo ha promesso con queste consolanti parole: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). In modo particolare, Egli continua ad essere con noi nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue, e non ci lascia mai soli.
«Egli non si è separato da noi, ma ci ha preceduti nella dimora eterna; per darci la serena fiducia che dove è Lui saremo anche noi, uniti nella stessa gloria» (dal Prefazio). Fin da adesso, pensiamo spesso a questa gloria che ci attende nei Cieli. In Gesù Risorto e asceso al Cielo, noi contempliamo quella che sarà anche la nostra meta finale. La festa di oggi ci insegna che non siamo stati creati per questa terra, ma per il Paradiso. Solo lì i nostri cuori troveranno la vera pace. Qui giù ci sarà sempre qualcosa per cui penare, e questo Dio lo permette per farci desiderare ancora più ardentemente il Cielo.
Tante volte viviamo come se dovessimo rimanere qui tutta l'eternità. Non pensiamo a sufficienza alla Vita eterna e rischiamo di farci trovare impreparati all'incontro eterno con Gesù. San Paolo, nella seconda lettura, pregava il Signore di illuminare gli occhi del cuore (cf Ef 1,18) per contemplare la gloria alla quale siamo chiamati. Chiediamo che il Signore illumini anche i nostri occhi, affinché, fin da adesso, possiamo fissare il nostro sguardo alla meta.
Il nostro pellegrinaggio terreno si potrebbe paragonare a una lunga ascensione: dobbiamo raggiungere la vetta, e ciò richiede tutto il nostro impegno. Più facile sarà scendere, ma noi siamo chiamati a raggiungere le vette dell'amore di Dio. Più il nostro bagaglio sarà leggero, tanto più agevolmente riusciremo a salire e a raggiungere la cima. Per questo motivo, san Francesco d'Assisi volle vivere nella povertà, per non essere ostacolato da nulla nel suo slancio verso l'alto.
In questa ascensione non dobbiamo perdere di vista la vetta da raggiungere. All'inizio il cammino è agevole, ma, quanto più ci si avvicina alla vetta, tanto più l'ascesa si fa ripida e il respiro affannoso. Se prima si ammirava la bellezza del panorama, quando si è ormai vicini alla meta non si guarda che la cima, ogni altra cosa sembra scomparire. La fatica aumenta sempre di più, ma il desiderio di giungere in vetta si fa più grande e, quando finalmente vi si giunge, si è al colmo della gioia. Sembra quasi che quanto più abbiamo fatto fatica, tanto più siamo felici. Ai nostri occhi estasiati si aprono orizzonti meravigliosi e il mondo sotto di noi sembra ormai tanto piccolo. Si vorrebbe rimanere lì a lungo e si intuisce che il mondo non potrà mai appagare pienamente il nostro cuore.
Chiamati a guardare in alto, tante volte noi non riusciamo a staccare lo sguardo da terra. Impariamo dai Santi, i quali, passando per molte prove e tentazioni, sono saliti molto in alto e hanno raggiunto la cima immacolata dell'amore di Dio. Si racconta che, quando era ancora bambino, san Francesco di Sales spesso era assorto, tutto preso dai suoi pensieri e, quando il padre gli domandava a cosa stesse pensando, egli rispondeva: «Penso a Dio e a farmi santo».
Pensiamo anche noi a Dio. La preghiera è stata giustamente definita come l'«elevazione della mente a Dio». Ogni volta che pregheremo in modo autentico, eleveremo la nostra mente e il nostro cuore, staccandoli dai lacci di questa terra.