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Ho la prova che Umberto Veronesi è un ciarlatano!

17/11/2014

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L’ultima sparata del ‘famoso’ (con i nostri soldi) Umberto Veronesi: “Il cancro dimostra che Dio non esiste”

Umberto Veronesi torna a far parlare di sé. E sempre per cose che dice che rasentano l’idiozia. 

Il direttore scientifico dell’Istituto europeo di oncologia, nel libro Il mestiere di uomo (Einaudi, in uscita martedì 18 novembre), spiega come nel corso della sua vita sia maturato il suo agnosticismo. Parte degli estratti del libro sono stati anticipati da Repubblica. Dopo il racconto dell’infanzia da “inappuntabile chierichetto e paggetto”, dopo aver parlato del rapporto con il padre, l’oncologo spiega come è arrivato a maturare certe convinzioni.

In uno degli estratti si legge: “La scelta di fare il medico è profondamente legata in me alla ricerca dell’origine di quel male che il concetto di Dio non poteva spiegare. Da principio volevo fare lo psichiatra per capire in quale punto della mente nascesse la follia gratuita che poteva causare gli orrori di cui ero stato testimone. Avvicinandomi alla medicina, però, incappai in un male ancora più inspiegabile della guerra, il cancro”.

Il pensiero - Veronesi spiega che, come per tutti i medici impegnati nella lotta contro i tumori, il dolore non è più qualcosa che sfugge, qualcosa di intangibile, ma assume forme e contorni ben definiti. E, spiega, è proprio a quel punto che “diventa molto difficile identificarlo (il cancro, ndr) come una manifestazione del volere di Dio. Ho pensato spesso che il chirurgo, e soprattutto il chirurgo oncologo, abbia in effetti un rapporto speciale con il male. Il bisturi che affonda nel corpo di un uomo o di una donna lo ritiene lontano dalla metafisica del dolore. In sala operatoria, quando il paziente si addormenta, è a te che affida la sua vita. L’ultimo sguardo di paura o di fiducia è per te. E tu, chirurgo, non puoi pensare che un angelo custode guidi la tua mano quando incidi e inizi l’operazione, quando in pochi istanti devo decidere cosa fare, quando asportare, come fermare un’emorragia.”

Riassumo velocemente il pensiero di Veronesi con un paragone (lo premetto, è una idiozia come la sua ndr) che dimostra che Veronesi non esiste. Proprio come dice lui di Dio. Io ho un tumore e non mi faro’ mai operare da Veronesi. Questo dimostra che Veronesi non esiste.

Ma quando vanno in pensione definitiva questi elementi dannosi per la società, che raccolgono milioni di euro con la politica e con le fondazioni a noi cittadini? 

di Giovanni Profeta
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La Scala Santa di San Giuseppe

17/11/2014

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A Santa Fe, nel New Mexico, c’è una scala a chiocciola costruita al di fuori di ogni regola. L’ha fatta un falegname rimasto sconosciuto. Non dovrebbe stare in piedi, ma da oltre cent’anni è lì. Che l’abbia costruita san Giuseppe?


Sappiamo bene che Dio è “Padre Onnipotente”. 

Sono le prime parole della nostra professione di fede. Le conosciamo e le crediamo profondamente vere. Tuttavia, capita che quando Dio, al quale “non erit impossibile omne verbum”, ossia nulla è impossibile, decide di sospendere le leggi della natura da lui stesso create, capita, dicevamo, che si resti sorpresi, quasi stupefatti dinanzi alla sua onnipotenza. Forse – parliamo per noi in prima persona – se avessimo più fede certi “prodigi” non ci scomporrebbero minimamente, li riterremmo un modo come un altro utilizzato dal Signore per manifestare il suo amore. 

Il caso che stiamo per esporre ne è un esempio. Come doveroso, offriamo qualche connotato storico.

Siamo nel 1872 in America, precisamente a Santa Fe, capitale del New Mexico.
Il vescovo locale, Jean Baptiste Lamy, decide di far costruire una cappella, precisamente la cappella di Loretto (sì, con due T, il nome inglese infatti suona come: Sisters of Loretto) per poter fornire un luogo di culto alle suore appena stabilitesi, dopo una peregrinazione che le vide attraversare il Sud-Ovest degli Stati Uniti, il Kentucky, il Missouri ed il Kansas.

Le suore (quattro, la superiora suor Madeleine, Suor Catherine, Suor Hilaire e Suor Robert) appena giunte sul posto iniziarono dunque ad appaltare i lavori adiacenti alla loro semplice abitazione, affinché, oltre al convento, potesse essere eretta una struttura simile alla “Sainte Chapelle” di Parigi, dunque, la prima cappella gotica ad ovest del Mississippi. Il progetto fu affidato all’architetto P. Mouly, noto per la sua perizia e capacità: aveva, tra l’altro, realizzato la cattedrale di Santa Fe. I lavori durarono cinque anni. La cappella misurava 22,5 metri di lunghezza, era larga metri 7,5 ed alta metri 25,5.

L’opera terminata era esteticamente ammirevole. La galleria, gli archi, la navata riuscivano a dare il senso del divino, a coinvolgere e a creare l’idoneo raccoglimento. Ciò che sconvolse le suore fu il doversi accorgere, di colpo, che il coro non era accessibile, dal momento che non era stata né progettata né dunque costruita una scala apposita per potervi accedere dalla tribuna. D’acchito si cercò l’architetto progettista, nel tentativo di riuscire a tamponare l’errore, ma questi era da poco deceduto.

Vennero a questo punto contattati diversi ingegneri, i quali emisero unanimemente un triste verdetto: il danno era irreparabile, lo spazio non era sufficiente alla costruzione di una scala. L’unica alternativa era costituita dalla edificazione di una nuova galleria, o, altrimenti, la costruzione di una scala a chiocciola, sicuramente inusuale.
Le suore si comportarono nell’unico modo nel quale può comportarsi un cristiano dinanzi alle difficoltà: ossia, memori dell’aforisma: «Quando pare non ci sia più nulla da fare, si può ancora pregare», decisero di iniziare una novena a San Giuseppe (sotto il cui patronato era stata posta la cappella), nella sicura speranza che il Cielo non le avrebbe abbandonate in una situazione così incresciosa. Per nove giorni e nove notti, senza sosta, elevarono preghiere al patrono dei falegnami, affinché potesse intercedere in loro favore.

Il nono giorno, inaspettatamente, si presentò alla porta del loro convento un uomo strano, con i capelli grigi, accompagnato da un asino carico di piccoli e semplici strumenti da lavoro. Questi chiese di poter conferire con suor Maddalena, la superiora, e manifestò la volontà di costruire lui stesso la scala mancante. La religiosa accolse di buon grado la proposta di quest’uomo, anche se non era stato da loro interpellato.

Il falegname iniziò a lavorare dentro la cappella e chiese di essere lasciato solo mentre si adoperava per la riuscita della sua opera. Ogni tanto, però, qualche consorella riusciva a sbirciare e la perplessità era pressoché di tutte: l’uomo, infatti, si serviva soltanto di una sega, un goniometro e un martello. Invece dei chiodi utilizzava cavicchi. Tra le stranezze notavano poi che immergeva dei pezzi di legno in secchi d’acqua: insomma, oggetti poveri e usati in maniera quantomeno atipica. Per rispetto, non vollero intromettersi e restarono ad attendere la conclusione dell’operato.

Dopo tre mesi la scala poteva dirsi pronta e se fino ad ora si poteva parlare di coincidenze, stranezze, atipicità, adesso bisognava ammettere l’inspiegabile. La scala consisteva appunto in una doppia spirale apparentemente sospesa senza punti d’appoggio, assemblata senza alcun chiodo e realizzata con una tipo di legno assolutamente sconosciuto.
Quando madre Maddalena volle pagare il carpentiere per il lavoro svolto, non riuscì a trovarlo, essendo scomparso.
Le suore volevano sdebitarsi e fecero tutto il possibile per rintracciarlo, senza alcun esito positivo. Nessuno, infatti lo conosceva né l’aveva mai visto prima di allora.

Torniamo alla scala, denominata, non dunque senza motivo “scala santa”.
Essa è composta da trentatre gradini (gli anni di Gesù) che girano su due spirali di 3600 esatti. Il fatto inconcepibile è che il tutto è senza alcun sostegno centrale. Non avendo alcun pilastro centrale per sostenerla, significa che tutto il peso deve gravare necessariamente sul primo gradino, un controsenso, assolutamente impensabile secondo le più elementari leggi della fisica e della statica. Le stesse suore temevano non poco a salire, consce del prodigio che le vedeva coinvolte.

Gli enigmi legati a quell’episodio non sono mai stati risolti: chi era quell’uomo? Da dove veniva? Come faceva a conoscere le necessità del convento? Come fece, da solo, a progettare e a realizzare la scala, una scala con la perfezione delle curve dei montanti irrealizzabile in quell’epoca? (il legno è raccordato sui Iati dei montanti da nove spacchi di innesto sull’esterno, e da sette sull’interno). Come riuscì nella sua impresa senza servirsi di chiodi e altri utensili indispensabili alla realizzazione? Come mai nessuno ebbe a sapere chi fosse? Da dove proveniva quel legno unico, che, ad oggi, nessuno sa classificare e appare sconosciuto agli studiosi? Come può una scala reggersi in equilibrio senza sostegno centrale e non crollare istantaneamente ma, al contrario, portare per decenni il peso quotidiano di centinaia di persone senza mostrare il benché minimo cedimento? Di più, senza presentare la minima traccia di usura inevitabile dopo quasi un secolo e mezzo? Le testimonianze parlano inoltre di una sorta di “leggerezza” che si avverte nel percorrere gli scalini.

La ragione non può dare risposta; forse, più semplicemente, bisogna ammettere, con Pascal, che l’ultimo stadio della ragione è riconoscere che vi sono una quantità infinita di cose che la superano.
Che sia stato veramente S. Giuseppe ad edificare quest’opera? Ciò che, in ogni caso, non lascia dubbi è l’inspiegabilità del susseguirsi degli eventi e il fatto che, ad oggi, resta un capolavoro vivente, visitato anche da non credenti i quali non possono che constatare l’oggettiva inspiegabilità della costruzione.

La scala santa attualmente attira oltre duecentocinquantamila visitatori l’anno, è meta di numerosi pellegrinaggi da ogni parte del mondo ed è da centotrentasette anni al centro del più singolare prodigio religioso architettonico mai esistito.
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«Caro Gigi, anche io mi sono separato da mia moglie, ma poi…» 

11/11/2014

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Lettera al mitico Buffon. «Caro Gigi, anche io mi sono separato da mia moglie, ma poi…» 

Riceviamo e pubblichiamo - 

Caro Gianluigi Buffon, 
ti scrivo queste parole a seguito di una foto che mi è capitata davanti su google. Ho sempre avuto questo pensiero interiore e ora ho preso il coraggio e ho voluto scrivere un mio personale pensiero sperando di non risultare poco rispettoso nei tuoi confronti, ma molto speranzoso che ti giungano queste mie parole davanti agli occhi e soprattutto nel cuore.

Anche io ho vissuto il tumulto della separazione da mia moglie (con un bambino di circa 3 anni al seguito) per motivi legati ad un apparente incompatibilità e altri motivi attinenti… Mi ero convinto di essermi innamorato di un’altra donna (molto bella e intelligente) ed ero pronto a lasciare mio figlio tra le buone mani di mia moglie (ex in quel momento) privandolo della preziosa e costante presenza del suo papà pur di seguire i miei desideri e quindi il mio fine egoismo che mi replicava dicendomi (lei ti trascura e non ti ama più, oramai non la ami più, tutti si separano e separarsi oggi è normale, i figli avranno comunque tutto ciò che potrò dargli, mi sono innamorato di questa donna ecc.) ma in fondo la vera cosa che dovevo dirmi quanto sei disposto ad offrire per amore di tuo figlio?

Quanto sei disposto a cambiare per far fede al giuramento di fedeltà fatto? Quanto ami veramente tuo figlio per dimostrarlo con un atto di vero altruismo? Piano piano il mio cuore cominciò a sentirsi sporco, la mia anima era triste, il mio egoismo mi accecava e mi toglieva speranza verso la famiglia, il mio orgoglio mi teneva legato alle mie scelte di puro egoismo…

Un giorno mi sono detto: ma se io oggi avessi avuto un papà che mi avesse tolto la famiglia nella quale sono nato per un’altra donna che mai potrò chiamare mamma, sarei stato contento di lui?

Ebbene: no! Ho cominciato a vergognarmi e ho cominciato a pensare che amare è soprattutto saper rinunciare. Così presi coraggio, desiderando di rimettere a posto la famiglia e ridare a mio figlio la sua mamma e il suo papà… Fu un periodo di purificazione che durò un paio d’anni e, in seguito a un pellegrinaggio a Medjugorje con mia moglie (dove andammo da separati), la Madonna ci mise la mano e oggi mi trovo qui a scriverti serenamente riunito con mia moglie e mio figlio che oggi è più grande e con un rapporto totalmente nuovo che è più intenso del primo periodo matrimoniale…

Prego il Signore affinché il tuo lato umano e paterno emerga dal tuo cuore e possa ridonare ai tuoi figli e al tuo matrimonio la pace e la serenità di cui necessitate!

Un tuo tifoso!

Lettera firmata
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Anna Marchesini: "Non ho ancora capito perché si sta in vita ma ci sto"

5/11/2014

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Il ritorno dell'attrice ammalata richiama il caso Brittany Maynard e fa riflettere sulla dignità della vita

“Si sta in vita per obbedire alle necessità della vita. Io l’ho scritto nel libro. Ma non lo penso… Non ho ancora capito perché si sta in vita ma ci sto” è la voce piena di energia di Anna Marchesini che, nonostante la malattia, torna alla ribalta dal 4 al 16 novembre al Piccolo Teatro Paolo Grassi di Milano, con uno spettacolo tratto da uno dei racconti del suo ultimo libro Moscerine.

Decisa a vivere alla grande
L'attrice è tornata a mostrarsi in pubblico il 2 novembre ospite di Fabio Fazio a quasi un anno dalla sua scorsa apparizione a Che Tempo Che Fa. Combattiva e decisa a voler vivere alla grande, Anna Marchesini non ha esitato a raccontare la sua condizione di vita: la comica di Orvieto da anni soffre di un’artrite reumatoide che l’ha costretta a stare lontano dalle luci della ribalta. Ma chi la ascolta non vede una donna rassegnata. Tutt'altro. Può ammirare e sentirsi coinvolto dal suo racconto. Ironica, senza paura, spigliata e vivace, Anna Marchesini ha ironizzato a più riprese su di sé, sulla sua malattia, sui perché della sua vita, raccogliendo applausi e standing ovation. Apparsa molto magra e scavata in viso, ha fatto prevalere su tutto la sua gran voglia di lottare.

Il caso Brittany Maynard
Proprio il giorno prima del suo ritorno in TV, il 1 novembre, un'altra donna dall'altra parte del pianeta, aveva scelto di non combattere più: Brittany Maynard. Storie diverse, certamente, ma con un punto in comune: la convivenza con una malattia irreversibile. In aiuto a Brittany sono arrivati numerosi appelli di persone che, come lei, sono affette da mali incurabili: Kara Tippets, madre di 4 figli, che ha scritto una lettera alla ragazza testimoniando la sua grande fede, mostrandole che la morte non è priva di Bellezza se affidata alle mani del Signore. E poi Phillip Johnson, seminarista di 30 anni che convive con un cancro terminale dal 2008. Philip ha mandato un messaggio alla donna dicendo che “La sofferenza e il dolore del cuore che sono parte della condizione umana non devono essere sprecati e interrotti per paura o cercando controllo”. Ma nonostante queste testimonianze di amore al suo destino, Britanny non ha cambiato idea.

Dignità della vita
In questa sede non giudichiamo la scelta di Britanny ma cerchiamo di portare alla luce la testimonianza di coloro che affermano il valore ultimo della vita. Di chi lo fa con i suoi modi, con la sua storia e il suo temperamento. Di chi non si arrende perché, sotto sotto, intravede un significato anche nel dolore. Anna Marchesini ha mostrato con il suo humour che esiste una dignità, una modalità diversa di guardare alla propria malattia.
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