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L'Occidente torni a Cristo se vuole sconfiggere il terrore del Califfato

30/8/2014

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L'Occidente torni a Cristo se vuole sconfiggere il terrore del Califfato
di Piero Gheddo

La società che abbiamo creato ormai scontenta tutti: è una civiltà senz'anima, senza speranza, senza bambini e senza gioia. Tutti fallimenti di una società senza Dio, che ora si chiede cosa fare per affrontare l'integralismo islamico. 


Milano (AsiaNews) - Le atrocità del "Califfato islamico" in Iraq e Siria hanno scosso l'Occidente, che nella sua crisi politico-economica-religioso-morale diventa sempre più indifferente a quanto succede in Paesi a noi vicini e alle migliaia di profughi disperati (circa 100mila dall'inizio dell'anno) che la nostra Italia accoglie.

Da quando il nascente Isis (Califfato islamico del Levante e dell'Oriente) ha conquistato in Siria e Iraq una vasta base territoriale - affermandosi con violenze orrende e demoniache contro chi non si converte all'islam sunnita, costringendo Stati Uniti e alcuni Paesi europei ad intervenire - pare che l'opinione pubblica occidentale abbia preso coscienza di quanto odio animi quei fantasmi da incubo che sventolano una bandiera nera.

Odio non solo anti-cristiano, ma contro l'Occidente e il nostro modo di vivere, che essi vedono come nemico mortale dell'islam perché distrugge i fondamenti della religione coranica: sviluppo economico-liberale e benessere, democrazia e diritti dell'uomo e della donna, scienze e tecniche, alfabetizzazione universale, libertà di stampa e di costumi, ecc.

La civiltà islamica è fondata sull'obbedienza a Dio (naturalmente il Dio dell'islam), quella occidentale sull'uomo che si costruisce il futuro con la sua ragione, la sua libertà, i suoi diritti. La nostra civiltà, che ha profonde radici cristiane, crede di poter fare a meno di Dio. Islam vuol dire dipendenza da Dio, ,mentre Occidente significa (per quei popoli) sviluppo umano senza Dio: laicismo, ateismo pratico, "morale laica" (cioè, la "morale fai da te", il primato assoluto della coscienza individuale che ignora Dio e Gesù Cristo, ecc).

Se questa analisi molto sommaria è esatta o almeno plausibile, ci indica anche come affrontare le minacce dell'islam radicale all'Occidente ed essere fratelli dei popoli islamici, in grande maggioranza contrari alle violenze del Califfato, che però si stanno diffondendo non solo nel Medio Oriente,ma in Nigeria, Repubblica centro-africana, Mali, Libia, Sudan, Mauritania, e minaccia i governi dell'Egitto e dell'Algeria).

La storia recente ci dimostra alcune cose:

1)  La guerra non risolve nulla, anzi peggiora la situazione (vedi le due guerre in Iraq). Chi si augura una nuova Crociata e una nuova Lepanto non tiene conto del miliardo e 300 milioni di islamici, che se attaccati ritornano uniti contro l'Occidente.

2)  La riforma dell'islam verrà dalla formazione dei popoli islamici attraverso la scuola e la libertà di ricerca storico-critica delle fonti islamiche, per contestualizzare il Corano e Maometto al mondo moderno, come avviene nella Chiesa attraverso i Concili e il succedersi dei 265 Papi che la guidano;

3) L'Occidente può aiutare questo processo di maturazione con l'aiuto ai profughi e ai perseguitati, il dialogo con i musulmani "moderati" e i musulmani in Occidente, il rispetto della verità nel descrivere le atrocità dei guerriglieri e terroristi islamici, denunziando la radice coranica e storica dell'islam, come lo sterminio degli ebrei è attribuito all'ideologia razzista dei nazisti. Il dialogo senza il rispetto della verità storica diventa una finzione ipocrita che non serve e non convince nessuno.

4) Soprattutto, se l'Occidente vuol dialogare e affrontare la sfida dell'islam, deve ritornare a Cristo. La civiltà che abbiamo fondato noi cristiani oggi non accontenta nessuno, nemmeno i nostri popoli che l'hanno iniziata. È una civiltà senz'anima, senza speranza, senza bambini e senza gioia, di cui sono segno i troppi fallimenti di una società senza Dio. Non si è ancora capito che i Dieci Comandamenti e il Vangelo sono gli orientamenti che Dio ha dato, a noi uomini da lui creati, per vivere una vita che porti alla serenità, alla fraternità e solidarietà, all'autentico sviluppo, alla giustizia e alla pace (vedi la sintesi nella "Populorum Progressio").

Se l'Occidente non ricupera le sue "radici cristiane" e non le mette a fondamento della sua vita e della sua cultura, rimane solo la guerra e l'autodistruzione dei nostri popoli.
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I DRAMMATICI APPELLI DEI VESCOVI IN IRAQ E IL SOSTANZIALE DISINTERESSE DELL'OCCIDENTE

29/8/2014

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E' urgente un intervento armato immediato per scongiurare l'eliminazione dei cristiani, ma da noi si prende a pretesto Papa Francesco per giustificare il silenzio e le omissioni
di Riccardo Cascioli


In Iraq si muore, a Roma (e non solo) si fa accademia. È un po' questa l'impressione che si ricava mettendo a confronto i drammatici appelli che quotidianamente arrivano dai vescovi del Medio Oriente e le incredibili divagazioni sul tema che leggiamo sulla stampa nostrana, spesso ad opera di uomini di Chiesa.
Da Erbil, la città curda dove trovano riparo la maggior parte dei cristiani scacciati da Mosul e dalla piana di Ninive, si sono fatti sentire ieri, ad esempio, i patriarchi orientali cattolici e ortodossi andati lì per portare la propria solidarietà ai cristiani. «Noi lanciamo un grido d'allarme - ha spiegato il Patriarca Youssef II Younane, dei siro-cattolici - Non c'è nemmeno un secondo da perdere. È in gioco la nostra sopravvivenza in Mesopotamia. Le nazioni libere che aderiscono alla Carta dei diritti dell'uomo devono avere il coraggio di essere fedeli ai loro principi. Noi chiediamo un intervento internazionale in nostra difesa, e non certo per conquistare alcunché. Noi abbiamo il diritto di difenderci e noi chiediamo di essere difesi. La comunità internazionale lo ha ben fatto in precedenza in Kosovo, malgrado l'opposizione, all'epoca, della Russia. Per questo noi domandiamo, assieme a Papa Francesco, di fare in modo che vengano rispettati i nostri diritti per un intervento militare di natura difensiva, per fronteggiare i gruppi jihadisti che ci minacciano». 

APPELLI DEI VESCOVI LOCALI
«Noi pensiamo – ha inoltre detto il patriarca maronita Bechira Rai - che lasciare campo libero agli jihadisti dello Stato islamico sarebbe davvero vergognoso per l'Occidente. Che un gruppo di terroristi di ispirazione diabolica sia lasciato libero di agire è uno scandalo senza precedenti. Noi chiediamo alla comunità internazionale di assumersi le proprie responsabilità. È inammissibile che un gruppo di questa natura opprima in questo modo dei popoli, e che la comunità internazionale non prenda la difesa di un gruppo incapace di difendersi da solo».
Parole chiare, analoghe nei contenuti e nel tono, a quelle sentite in queste settimane dai diversi vescovi iracheni: è richiesto un intervento urgente; e armato, perché i terroristi dell'ISIS non si fermano a belle parole.

DISCUSSIONI DA SALOTTO
A Roma invece si continua a discutere sul significato da attribuire alle parole del Papa sul «fermare gli aggressori», e come quindi si può fermarli senza usare le armi, non sia mai che vogliamo le Crociate o solo contrapporre la forza alla forza.
Il Papa fa bene a ricordare i criteri fondamentali che guidano anche un intervento militare difensivo, è la dottrina della Chiesa da sempre, e non sta a lui indicare soluzioni politiche o militari. Ma i laici e coloro che sono chiamati a prendere decisioni o a suggerirle, devono dare contenuti seri a questi criteri, non possono fare omelie sulle parole del Papa riservando al contempo la loro aggressività nei confronti di tutti coloro che chiamano i terroristi con il loro nome e che invocano un intervento serio. 
Chi sta facendo la guerra ad Antonio Socci – reo di aver criticato la tiepidezza del Papa – dovrebbe avere il coraggio di andare fino in fondo e criticare tutti i vescovi iracheni e i patriarchi orientali che chiedono di intervenire urgentemente, e possibilmente non a chiacchiere. Socci sarà pure criticabile, ma non è lui che sta sgozzando ostaggi e dando la caccia a cristiani e yazidi. E non siamo noi - che insistiamo nel denunciare la minaccia islamista - quelli che hanno dichiarato guerra agli infedeli, la Terza guerra mondiale tanto per citare il Papa. Chissà se poeti, intellettuali e preti che gridano dappertutto che non c'è bisogno di Crociate sarebbero così compassati e meditabondi sulle parole del Papa se ad essere stuprate e usate come bottino di guerra fossero le loro figlie e mogli e se ad essere sgozzati in nome di Allah fossero i loro figli.

NON SI POSSONO CHIUDERE GLI OCCHI O GIOCARE CON LE PAROLE
Noi non vogliamo dichiarare guerra a tutti i musulmani, ci mancherebbe altro. O affermare che tutti i musulmani sono potenziali terroristi. Al contrario, vogliamo valorizzare tutto quello che di positivo si muove nel mondo islamico. Ma allo stesso tempo non si può chiudere gli occhi davanti a quel che sta accadendo e, in ogni caso, prima ancora di discettare sui princìpi dell'islam, occorre «fermare l'aggressore». E bisogna essere concreti: se non si vuole fare una guerra, in quale altro modo si possono fermare questi barbari?
Non si può giocare con le parole, come fa ad esempio, il segretario del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, monsignor Mario Toso. In una intervista a Radio Vaticana, commentando le parole del Papa, ha detto ieri che si deve rinunciare «definitivamente all'idea di ricercare la giustizia mediante il ricorso alla guerra». Bene, e allora cosa facciamo davanti all'Isis? «Occorre - dice Toso - imboccare vie alternative: va cioè coltivata la multilateralità come via che offre maggiori garanzie di giustizia, anche nel caso che si debba attuare il principio di responsabilità di proteggere etnie e gruppi che sono minacciati di morte, come sta avvenendo in Iraq, da gruppi terroristici». E cosa vuol dire? La multilateralità non è una risposta al «cosa facciamo», al massimo è un metodo. E il resto sembrano frasi fatte, senza un senso vero, tanto per dare l'idea di dire qualcosa di profondo.

QUALI SAREBBERO LE ALTERNATIVE A UN INTERVENTO MILITARE?
Ma cominciamo a vedere seriamente quali sono le alternative: i paesi occidentali, tutti d'accordo, si stanno muovendo per armare i curdi e dare loro la possibilità di difendersi. Va bene questo per i nostri amici che non vogliono Crociate? Non suona un po' ipocrita e vagamente vigliacca come soluzione? Noi non vogliamo la guerra, ma vi diamo le armi per farla. Così abbiamo un doppio guadagno: non ci rimettiamo vite umane e ci facciamo i soldi con la vendita delle armi. Dare la possibilità a chi è attaccato di difendersi è giusto, ma fatta in questo modo non suona certo come un impegno. E senza considerare che anche questa via ha le sue controindicazioni: si incrementa la proliferazione di armi, anche pesanti, che in giro per Medio Oriente e Africa sono già troppe, e si aprono futuri contenziosi visto che i curdi ora si aspettano come ricompensa la creazione e il riconoscimento del loro stato, il Kurdistan.
La scorsa settimana, il nunzio apostolico all'Onu di Ginevra, monsignor Silvano Tomasi, aveva anche suggerito di bloccare il flusso di fondi e armi verso i miliziani dell'Isis. Più che giusto, ma anche questa non è una strada facile, immediata e risolutiva: ormai gli jihadisti hanno trovato il modo di autofinanziarsi – i rapimenti di occidentali servono a questo – e comunque c'è una pressione forte da fare sui paesi – Arabia Saudita, Qatar, Kuwait – da cui passano gran parte dei rifornimenti per l'Isis. E nessuno in questo momento sembra neanche pensare a questa strada, non ultimo perché anche in Europa siamo dipendenti dagli investimenti di questi paesi.
Dunque, quali sarebbero le altre alternative immediate a un intervento militare? Sicuramente ce ne saranno anche se in questo momento non ci vengono in mente, ma invece di meditare profondamente sulle parole del Papa, le si prenda sul serio e si formulino ipotesi concrete. Ad esempio, si prendano per la collottola i nostri governanti, molto più interessati a discutere del patetico topless di una ministra ultracinquantenne che non ad affrontare la minaccia jihadista che arriva da noi anche in barca (e li andiamo pure a prendere).
Soprattutto si risponda a questa domanda: e se le Nazioni Unite non avessero alcuna intenzione di muoversi, come peraltro appare evidente al momento (quante riunioni d'urgenza del Consiglio di sicurezza sono state convocate per discutere del Califfato?), che cosa si fa? Ce la sentiamo di abbandonare i fratelli cristiani iracheni - e mediorientali in genere - al loro destino, consolandoci con il fatto che tanto la persecuzione è nel nostro Dna?

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JAMES FOLEY RECITAVA IL ROSARIO. È STATO UCCISO PER CIÒ CHE RAPPRESENTA. FORSE È UN MARTIRE

21/8/2014

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JAMES FOLEY RECITAVA IL ROSARIO. È STATO UCCISO PER CIÒ CHE RAPPRESENTA. FORSE È UN MARTIRE
di Benedetta Frigerio

Il giornalista americano James Foley, decapitato dai jihadisti, era stato prigioniero nel 2011 delle forze filo governative libiche. Detenuto a Tripoli fu liberato dopo 45 giorni di carcere, decidendo poi di scrivere una lettera per la rivista dell’università cattolica Marquette di Milwaukee, da lui frequentata. 

«COME MIA MADRE»
Nato in una famiglia cattolica di Boston, Foley raccontò: «Io e i miei colleghi fummo catturati e detenuti in un centro militare di Tripoli». Ogni giorno, spiegava il giornalista, «aumentava la preoccupazione per il fatto che le nostre mamme potessero essere in panico». E anche se «non avevo pienamente ammesso a me stesso che mia mamma fosse a conoscenza di quello che mi era successo», Foley ripeteva a una collega che «mia mamma ha una grande fede» e che «pregavo che sapesse che stavo bene. Pregavo di riuscire a comunicare con lei». Il giornalista raccontò di quando «cominciò a dire il rosario», perché «era come mia madre e mia nonna avrebbero pregato (…). Io e Clare (una collega, ndr) iniziammo a pregare ad alta voce. Mi sentivo rinfrancato nel confessare la mia debolezza e la mia speranza insieme e conversando con Dio, piuttosto che stare solo in silenzio». 

LA FORZA DEGLI AMICI
I giornalisti poi furono trasferiti in un’altra prigione dove si trovavano i prigionieri politici, «da cui fui accolto e trattato bene». Dopo 18 giorni accadde un fatto che Foley non si seppe spiegare, fu prelevato dalla cella dalle guardie e portato nell’ufficio del guardiano «dove un uomo distinto e ben vestito mi disse: “Abbiamo pensato che forse volevi chiamare la tua famiglia”. Dissi una preghiera e composi il numero». La linea funzionava e la madre del giornalista rispose: «Mamma, mamma sono io, Jim», disse il ragazzo. «Sono ancora in Libia, mamma. Mi dispiace di questo. Perdonami». La donna incredula rispose al figlio che non doveva dispiacersi e gli chiese come stava: «Le dissi che mi nutrivo, che avevo il letto migliore e che mi trattavano come un ospite». Foley aggiunse: «Ho pregato perché sapessi che stavo bene. Hai percepito le mie preghiere?». La donna rispose: «Jimmy tante persone stanno pregando per te. Tutti i tuoi amici Donnie, Michael Joyce, Dan Hanrahan, Suree, Tom Durkin, Sarah Fang che ha chiamato. Tuo fratello Michael ti vuole molto bene». Poi la guardia fece un cenno e il ragazzo dovette salutare la madre.

«LA MIA LIBERTÀ»
«Ho ripetuto la chiamata nella mia testa centinaia di volte, la voce di mia madre, i nomi dei miei amici, la sua coscienza della situazione, la sua assoluta certezza nel potere della preghiera. Mi disse che i miei amici si erano riuniti per fare tutto quello che potevano per aiutare. Sapevo di non essere solo». Infine, concluse Foley: «Nella mia ultima notte a Tripoli mi sono potuto connettere a internet dopo 44 giorni e sono riuscito ad ascoltare un discorso di Tom Durkin fatto per me (…). In una chiesa piena di amici, alunni, sacerdoti, studenti e docenti ho visto il miglior discorso che un fratello potrebbe fare per un altro (…). Era solo un assaggio degli sforzi e delle preghiere di tante persone. Se non altro, la preghiera è stato un collante che ha permesso la mia libertà, una libertà interiore prima e dopo il miracolo di essere rilasciato».
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Robin Williams, una vita di commedia finita in tragedia

12/8/2014

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Il presunto suicidio dell'attore ci ricorda l'infinito valore di ogni vita umana

Robin Williams è morto a 63 anni. Secondo i primi risultati si tratterebbe di suicidio. Tutti concordano sul fatto che si tratti di una tragedia

Tutti noi abbiamo un film preferito di Williams. Chi può dimenticare quando ha interpretato il genio della lampada di Disney o l'adorabile Mrs. Doubtfire? Molti di noi sono cresciuti con i suoi film. Non riesco a dire quante volte la mia sorellina abbia rivisto Jumanji. Non ci siamo mai stancati del suo genio.

Ma come contraltare alla luce sfavillante della sua carriera di attore c'era la sua lotta contro l'alcolismo e la depressione, particolarmente grave prima del suo apparente suicidio. In base alle notizie emerse, di recente avrebbe rimesso piede in un centro di riabilitazione, in uno dei tanti tentativi di guarigione.

Non possiamo sapere cos'abbia pensato o cosa lo abbia spinto al limite, ma sicuramente facciamo bene a reagire con tristezza alla sua scomparsa. Come potremmo essere felici che un uomo simile abbia posto fine alla propria vita?

Non posso evitare di pensare che come società siamo incoerenti nel nostro atteggiamento verso la vita. La stragrande maggioranza del Paese piangerà il gesto estremo di Robin Williams, ma un crescente numero di persone sostiene l'eutanasia, ad esempio il suicidio medicalmente assistito. Com'è possibile che un momento siamo convinti della tragedia della morte di Williams e quello successivo sosteniamo il “diritto” della gente di scegliere quando morire?

San Giovanni Paolo II ha colpito nel segno quando nella Evangelium Vitae ha affermato che “nell'orizzonte culturale complessivo non manca di incidere anche una sorta di atteggiamento prometeico dell'uomo che, in tal modo, si illude di potersi impadronire della vita e della morte perché decide di esse, mentre in realtà viene sconfitto e schiacciato da una morte irrimediabilmente chiusa ad ogni prospettiva di senso e ad ogni speranza”.

Come ha sottolineato il santo, c'è il volto della vita e della morte che, a livello culturale, siamo spesso disponibili ad accettare. Vogliamo credere che avremo sempre tutto sotto controllo, che abbiamo il potere su tutto, anche sulla vita e la morte. Un'estensione naturale di questa convinzione è un sostegno all'eutanasia – se una persona vuole morire, perché non permetterglielo?

La nostra reazione istintiva alla perdita di Robin Williams punta tuttavia alla realtà del suicidio: è una perdita totale di speranza. Malgrado ciò che affermano i sostenitori dell'eutanasia, il suicidio non è una “morte con dignità”. La battaglia di Williams contro la depressione e la dipendenza evidenzia nel suicidio non un'occasione gioiosa, ma un momento di disperazione estrema.

Speriamo e preghiamo che Robin Williams e tutti coloro che pongono fine alla propria vita trovino l'amore senza fine di Dio. Anche se riconosciamo che eliminare qualsiasi vita – inclusa la propria – è un male, non possiamo presumere di conoscere la condizione di un'anima, né dovremmo sottovalutare la misericordia di Dio.

Robin Williams ha detto una volta che “la morte è il modo della natura per dire 'il suo tavolo è pronto'”. L'umorismo macabro rivela la morte come nemica di tutto ciò che rende la vita una festa – un grande e sontuoso piacere. Invitare la morte significa perdere qualsiasi voglia di vivere, perdere il semplice piacere di essere vivi. Tragicamente, la depressione ha tolto a Robin Williams la gioia che aveva donato a milioni di persone.



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Caitlin Bootsma è editrice del Truth and Charity Forum dello Human Life International (truthandcharityforum.com) e direttore di comunicazione di Fuzati, Inc., una compagnia di marketing cattolica.
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Dinanzi alla violenza in nome di Allah: la grande domanda che l’Islam ha dinanzi a sé alla quale solo gli islamici possono rispondere 

11/8/2014

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di Giovanni Amico

Il ripetersi di fatti inauditi di violenza in nome di Allah mostra a chiunque sia in buonafede che il problema è costitutivo per l’Islam odierno. Non è sufficiente affermare che sono solo minoranze islamiche che compiono atti efferati: si ammetta pure che solo il 35% dei musulmani sia d’accordo con azioni violente[1], ne consegue che per il restante 65% non sarà sufficiente affermare che ciò non è conforme alla fede islamica, ma si tratterà piuttosto di generare un movimento di opinione che contrasti efficacemente la minoranza violenta [2].

Non spetta a chi non è musulmano risolvere questo problema: dall’esterno si può dare una mano, ma non risolvere i dilemmi interni dell’Islam. Farsi carico della risposta sarebbe dare corpo a quel senso di vittimismo che impedisce ad ognuno, ed in questo caso agli islamici, di prendere su di sé la responsabilità del proprio destino [3].

Il problema, a nostro avviso, è semplice e si può porre in questi termini, per aiutare i musulmani ad affrontarlo. Maometto ha combattuto ben 27 campagne militari ed ha ucciso, Maometto ha decretato lo sterminio di intere tribù nella penisola arabica, la guerra santa è stata fin dall’inizio una guerra di conquista militare per l’espansione dell’Islam che ha portato in pochissimi decenni gli arabi alla conquista del medio oriente, del Nord africa, di parte dell’Europa (Andalusia, Sicilia, Puglia, Garigliano, Saint-Tropez, ecc. ecc.), della penisola anatolica fino alle porte di Costantinopoli (per non parlare dell’avanzata delle armate turche che si sostituirono a quelle arabe a partire dal 1077): l’enunciazione di questi fatti non è un offesa all’Islam, anzi qualsiasi musulmano sarà d’accordo con queste evidenze storiche.

Il problema è piuttosto che i musulmani violenti si richiamano a queste origini dell’Islam. Chiedendo ai loro confratelli di convertirsi al vero Islam hanno gioco facile nel ricordare loro che questa è la storia primitiva  della diffusione islamica.

Agli altri musulmani spetta, allora, di mostrare che questi fatti originari erano dovuti ad eventi contingenti e non solo essenziali al vero Islam. Spetta loro mostrare che si può essere islamici e chiedere scusa, come hanno fatto altre religioni come il cristianesimo, degli eventi violenti della propria storia passata.
Se tali fatti originari non hanno più valore per l’oggi, allora sarà possibile rifiutare gli atti violenti odierni dell’Islam. Per proporre un Islam che oggi rinneghi la violenza contro le minoranze, permetta la conversione di un islamico al cristianesimo, si schieri a favore di una vera libertà religiosa, è necessaria una lettura critica della storia islamica.

Altrimenti i violenti avranno vita facile, poiché accuseranno gli islamici moderati di aver abbandonato la fede e di essersi lasciati corrompere dai costumi occidentali. In termini tecnici è in questione un’ermeneutica delle origini, una capacità di lettura critica della nascita e dei primi secoli dell’Islam, che mostri che alcuni eventi violenti originari non siano avvenuti per volontà divina, bensì siano dipesi da scelte contingenti ed opinabili dei primi musulmani.

A noi che non siamo musulmani non è possibile rispondere se può darsi un Islam che rinneghi la violenza delle sue origini, contestualizzandola e ritenendola inessenziale. Non possiamo noi rispondere come si caratterizzerebbe un Islam che accettasse che le scelte di fede sono pienamente libere, che accettasse cioè che come un cristiano può divenire musulmano, così un musulmano può divenire cristiano senza che nessuno eserciti violenza se la sua coscienza lo spinge a questo passo. Non possiamo noi rispondere alla domanda se può esistere un Islam che in uno Stato a maggioranza musulmana conceda ad altre religioni o allo stesso ateismo di predicare liberamente le proprie opinioni.

Però è non solo un nostro diritto, ma anche un nostro dovere porre ai musulmani queste domande, proprio perché vogliamo essere loro amici e non amici di facciata, bensì amici leali e sinceri, liberi come è libero ogni vero amico.
Dalle risposte a queste domande dipende molto della storia futura del mondo e dell’Islam stesso.

Ci piace sottolineare che queste riflessioni non sono suscitate dalla paura di una possibile affermazione planetaria dell’Islam, anzi. La nostra presa di posizione è dettata dalla paura opposta: se la maggioranza silenziosa dell’Islam non si affretterà ad affrontare queste questioni  è pensabile piuttosto una scomparsa dell’Islam a livello mondiale. O l’Islam, infatti, sarà capace di mostrare a se stesso che è in grado di maturare una visione serena della modernità, altrimenti crollerà d’improvviso. E crollerà tragicamente dopo aver ingoiato nella sua violenza un numero enorme di musulmani – è evidente agli occhi di chiunque che le vittime musulmane dell’odierna crisi che l’Islam sta attraversando sono in numero infinitamente maggiore delle morti che le minoranze violente islamiche infliggono ai non musulmani.

Fra l’altro numerosi paesi islamici sono possessori di enormi ricchezze: ma per convertire questi beni in scelte educative che si preoccupino della formazione di ragazzi e ragazze islamiche che sappiano guardare in maniera critica alle origini dell’Islam, in vista di una visione dell’Islam adeguata al XXI secolo, serve che per primi i governanti scelgano una visione chiara dell’Islam che intendono proporre.


[1] È inutile nascondersi dietro ad un dito: le minoranze islamiche favorevoli alla violenza non sono l’1% o il 5% della popolazione, ma siamo in presenza di percentuali molto più alte, sebbene alcune statistiche dell’anno in corso comincino a registrare un calo, sebbene ancora contenuto, di tali percentuali.
[2] La totale assenza di manifestazioni contro gli atti efferati compiuti in nome dell’Islam in molti paesi a maggioranza islamica e l’insignificanza di manifestazioni negli altri parla con evidenza dello stato di empasse in cui si trovano i musulmani. Ma ciò che è, a nostra avviso, ben più significativo è la mancanza di una chiara scelta educativa nei confronti delle nuove generazioni – di questo si parlerà oltre.
[3] A nostro avviso, grave è la responsabilità dei media occidentali che sposano e incoraggiano il vittimismo di alcune correnti di opinione musulmane e non le invitano ad una seria assunzione di responsabilità, a partire dalle potenzialità enormi che esse hanno ad esempio a livello economico.
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Genocidio dei cristiani, l'ora della "guerra giusta"?

9/8/2014

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di Massimo Introvigne

Papa Francesco «rivolge il suo pressante appello alla Comunità internazionale, affinché, attivandosi per porre fine al dramma umanitario in atto, si adoperi per proteggere quanti sono interessati o minacciati dalla violenza». L'appello del Pontefice si riferisce al «Nord dell'Iraq» e non riguarda solo i cristiani, ce ne sono centomila in fuga, ma tutte le vittime della violenza. Il calvario dei cristiani della regione di Mosul è noto, e lo conoscono bene i nostri lettori. Ma alle stragi di cristiani si affiancano ora quelle dei seguaci di un'altra religione, gli Yezidi (leggi qui). La Chiesa Cattolica non apprezza particolarmente le visioni del mondo gnostiche, ma oggi è tra i pochi in Iraq a levare la sua voce contro il massacro di questa minoranza che si accompagna a quello dei cristiani. 

Ma protestare non basta. Quando il Papa invita la comunità internazionale ad «attivarsi» e «adoperarsi» per proteggere quanti sono minacciati dalla cieca violenza delle milizie fondamentaliste, solleva evidentemente il problema di un intervento armato. Gli iracheni da soli non ce la fanno. Le missioni umanitarie curano i feriti e soprattutto seppelliscono i morti, ma non impediscono nuove stragi. È giusto mandare i caccia a bombardare o le truppe a combattere contrro i terroristi dell’Isl?  I problemi politici sono evidenti: tante vicende elettorali hanno insegnato ai governanti negli Stati Uniti e all'Europa quanto sia impopolare mandare soldati a morire in terre lontane anche per le migliori ragioni umanitarie. 

Dal punto di vista morale, tuttavia, il pacifismo assoluto come maschera di inconfessati interessi elettorali non corrisponde all'insegnamento della Chiesa. Non solo i Papi si sono espressi a favore della cosiddetta «ingerenza umanitaria», ma Papa Francesco, come i suoi predecessori, ci rimanda spesso al Catechismo della Chiesa Cattolica. Al numero 2265, questo insegna che «la legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri. La difesa del bene comune esige che si ponga l'ingiusto aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, i legittimi detentori dell'autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità». Un diritto che è anche un «grave dovere», su scala nazionale come per la comunità internazionale.

San Giovanni Paolo II ha sviluppato, in occasione delle tragedie della Bosnia e della Somalia, la dottrina del «Catechismo» che impone alla comunità internazionale di non trincerarsi dietro un malinteso pacifismo per rinunciare a una «ingerenza umanitaria» obbligatoria. Il 5 dicembre 1993, parlando alla Fao Papa Wojtyla affermava che «la coscienza dell'umanità, ormai sostenuta dalle disposizioni del diritto internazionale umanitario, chiede che sia reso obbligatorio l'intervento umanitario nelle situazioni che compromettono gravemente la sopravvivenza di interi popoli e gruppi etnici». Il 30 novembre 1993, ricevendo i ministri degli Esteri della Csce, il Pontefice polacco denunciava lo «scandalo del disinteresse di fronte ad eccessi inammissibili», ribadendo il dovere di ingerenza umanitaria quando «i diritti fondamentali di un popolo sono in gioco». Nell'udienza generale del 12 febbraio 1994, san Giovanni Paolo II ribadiva lo stesso principio, invitando a «qualsiasi tipo di azione» - non «solo politica» ma «anche» militare - per «disarmare l'aggressore» quando minaccia di compiere stragi. 

L'8 agosto 1992, con la precisazione che la pubblicazione era stata esplicitamente autorizzata dal Pontefice, «L'Osservatore Romano» riportava questa dichiarazione del cardinale Segretario di Stato, Angelo Sodano: «Con il Papa abbiamo parlato delle preoccupazioni gravi per la Bosnia-Erzegovina. E abbiamo parlato un po' del diritto di ingerenza umanitaria. Direi che gli Stati europei e le Nazioni Unite hanno il dovere e il diritto di ingerenza, per disarmare uno che vuole uccidere. Questo non è favorire la guerra, ma impedire la guerra». Il giorno dopo, di fronte a polemiche di pacifisti, la Sala stampa vaticana ribadiva il pensiero del Papa, secondo cui è un «peccato di omissione» «non fare tutto il possibile - con i mezzi che le Organizzazioni Internazionali sono in grado di mettere a disposizione - per fermare l'aggressione contro popolazioni indifese», e in questi casi non intervenendo adeguatamente si diventa «complici del male».

Oggi, dopo la canonizzazione di Giovanni Paolo II, questo magistero acquista ancora maggiore autorevolezza. Dobbiamo davvero essere tutti attenti a non diventare «complici del male» per via di omissione e di inazione. Contro i carnefici, lo insegnano non solo i Pontefici ma la storia, le belle parole non bastano.
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Succede oggi. MILO

7/8/2014

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Immagine
di Sara Nevoso

Io la foto l’ho vista e, anche se non credevo, ho avuto i brividi. Che poi, se alle coppie gay urtano così tanto i sostantivi “mamma” e “papà”, non capisco perché i giornali abbiano titolato “la foto dei papà gay che commuove il mondo”.

Il pensiero è andato a mescolarsi con i ricordi, la memoria (ancora vivissima) della notte in cui è nato il mio primo bimbo e poi alle notti in cui sono nati il secondo e il terzogenito. Ho ricordato, cercando di acchiappare quell’emozione che mai e poi mai vorrei dimenticare, la gioia stupita, l’estasi rapita, l’immensa gratitudine che mi hanno attraversato testa e cuore quando le vite che avevo generato mi venivano dolcemente poggiate sul grembo.

Ho chiuso gli occhi e ho rivisto quegli esserini cercare il mio seno con il loro solo istinto a guidarli, ho risentito le mie mani tremare, la mia voce spezzarsi, le lacrime rigarmi il volto quando l’ostetrica mi ha detto: “bel lavoro mamma!”. Già, “mamma”, soprattutto la prima volta. Perché basta una volta per diventare quell’essere unico e speciale che è una madre, quell’essere così fortunato e baciato dalla Grazia che è capace di generare una vita nuova.

Dopo i ricordi sono arrivati i ragionamenti e gli “strizzoni di pancia”, di quelli che si sentono quando un’ingiustizia ci sembra così enorme che, dai, non ci si può credere, bisogna fare qualcosa! Dov’era la madre di quel bellissimo e dolcissimo bimbo?

Eppure io in una foto l’ho intravista, il suo viso sembrava urlare: “ma che state facendo?”, poi è scomparsa, impietosamente fagocitata da un fotoritocco che non riusciva a migliorare la sua immagine. Perché poggiavano dolcemente l’esserino appena nato su un petto villoso e non su un morbido e liscio ventre?

Io mi sono fatta un’idea. Oggi il “gay” rappresenta la categoria di persone che ha solamente diritti, qualunque tipo di diritto e, forse, nessun dovere. Per questo si chiama “felice”: niente gli tocca e tutto gli spetta.

Ha il diritto di non essere discriminato, ha il diritto di sposarsi, ha il diritto di comprare bimbi che altrimenti non può avere, di vestire come vuole, di frequentare chi vuole, di provocare senza scandalizzare, di essere capito senza neppure lontanamente fare, a sua volta, alcuno sforzo di comprensione. I signori che si prenderanno cura del piccolo Milo hanno dichiarato che il piccolo conoscerà tutti i tipi d’amore.

Tutti tranne il primo, quello che profuma di mamma.

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GAY, CHE MALE C'E'? SE HAI PAZIENZA, TE LO SPIEGO!

7/8/2014

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Bisognerebbe fermarsi a parlare con tutti, uno per uno, e rivoltare luoghi comuni, smascherare le menzogne dell'ideologia gender 
di Costanza Miriano


- Ehi! Dove vai con un top luccicante, tutta sola, di sera? Senza neanche un figlio per mano, un passeggino?
- Veramente è un pezzo che non vado in giro con il passeggino. E sono sola perché siamo in partenza per il mare domattina presto, i ragazzi dormono... il top luccicante, be' quello è perché dentro di me abita una signora cafona che aggiunge sempre uno strato brilluccicoso, un accessorio di troppo, uno strass grosso come un'oliva. Ha accoppato quella voce da sciura che le diceva di vestirsi, andare allo specchio e togliere qualcosa, quella piccola cosa di troppo, cacchiate tipo less is more. Less is less. Quanto all'essere qui in realtà è perché torno adesso dalle Sentinelle in piedi.
- Le Sentinelle di che?
Si sa che la sintesi non è il mio dono principale (e neanche la sobrietà, se è per questo) ma la faccia fatta dai miei interlocutori mi ha indotta a cercare di spiegare brevemente - quanto può durare al massimo la conversazione media di strada con amici (purtroppo) non molto frequentati? - la manifestazione contro la legge Scalfarotto alla quale avevo appena preso parte. È stato un esperimento interessante, è strano parlare con persone colte e intelligenti, e informate, ma non esattamente addentro la questione, come è normale che sia per chi non è particolarmente militante. La prima reazione è sempre "ma che t'hanno fatto i gay?".

PRECISAZIONI PRELIMINARI
Bisogna armarsi di pazienza, sperare che anche l'interlocutore ne abbia, tirare su le maniche della camicia - anche se si indossa un top - e spiegare svariate cosette. Precisare intanto che non si predilige la parola gay, che vuol dire contento, e che quindi è subdolamente allusiva a una presunta maggiore allegria delle persone omosessuali. Chiarire poi che non si ha assolutamente niente contro di loro. Puntualizzare che sì, certo, si è sentito il Papa che diceva chi sono io per giudicare. Annuire diffusamente nel breve intermezzo sulla simpatia di Papa Francesco. Infilare astutamente la precisazione che la frase del Papa simpatico - glissare sulla questione che anche i suoi predecessori lo erano, e uno lo è ancora - andava avanti con una precisa e pesantissima accusa sulle lobby omosessuali totalmente trascurata dai mezzi di informazione, perché il giornalista collettivo non ha una grande personalità e si muove in branco per essere sicuro di non sbagliare e di non prendere troppe iniziative che poi magari tocca pensare.

SCALFAROTTO CE L'HA CON ME
Passare poi all'azione, e chiarire che se io non ce l'ho con Scalfarotto, evidentemente è lui che ce l'ha con me, perché mentre io non voglio togliergli né la parola né la libertà di fare quello che vuole nella sua vita privata, la legge che porta il suo nome al contrario vuole istituire il reato di opinione, ciò che soprattutto per un giornalista non è una gran bella cosa. Esemplificare all'interlocutore perplesso alcune delle espressioni che le lobby omosessuali vorrebbero perseguibili penalmente, e dico penalmente. Cose molto aggressive tipo "un bambino per crescere in modo sano e armonioso ha bisogno di un padre e di una madre". Spiegare che al limite qualcuno può anche non essere d'accordo, ma certo nessuno potrà impedirmi di dire che la penso così, prevedendo per me addirittura il carcere. Ribadire che nessuno riuscirà a costringermi, neanche con la minaccia di una denuncia, a usare l'espressione "maternità di sostegno" invece che per esempio "utero in affitto".

L'IMPORTANZA DELLE PAROLE
Spiegare che le parole sono importanti, e che impormi di dire "maternità di sostegno" serve a far dimenticare che dietro ogni tenero pupetto neonato consegnato tra le braccia di una coppia omosessuale c'è la sofferenza di una madre che  viene pagata per tenere in pancia un bambino che al momento del parto non le verrà neanche appoggiato sul seno, la violenza fatta a un bambino che a un certo punto, in un secondo, dall'istante del parto non sentirà più il battito del cuore sotto al quale è vissuto per nove mesi, e dal quale in modo confuso e profondissimo credeva che sarebbe stato protetto, un bambino che non berrà il latte della sua mamma, non potrà toccare il suo seno giocandoci (a volte fino alle elementari) e annusandolo. Per non parlare delle svariate altre combinazioni possibili in molte parti del mondo, tipo ovuli e spermatozoi donati - leggi venduti - e bambini condannati all'angoscia di non sapere chi fossero i nonni, come si siano conosciuti, quale era il piatto preferito del nonno, la lingua della nonna, senza sentirsi raccontare mille volte di quella volta che lo zio cadde dall'albero.

CHE MALE C'È
Di solito l'interlocutore medio sul tema ha solo una vaga e diffusa opinione tipo "che male c'è se gli omosessuali hanno figli", ma se appena provi a spiegare che male c'è, quanto male, letteralmente, quanto dolore, è facile che alcune certezze vengano incrinate. La maggior parte della gente la pensa come noi, se appena si smaschera quanto costa il giochino del bebè alla coppia omosessuale. La maggior parte della gente è contro le adozioni agli omosessuali, perché tutti siamo nati da un padre e da una madre, per quanto limitati e sbagliati e criticabili, ma anche criticarli è un diritto che viene tolto a chi non avrà un modello maschile e uno femminile in casa. E la totalità della gente o quasi, credo, è contro la possibilità del carcere per chi esprime un'opinione.

CONCLUSIONE: RISCOPRIRE LA MILITANZA
Il problema è che bisognerebbe fermarsi a parlare con tutti, uno per uno, e rivoltare luoghi comuni, pilastri del politicamente corretto, smascherare le bugie e tirare fuori il coraggio di pensare con la propria testa senza paura di offendere. Bisognerebbe fare una specie di lavoro porta a porta con tutti quelli che incontriamo, parlare con il coraggio di dire le cose più semplici ed evidenti. Tipo che i bambini vogliono il babbo e la mamma.
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Bignami del politicamente corretto: l'assurdo concetto

6/8/2014

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Bignami del politicamente corretto: l'assurdo concetto
di G. Guzzo

Benvenuti nell’epoca del lessico zuccheroso, del detto ma soprattutto del non detto, della velatura preventiva verso ogni espressione che odori anche solo lontanamente – orrore – di verità. Benvenuti, insomma, nell’epoca del politicamente corretto, delle menti obbedienti a leggi non scritte ma osservate, ahinoi, da quasi tutti. Leggi accomunate dal paradigma onnicomprensivo dell’opportunità, per il quale non esistono più il buono o il cattivo, ma solo ciò che è conveniente e ciò che non lo è. Accade così che alcune parole – ritenute inopportune a priori, per quel che dicono e quel che sottendono – subiscano una censura progressiva fino ad essere, ormai, pressoché definitiva. Quali sono queste parole? L’elenco sarebbe lungo, ma è importante tenerne a mente almeno una decina, il salvagente più affidabile per fare sempre – sia che si stia discutendo con un collega, un amico o col vicino di casa – la figura della persona perbene e al passo coi tempi. E’ altresì fondamentale capire come queste parole siano, di fatto, la sostituzione di altre ritenute superate, o addirittura pericolose.

Da Dio a io

La prima parola è io, da sostituire il più possibile alla parola Dio: conviene non parlare troppo e meglio ancora non parlare mai – raccomanda il bon ton politically correct – di Dio, mentre è sempre opportuno parlare di sé, dei propri desideri e sogni: dal teocentrismo all’egocentrismo, sempre e comunque. E se proprio si vuole parlare di Dio, è opportuno farlo specificando che si tratta del “mio” Dio, in quanto frutto della mia immaginazione o comunque, anche se reale, subordinato alla mia esistenza e non io alla Sua. Nell’epoca delle parole sussurrate, Dio è dannatamente ingombrante, impegnativo, ben oltre i limiti della buona educazione. La musica cambia, invece, quando si parla di sé. E’ cioè sempre bello confrontarsi su cosa si intenda realizzare nella propria vita, mentre è sconsigliabile fare altrettanto sul dopo, tanto più se questo implica l’ipotesi di essere sottoposti ad un qualche giudizio divino. Tesi inconcepibile, per il politically correct.

Da doveri a diritti

E’ poi bene, se si vuole apparire impegnati, soffermarsi il più possibile, e alla prima occasione, sul tema dei diritti tralasciando il più possibile quello dei doveri: esiste il diritto a fare questo, ad ottenere quello, ma nessun dovere sul quale valga la pena riflettere: bene la conquista di nuovi diritti, male la salvaguardia di antichi doveri. Ne consegue che se un tempo i figli venivano cresciuti con i genitori intenti a trasmettere loro anzitutto il senso del dovere, oggi è importante che tutti sappiano che non solo – come pare sacrosanto – ciascuno ha dei diritti, ma ognuno è titolato ad inventarsene sempre di nuovi. Guai, invece, a ricordare che vi sarebbero tutta una serie di doveri: se lo si fa, si cessa immediatamente di essere persone stimate e ci si sente ricordare, qualunque cosa questa espressione significhi, “che siamo nel 2013”.

Dal giudizio all’opinione

E vediamo ora un passaggio chiave dei nostri giorni: l’abolizione del giudizio, di ogni giudizio, in favore dell’opinione. Nulla e nessuno è giudicabile. Non si può infatti giudicare nessuna azione in quanto sempre determinata, insegna il politicamente corretto, da cause esterne se non perfino accidentali. Non si può giudicare il furto (se uno ruba, è colpa di chi lo ha messo in condizioni di dover rubare), non si può giudicare il divorzio (se fra due l’amore finisce, non è colpa di nessuno), non si può giudicare l’aborto (se una donna non vuole tenere suo figlio, è libera di farlo e guai a chi fiata), non si può giudicare più quasi nulla. Nemmeno se si precisa che il giudizio è sull’azione prima che sulla persona: nulla da fare. Al massimo, se proprio si desidera intervenire, è doveroso precisare che s’intende esprimere “solo un’opinione”.

Dalla tradizione al cambiamento

Altro passaggio fondamentale è quello che impone di soffermarsi sempre, a priori, sul cambiamento in antitesi a tutto ciò che sia, anche lontanamente, riconducibile alla tradizione. Nella mentalità dominante il cambiamento viene difatti percepito quasi sempre come positivo – è buono cambiare partner, bello cambiare città, giusto cambiare aria, utile cambiare amici, possibile cambiare sesso – mentre la tradizione evoca immediatamente scenari polverosi, cupi, funerei o, bene che vada, meccanici e rituali. Per questo, se ci tenete rimanere al passo coi tempi, parlate sempre di cosa intendete cambiare e poco, pochissimo, di ciò che avete ereditato (si tratti di valori, di insegnamenti o di oggetti non fa differenza) da chi vi ha preceduto e siete intenzionati a conservare.

Dalla patria al mondo

Se col processo di globalizzazione la patria di ciascuno è diventata – o sta diventando – il mondo, grazie al nostro politically correct ci resta solo più il mondo senza più patria: da cittadini locali ad apolidi globali. E per chi osasse evocare l’importanza di avere – e magari pure di difendere – una patria, si solleva subito, quando va bene, l’accusa di essere un nostalgico del fascismo che non comprende il già citato ed entusiasmante cambiamento; come se la terra dei padri fosse invenzione mussoliniana o comunque di provenienza esclusiva di una certa fazione politica. Conseguenza rilevante di questa impostazione culturale è – insieme a quella di “cittadino” – l’estinzione del concetto di “straniero”, il cui impiego attira l’immediato sospetto di essere adepti di Mario Borghezio.

Dal progetto ai viaggi


Senza patria e con la necessità di cambiare (non vorrai forse restare indietro!), l’uomo contemporaneo si trova evidentemente impossibilitato a predisporre, per la propria vita, qualsivoglia progetto, mentre è incentivato a imbarcarsi continuamente in nuovi viaggi. Che siano viaggi turistici, viaggi studio, viaggi di lavoro o viaggi nei paradisi artificiali delle droghe, alla fine, conta relativamente: l’imperativo è viaggiare. A prescindere. Non viaggi? Non sai cosa ti perdi, è l’ammonimento che il politically correct lancia verso chiunque osi ricordare che la vita, prima che sulla trasferta esotica, si basa su un progetto; non sull’aeroporto più vicino ma su un orizzonte più ampio; sulle fondamenta di una casa e non sulla stanza di un albergo sempre occasionale e diverso dal precedente.

Dall’Amore al feeling


Diretto effetto di una concezione effimera della propria terra e della propria vita è, in salsa politicamente corretta, un forte ridimensionamento anche dell’Amore, parola – come “Dio” – troppo impegnativa da utilizzare e dunque da vivere. Nel tempo del cambiamento e dei viaggi continui com’è infatti possibile soffermarsi sul quello che, fra tutti, è il progetto per eccellenza nonché quello che fonde l’io col “noi”? E’ impossibile. Per questo, il politicamente corretto, nel costruire delle relazioni, ci suggerisce di dare più importanza al feeling, ossia alle sensazioni e al benessere, che diventano così i soli metri di valutazione. Viceversa, chi tentasse di vivere o addirittura di parlare con altri dell’Amore passerebbe come minimo per tardivo esemplare di figlio dei fiori. Non conviene.

Dalla famiglia alla coppia

L’opportunità di non parlare o di non interrogarsi troppo dell’Amore privilegiando il feeling, è seguita da quella di mettere il più possibile in secondo piano la famiglia in favore della coppia. Si tratta di un’eclissi – anche in questo caso – terminologica e culturale insieme: “farsi una famiglia” è difatti soppiantata, come espressione, dalla più agile “essere in coppia”. Questo principalmente per ragioni di maggiore inclusione: la famiglia definisce l’unione di un marito, una moglie ed eventuali figli, mentre sotto l’etichetta della “coppia” può essere ricompresa, all’insegna della citata legge del feeling, qualsiasi forma di unione: uomo e donna, uomo e uomo, donna e donna, uomo e bambino – come si augurano i sostenitori della legalizzazione della pedofilia – e via di questo passo. Ulteriore superamento della famiglia è poi l’impego del termine, decisamente rassicurante e politicamente corretto, di “famiglie”.

Dal sesso al genere


Inevitabile conseguenza del sentirsi continuamente in viaggio e quindi in mutamento, è la necessità di sostituire la categoria del sesso, notoriamente binaria e definitiva, con quella ben più varia e provvisoria del “genere”. Detta sostituzione si sta verificando anche grazie all’alleanza fra la teoria del gender – che in chiave materialista sostiene la derivazione di ogni umana natura dalla cultura (uomini e donne non si nasce, ma si diventa) – e il nostro politically correct, che provvede a neutralizzare qualsivoglia forma di obiezione alla cultura gender attraverso la sempre efficace accusa di fondamentalismo religioso. Come se il fatto di essere maschio o femmina fosse artefatto confessionale e non, come invece è, un dato di realtà come tale verificabile da chiunque osi discutere i dettami della cultura dominante.

Dalla verità alla libertà

Ultimo e fondamentale concetto da tenere a mente per diventare affidabili esponenti del politicamente corretto e, dunque, persone di un certo livello, è quello che concerne la rimozione della verità in favore della libertà. Già accennato nell’avvicendamento dal giudizio all’opinione, questo aspetto configura l’atteggiamento che un buon seguace del politically correct non dovrebbe mai perdere di vista, ossia quello di mettere sempre in discussione l’idea di verità generale e di non discutere mai quella di libertà individuale; più che un criterio o di una sostituzione terminologica simile alle precedenti, siamo qui in presenza di un dogma. Perché nel tempo del politicamente corretto, anche grazie alle grandi possibilità comunicative, ciascuno è libero di dire qualsiasi cosa. Purché non pretenda di avere ragione o di affermare che la libertà di ognuno, anche nei confronti di se stesso, debba essere limitata. Sarebbe davvero qualcosa di politicamente scorrettissimo.
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