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Perché la Bibbia non va interpretata alla lettera?

22/8/2014

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Se è realmente ispirata da Dio perché non va compresa e quindi applicata così com'è?


La Bibbia è una comunicazione divina, trascendente e quindi destinata a rivestire un valore assoluto e permanente, in una espressione umana, secondo quindi un linguaggio, generi letterari ed esperienze storiche profondamente connessi ad autori legati al tempo e allo spazio. Una interpretazione che si concentri solo ed esclusivamente sull'aspetto letterale del testo sacro non solo snatura questa duplicità, ma paradossalmente può giungere a esiti opposti.

La domanda si tira dietro direttamente la cosiddetta “questione ermeneutica”, ossia la questione dell'insieme dei criteri necessari a una corretta interpretazione delle Sacre Scritture che, riflettendo la realtà della Rivelazione di Dio, richiamano immediatamente anche quella dell'Incarnazione: così come il Verbo, Parola eterna e perfetta di Dio, si fa carne in Gesù, secondo quanto affermato da san Giovanni (Gv 1,1.14), così anche la Bibbia è Parola divina, ispirata, che permane in eterno, incarnata, rivestita da parole ed eventi umani storici e contingenti.  

È perciò chiaro che due devono essere anche gli approcci interpretativi: da una parte  occorre seguire un metodo storico-critico mirato a fare chiarezza e a sciogliere i nodi delle vicende, della mentalità e del linguaggio umano, legato a coordinate temporali, spaziali e culturali ben precise che fanno da sfondo agli autori sacri; dall'altra è necessaria una guida trascendente, capace di far cogliere la verità di fede e di vita che è racchiusa nel testo. In quest'ottica vanno lette le parole di Gesù, quando assicura l'aiuto dello Spirito Santo che “insegnerà ogni cosa, vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto […] e vi guiderà alla verità tutta intera” (Gv 14,26; 16,13).

Al contrario, molti gruppi e sette, come i Testimoni di Geova, ricorrono a una lettura “fondamentalista” 
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Se Dio perdoni anche quelli che compiono il male seguendo la loro coscienza

21/8/2014

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Se Dio perdoni anche quelli che compiono il male seguendo la loro coscienza

Quesito

La quinta domanda che le pongo riguarda il concetto del peccato
Presupponendo che le risposte alle precedenti domande potrebbero convincere sull'assoluta e esclusiva bontà di Dio, vorrei soffermarmi sul concetto di peccato; informandomi qua e la, sono venuto a sapere che si commetterebbe un peccato verso Dio soltanto nel momento in cui qualcuno trasgredisce la legge divina sotto piena consapevolezza, volontà e coscienza.
Questa domanda è rivolta all'umanità in senso universale.
Ora mi chiedo: presupponendo che Dio sia onnisciente, egli assolverebbe le persone in base al fatto che non sapevano ma che se avessero saputo non avrebbero peccato, o in base al fatto che non sapevano ma anche se avessero saputo avrebbero commesso ugualmente il peccato? Dio punirebbe soltanto in base ad una semplice macchia sulla coscienza, quindi ognuno potrebbe commettere peccati diversi senza macchiarsi di peccato, perchè per la sua coscienza non lo sono? Queste domande intendono sia credenti "veri", sia credenti a modo proprio, sia agnostici, sia non credenti e sia appartenenti ad altre religioni, che conoscono perfettamente, discretamente, quasi nulla o nulla della teologia cristiana, compresi i peccati.
Come risponderebbe ufficialmente la dottrina cattolica a questi quesiti?

Risposta del sacerdote

1. è vero quanto riporti della dottrina cattolica circa il peccato mortale.
Perché uno lo compia si richiede materia grave, piena avvertenza della mente e deliberato consenso della volontà.
Tu mi chiedi però se compiano peccato solo quelli che, pur conoscendo la legge di Dio e la trasgrediscono o invece lo compiano anche quelli che non ne sono a conoscenza.

2. A proposito della legge di Dio è necessario distinguere tra legge naturale e legge ulteriormente data nella Divina Rivelazione. Quest’ultima viene chiamata anche legge positiva.
È chiaro che sono tenuti all’osservanza della legge ulteriormente data nella Divina Rivelazione solo i cristiani. 
Sono leggi ulteriormente date ad esempio sono i precetti riguardanti la confessione, l’Eucaristia, la recezione degli altri sacramenti e le leggi stabilite dalla Chiesa (digiuno, astinenza…).
Ma la legge naturale è scritta nel cuore di ogni uomo e tutti devono essere in grado di comprenderla. Ne parla chiaramente san Paolo a proposito della salvezza dei pagani.
Dice: “Quando i pagani, che non hanno la Legge, per natura agiscono secondo la Legge, essi, pur non avendo Legge, sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono” (Rm 2,14-15).
La Legge cui fa riferimento San Paolo è la legge degli ebrei, quella data attraverso Mosè nell’Antico Testamento.
Ebbene San Paolo dice che i Pagani, pur non avendo la Divina Rivelazione, osservano la legge che è scritta nei loro cuori. Questa Legge ora li accusa ora li scusa.

3. Il Concilio Vaticano II nella Gaudium et spes dice la stessa cosa a proposito della coscienza:
“Nell'intimo della coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell'intimità del cuore: fa questo, evita quest'altro.
L'uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell'uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità” (GS 16).
Come vedi, il Concilio risponde alla tua domanda: ogni uomo sarà giudicato secondo quanto Dio ha scritto nel cuore di ognuno.
Nessuno può dire in quel giorno a Dio: “io non sapevo che non era lecito rubare, non era lecito uccidere, non era lecito commettere adulterio, che non era lecito commettere atti impuri…”.

4. Purtroppo qualcuno può giungere ad un punto di depravazione da non riconoscere più facilmente i confini del bene e del male.
Sicché accanto ad una coscienza invincibilmente e incolpevolmente erronea esiste anche il caso di una coscienza invincibilmente ma colpevolmente erronea. 
E questo si verifica “quando l'uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all'abitudine del peccato” (GS 16).
Ho l’impressione che quest’ultimo caso si verifichi abbastanza di sovente: la coscienza diventa quasi cieca in seguito all'abitudine del peccato” (GS 16).
Non dobbiamo dimenticare quanto ha detto il Signore: “E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie” (Gv 3,19).
Il peccato, se non viene rimediato col pentimento e un cambiamento di vita, poco per volta fa diventare insensibili alla voce della coscienza e alla fine non la si percepisce più.

5. Non è dunque sufficiente dire: “ho seguito la mia coscienza”.
La coscienza potrebbe anche essere ottenebrata, depravata.
Nessuno allora si può scusare davanti a Dio.
Giovanni Paolo II scrive: “Come dice l'apostolo Paolo, la coscienza deve essere illuminata dallo Spirito Santo (cf Rm 9,1), deve essere «pura» (2 Tm 1,3), non deve con astuzia falsare la parola di Dio ma manifestare chiaramente la verità (cf 2 Cor4,2). D'altra parte, lo stesso Apostolo ammonisce i cristiani dicendo: «Non conformatevi alla mentalità di questo mondo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2).
Il monito di Paolo ci sollecita alla vigilanza, avvertendoci che nei giudizi della nostra coscienza si annida sempre la possibilità dell'errore. Essa non è un giudice infallibile: può errare” (Veritatis splendor 62).

6. Come vedi è necessario essere sempre integri nel proprio agire morale, perché questo ha risonanze sulla nostra coscienza: la rende limpida.
Al contrario il peccato la ottenebra.
Giovanni Paolo II quando parla degli effetti del peccato dice che il peccato finisce col rivolgersi contro l’uomo stesso, con un’oscura e potente forza di distruzione” (Reconciliatio et Paenitentia, 17).
Dice anche che “il peccato ha le sue prime e più importanti conseguenze sul peccatore stesso: cioè nella relazione di questi con Dio, che è il fondamento stesso della vita umana; nel suo spirito, indebolendone la volontà ed oscurandone l’intelligenza” (Reconciliatio et Paenitentia,  16).
Quello che è successo ai tempi del Signore quando ha detto “gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie” (Gv 3,19) si verifica in tutte le epoche, compresa la nostra.
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Che cosa si intende per timor di Dio? In che senso è un dono dello Spirito da accogliere?

20/8/2014

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Che cosa si intende per timor di Dio?
In che senso è un dono dello Spirito da accogliere?

D.
Caro padre, mi spiega cosa si intende per timor di Dio? Un saluto

R.
Il timore di Dio è uno dei sette doni dello Spirito Santo. E' opportuno subito precisare che dobbiamo cercare di non identificare il termine timore di Dio con paura di Dio. Nel libro dell'Esodo leggiamo: “Dice il Signore nessuno può vedermi e restare vivo” (33,20).

L'idea di terrore davanti alla grande potenza di Dio deve essere fortemente combattuta per dare spazio a una grande riverenza e a una riconoscenza fiduciosa nei confronti di Dio Padre. Dio è amore e padre e perciò non può e non deve farci mai paura. Leggiamo nel libro dei Proverbi: “Il timore del Signore è una scuola di sapienza: prima della gloria c'è l'umiltà” (15,33).

La contemplazione della grandezza di Dio e dell'amore di Cristo che si dona non può non suscitare in noi quel timore filiale che deve portarci a considerare non tanto il castigo per il peccato, ma l'offesa filiale per la carente disponibilità nell'accoglienza dell'amore. La nostra fedeltà a Dio, al suo amore, alla sua parola, deve affondare le sue radici non nella paura del castigo ma nella preoccupazione filiale dell'offesa. Il timore di Dio rimane un dono dello Spirito Santo offerto a tutti noi. Dinanzi a ogni dono, si richiede sempre un duplice atteggiamento: prima di tutto la disponibilità all'accoglienza e poi la gratitudine per quanto ricevuto. Questo deve portarci a riflettere continuamente e sinceramente su come accogliamo, custodiamo e facciamo fruttificare i doni di Dio. La risposta rimane una responsabilità che cade sulla coscienza di ciascuno di noi.
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È possibile fare la Comunione senza essersi prima confessati?

19/8/2014

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È possibile fare la Comunione senza essersi prima confessati?
Non basta a volte il sincero pentimento dei peccati commessi?

Domanda
Venni a Firenze nel 1954, ero ragazzino, fui accolto nella parrocchia di San Jacopino a Firenze. Avevo già fatto la Prima Comunione e la domenica, prima di comunicarci la suora prendendoci con amore la testa fra le mani ci chiedeva se eravamo in grazia di Dio; se avevamo fatto qualche marachella o detto una bugia, allora lei ci consigliava di fare la comunione spirituale e di confessarsi. Vedevo ai confessionali file lunghissime di donne e qualche uomo (gli uomini allora tendevano a confessarsi in sacrestia).

Poi la vita è passata, è venuto il Concilio e giustamente sono stati girati gli altari. Io mi trovo da pensionato a frequentare ancora la chiesa e vedo come le cose sono cambiate rispetto ai Sacramenti: i confessionali sono per lo più vuoti, mentre la Comunione ci si vergogna a non farla. E ora la domanda al teologo: siamo passati da un eccesso all’altro o abbiamo smarrito il senso del peccato?

Risponde padre Giovanni Roncari, docente di storia della Chiesa

La lettera richiederebbe una risposta molto ampia e articolata, perchè riguarda, a mio parere, non una semplice prassi pastorale, ma tutto un modo di praticare la vita cristiana nei due fondamentali sacramenti (dopo il Battesimo) della Eucaristia e della Penitenza e del loro reciproco rapporto. Una risposta che necessariamente deve attingere dalla storia della Chiesa, della teologia, della spiritualità, della liturgia ecc... in altre parole dal vissuto del popolo cristiano. Si può toccare quasi con mano come la prassi pastorale e la dottrina teologica non siano due parallele che non si intersecano mai, ma che, anzi, l’una non può fare senza l’altra e che entrambi sono necessarie per comprendere la rivelazione cristiana.

È utile partire da quanto insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica. Dopo aver affermato che la Messa è «inseparabilmente memoriale del sacrificio nel quale si perpetua il sacrificio della croce e il sacro banchetto della comunione al Corpo e sangue del Signore» (n.1382), si ricordano le parole del Signore «in verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita» (Gv.6,35) (n.1384). Da questa premesse si passa all’insegnamento pratico: «Per rispondere a questo invito dobbiamo prepararci a questo momento così grande e così santo: San Paolo esorta ad un esame di coscienza: "chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e sangue del Signore: ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva a questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna” (1 Cor. 11,27-29) Chi è consapevole di aver commesso un peccato grave, deve ricevere il sacramento della Riconciliazione prima di accedere alla comunione». (1385)

Nel Catechismo, dunque, si propone la dottrina e la prassi pastorale plurisecolare come valida e impegnativa. Non si esorta ad una faciloneria che porti a sottovalutare la fondamentale importanza della comunione eucaristica che scadrebbe così in una innocua abitudine, nè a sottovalutare il peccato grave abituandosi a conviverci. Possiamo chiederci perchè nella mentalità comune comunione e confessione sembravano essere quasi un unico sacramento, la confessione come condizione per poter ricevere la comunione eucaristica. Molte sone le cause che hanno portato a questo, non ultima quella della rarefazione della comunione diventata un evento straordinario della vita cristiana e non una prassi piuttosto comune. Era abituale non fare la comunione pur assistendo alla messa domenicale. Tutti ricordiamo la prescrizione del Concilio Lateranense IV (1215), diventata poi il terzo precetto generale della Chiesa «confessarsi almeno una volta all’anno e comunicarsi almeno a Pasqua» era il minimo richiesto, diventato poi per molti il massimo consentito! Può invece sorprendere che nella Regola di santa Chiara d’Assisi, sia stabilito per le monache clarisse di comunicarsi sette volte l’anno, ma di confessarsi almeno dodici volte l’anno (cap. III della Regola) Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Con l’andar del tempo è invalso l’uso di premettere sempre la confessione alla comunione intesa più come premio dato ai santi che come pane dispensato ai pellegrini (cfr. sequenza del Corpus Domini).

La riforma liturgica impostata dal Vaticano II e preparata dal movimento liturgico, almeno dalla seconda metà dell’ 800 in poi (come non ricordare le riforme di san Pio X agli inizi del secolo scorso sulla comunione frequente e sulla comunione ai bambini) ha riequilibrato la prassi teologica e pastorale anche se questo non significa necessariamente che tutti i problemi siano risolti e non si siano generati abusi e interpretazioni quanto meno discutibili. Il Catechismo della Chiesa Cattolica dedica vari paragrafi (nn. 1391-1398) ai frutti della Comunione sottolineando in particolare il perdono dei peccati e il distacco dal peccato stesso come felice dono della Eucaristia. La citazione di due stupendi brani patristici (sant’Ambrogio e san Fulgenzio di Ruspe) e del Concilio di Trento (ripreso poi dal Catechismo per i Parroci) evidenziano una continuità di dottrina pur nel variare dei tempi e delle sensibilità.

Citiamo solo il testo di sant’Ambrogio. «Ogni volta che lo riceviamo (il sacramento eucaristico) annunziamo la morte del Signore: Se annunziamo la morte, annunziamo la remissione dei peccati. Se, ogni volta che il suo sangue viene sparso, viene sparso per la remissione dei peccati, devo riceverlo sempre, perché sempre mi rimetta i peccati. Io che pecco sempre, devo sempre disporre della medicina». ( De sacramentis, 4,28)

In quanto all’altra domanda, se abbiamo smarrito il senso del peccato, si dovrebbe aprire una riflessione ben più ampia e che supera certamente il problema del rapporto fra comunione eucaristica e il peccato.
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Cosa significa che dobbiamo vantarci delle nostre debolezze? Questo vale anche per i peccati?

14/8/2014

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Cosa significa che dobbiamo vantarci delle nostre debolezze? Questo vale anche per i peccati?

D. Nella seconda lettera ai Corinzi San Paolo dice di vantarsi delle sue debolezze, in quanto necessarie per avere la grazia di Dio. Questo vale anche per i peccati? Non dobbiamo dolerci più di tanto di certi peccati, se questi aprono alla grazia di Dio? Certo la grazia si ha se siamo peccatori, infatti Gesù è venuto per i malati e non per i sani!


Risponde don Stefano Tarocchi, Preside della Facoltà teologica dell’Italia centrale

Il tema della debolezza è ampiamente presente nelle lettere dello stesso apostolo (e non solo!), e merita quindi un approfondimento, non fosse altro che per capire il significato esatto delle sue parole, così da non aprire a interpretazioni non necessarie.

Già nella stessa corrispondenza con la chiesa di Corinto, troviamo che l’apostolo accosta stoltezza e debolezza di Dio, per dire che esse sono rispettivamente più sagge e più forti degli uomini (1 Corinzi 1,25). Ma, aggiunge Paolo, «quello che è stolto per il mondo, Dio l’ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio l’ha scelto per confondere i forti (1 Corinzi 1,27). Più avanti l’apostolo precisa ai Corinzi che egli stesso si è presentato a loro «nella debolezza e con molto timore e trepidazione» (1 Corinzi 2,3).

Anche solo da questo primo sguardo, appare evidente che la debolezza ha a che fare con la condizione umana, con le sue contraddizioni, come quella che provano quanti, deboli nella coscienza, sono turbati dall’aver mangiato carni originariamente destinate al culto degli idoli (1 Corinzi 8,7). Nella complessa questione cui qui è possibile solo accennare, Paolo mette in guardia quanti si sono liberati da questo condizionamento: infatti «non esiste al mondo alcun idolo» (1 Corinzi 8,4), scrive, e se anche «alcuni hanno molti dèi e molti signori», «per noi c’è un solo Dio, il Padre … e un solo Signore, Gesù Cristo» (1 Corinzi 8,6). E tuttavia, egli conclude, se c’è il pericolo che la coscienza di un debole vada in rovina, «un fratello per il quale Cristo è morto», «non mangerò mai più [questo tipo di]carne, per non dare scandalo al mio fratello» (1 Corinzi 8,11.13). La debolezza si presenta anche per descrivere la lontananza da Dio dell’umanità non redenta: «quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi» (Romani 5,6). Per questo «anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in maniera conveniente, ma lo stesso Spirito intercede con gemiti inesprimibili (Romani 8,26).

Sono quelli che Paolo, a Roma ma anche a Corinto, con una felice espressione chiama «deboli nella fede» (Romani 14,1). Sul campo opposto si trova Abramo, l’uomo che non «fu debole nella fede», e per questo «credette, saldo nella speranza contro ogni speranza» (Romani 4,18-19).

La debolezza della condizione umana, oltre che la coscienza e lo spirito, colpisce il corpo dell’uomo con la malattia, come quella che assale i Corinzi di fronte alla loro incapacità di riconoscere il Corpo del Signore nelle loro assemblee eucaristiche: «è per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi (lett. "deboli")» (1 Corinzi 11,30), ma anche il suo inviato Epafrodito (Filippesi 2,26), o lo stesso Timoteo che Paolo invita a bere un po’ di vino a causa delle sue frequenti debolezze (1 Timoteo 5,23).

Del resto Paolo, con un colpo d’ala straordinario, sostiene la totale comunione del suo ministero di apostolo verso coloro che gli sono stati affidati, aggiunge: «mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1 Corinzi 9,22). È lo stesso apostolo che alcuni a Corinto accusavano di essere debole quando presente fisicamente e, al tempo stesso, quasi prepotente mentre scrive da lontano (2 Corinzi 10,1). Qualcuno diceva infatti: «le lettere sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la parola dimessa» (2 Corinzi 10,10). È in questo modo che Paolo difende la sua persona di fronte alle accuse ricevute nel suo svolgere il ministero a Corinto: «dal momento che molti si vantano, mi vanterò anch’io» (2 Corinzi 11,18). Quindi conclude: «chi è debole che anch’io non lo sia… se è necessario vantarsi, mi vanterò della mia debolezza» (2 Corinzi 11,29-30).

E qui siamo arrivati al principale testo a cui il lettore si riferisce. Dopo aver parlato della «spina ricevuta nella sua carne», che Paolo ha chiesto gli venisse allontanata, scrive che il Signore «mi rispose: "Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza". Mi vanterò quindi volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo; quando sono debole è allora che sono forte» (2 Corinzi 12,9-10).
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I tuoi figli ti accompagnano a Messa?

3/8/2014

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I tuoi figli ti accompagnano a Messa?
I genitori non devono dimenticare che sono i primi evangelizzatori dei propri figli

Se ora che sei padre o madre di famiglia ti ricordi di quando eri piccolo/a, sicuramente ti obbligavano ad andare a Messa. Era un martirio (in alcune occasioni) alzarsi presto, mettersi il vestito della domenica e assistere con la tua famiglia alla Messa nella parrocchia che ti aveva visto nascere, o forse nel paese d'origine dei tuoi familiari.

Col passare del tempo, questa norma che ti imponeva la tua famiglia è diventata un'abitudine, al punto che quando eri giovane lo facevi per scelta, gusto e fede che sperimentavi ogni domenica, soprattutto se facevi parte di qualche gruppo apostolico della tua comunità.

Oggi continui ad assistere alla Messa domenicale; quello che hai formato come abitudine nell'infanzia e nella giovinezza nella tua parrocchia continui a farlo oggi che sei all'interno di qualche gruppo ministeriale. Varrebbe la pena di chiedersi: tuo figlio o i tuoi figli ti accompagnano a Messa? Hai insegnato loro l'importanza come cristiani cattolici di assistere alla santa Eucaristia? Si sono preparati a ricevere la Comunione, a confermare la propria fede attraverso il servizio alla comunità e ad accostarsi alla Riconciliazione? Sono parte attiva della loro comunità parrocchiale o sono quelli che assistono mezzi addormentati o non vedono l'ora che finisca questo santo incontro?

Genitori, voi siete i primi evangelizzatori dei vostri figli. Dipende da voi che la Chiesa possa continuare a diffondere il seme del Vangelo a tutte le Nazioni. Immaginate una parrocchia in cui si celebri una Messa tutte le domeniche solo con persone di più di vent'anni? In futuro, probabilmente sarebbe una delle parrocchie candidate a chiudere per mancanza di giovani, visto che non esisterebbero nuovi ministri in grado di portare avanti il compito che hanno svolto quei laici che hanno speso tutta la loro vita al servizio della comunità.

Vi invitiamo a leggere il Documento di Aparecida (Quinta Conferenza Generale dell'Episcopato Latinoamericano e del Caribe), ai numeri 302 e 303, per approfondire il concetto di famiglia e dei doveri che essa ha nel contesto delle sue funzioni di prima evangelizzatrice.

Invita i tuoi figli a Messa; non farlo con la voce dell'autoritarismo che hai imparato in passato, ma con la voce dell'amore, perché comprendano e vivano l'esperienza di Gesù Risorto nei loro cuori. Ricorda che la famiglia che prega e assiste unita alla Santa Eucaristia rimane unita.
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L’importanza di andare a Messa ogni domenica

3/8/2014

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L’importanza di andare a Messa ogni domenica

Quesito 
- Qual è l’importanza di andare a messa ogni domenica e non limitarsi a fare una preghiera.

Risposta 

- La Messa non è una preghiera qualunque. Se così fosse, avresti ragione tu.
Desidero presentarti in dieci punti tutti i beni racchiusi nella Messa, beni per i quali vale la pena di partecipare ad un atto che, in assoluto, è il più grande della storia.
Eccoli.

1. La Messa è la perpetuazione del sacrificio di Cristo sui nostri altari.
A Messa noi rendiamo presente il sacrificio che Gesù ha fatto di sé sulla croce. Perpetuiamo sui nostri altari la sua morte redentrice, la sua espiazione.
Subito dopo la consacrazione diciamo: “Annunciamo la tua morte Signore…”.
È in virtù della croce di Cristo che il mondo con i suoi peccati non sprofonda nel nulla da cui è stato tratto.
Per questo Padre Pio da Pietrelcina diceva che è più facile che la terra esista senza il sole che senza la Messa.
Noi non n possiamo dare a Dio una preghiera, una lode, un sacrificio più grande di quello che Cristo ha lasciato nelle nostre mani: il suo sacrificio sulla croce.

2. In virtù del sacrificio della Messa veniamo liberati da molti mali.
Il sacrificio di Gesù è stato prefigurato nell’Antico Testamento dall’agnello che gli ebrei hanno mangiato nella notte in cui sono usciti dall’Egitto. Col sangue di quell’Agnello tinsero, per ordine di Dio, le porte delle loro abitazioni e furono risparmiati in virtù di quel sangue dall’angelo sterminatore.
I Santi padri commentavano: se in virtù del sangue di un agnello, che era solo simbolo del sangue di Cristo, gli ebrei furono risparmiati dall’Angelo sterminatore, da quanti male dell’anima e del corpo non veniamo liberti noi accostandoci non al simbolo del sangue del Signore, ma al suo stesso Sangue?

3. Nella Messa godiamo della sua presenza reale in virtù della quale appoggiamo in modo tutto particolare le nostre preghiere sui meriti della sua passione e morte che viene perpetuata nel momento della consacrazione.
Don Bosco diceva ai suoi ragazzi: “Sapete qual è il momento in cui il Signore ascolta maggiormente le nostre preghiere? Quello della consacrazione!”.
Il santo Curato d’Ars diceva che, quando noi durante la consacrazione preghiamo per una determinata persona, in quel momento lo Spirito Santo manda dei raggi e dei lumi a toccare il cuore e la mente della persona per cui preghiamo.
La persona per cui preghiamo possiamo essere anche noi stessi.
Ora, capisci che tutto questo nessuno lo può fare da se stesso. Ha bisogno del prete, perché solo il prete ha il potere di consacrare. Gesù ha detto agli Apostolo: “Fate questo in memoria di me”. E questo avviene nella Messa.

4. A Messa puoi fare la Santa Comunione.
Gesù ha detto: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io lui”.
Ti pare poco che Dio dimori in noi?
San Paolo ha detto: “Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?”.
Una Santa del nostro tempo (S. Faustina Kowalska) ha sentito il Signore che le diceva: “Quando vengo nel tuo cuore nella santa Comunione io vi sto seduto come sopra un trono di grazie e dico incessantemente all’anima: chiedi quello che vuoi”.
Come vedi, questo lo puoi vivere solo a Messa.

5. A Messa Dio ci ammaestra con la sua parola e il suo insegnamento.
Lui sa dove condurci, sa di quale luce ha bisogno la nostra mente.
Va anche detto che, mentre parla, il Signore non si contenta di illuminarci, ma nelle stesso tempo infonde nel nostro cuore tutto quello che ci dice, perché la sua parola è efficace, viva, più potente di una spada a doppio taglio.
Gesù ha detto: “Voi siete mondi per la parola che avete ascoltato”. E certamente la sua parola purifica la nostra mente da tante sozzure e purifica anche i nostro cuore.

6. A Messa la Chiesa si raduna e si visibilizza. L’essere Chiesa non è solo un fatto interiore. Siamo legati spiritualmente gli uni gli altri e mostriamo davanti al mondo di essere un solo corpo.
Nello stesso tempo, già col nostro essere presenti, ricordiamo a tutti (anche a quelli che non vanno a Messa) che il senso della nostra vita quaggiù è quello di essere un pellegrinaggio verso la Vita eterna e che non abbiamo di qua una dimora permanente. Il nostro essere in cammino ricorda che abbiamo bisogno di fare il rifornimento di cibo per non venir meno per strada.

7. A Messa, soprattutto la domenica, il Signore vuole darci tutto ciò che ha dato ai primi fratelli nel giorno della risurrezione: la sua presenza, la sua parola, la sua gioia, il suo spirito.
Quando tornano da Messa, i cristiani avvertono qualcosa dentro il loro cuore. Non escono di Chiesa nel medesimo modo in cui vi sono entrati: sono stati investiti della potenza della sua risurrezione (che avvenne nel primo giorno dopo il sabato), hanno ricevuto il suo spirito (“Ricevete lo Spirito Santo” Gv 20,22), la sua pace (“la pace sia con voi” Gv 20,19), la sua gioia (“i discepoli gioirono nel vedere il Signore” Gv 20,20).

8. A Messa veniamo resi partecipi delle necessità dei fratelli.
Fin dai tempi apostolici la riunione domenicale è stata per i cristiani un momento di condivisione fraterna nei confronti dei più poveri. Dice S. Paolo: “Ogni primo giorno della settimana ciascuno metta da parte ciò che gli è riuscito di risparmiare” (1 Cor 16,2).
Dalla Messa domenicale parte un’onda di carità che anima il nostro modo di vivere da cristiani e ci attira una moltitudine di grazie.

9. A Messa facciamo della nostra vita un sacrificio a Dio, in unione con il sacrificio di Gesù.
All’offertorio non si offre a Dio solo un pò di pane e qualche goccia di vino. Pane e vino sono segni di un’offerta ben più importante: quella di tutta la nostra vita.
Fare un sacrificio significa rendere sacra una realtà, metterla a servizio di Dio, trasferirla nella sua stessa vita.
Che c’è di più grande che fare delle nostre povere azioni una cosa sacra, trasferirle nel mondo stesso di Dio, dar loro un valore universale ed eterno?
Quello che noi offriamo a Dio, in unione col sacrificio di Gesù, viene messo a disposizione di tutti e per tutta l’eternità. Quanto è successo nel miracolo della moltiplicazione dei pani, qui si ripete in continuazione.
Che bene immenso si fa dunque a Messa! Si giova a tutti.
In questo senso i fedeli dicono: “Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio (sottinteso: della nostra vita) a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa”.

10. A Messa riceviamo la benedizione di Dio.
Fin dall’inizio della Sacra Scrittura si legge che quel settimo giorno Dio lo ha benedetto e consacrato (Gn 2,3).
Ora la benedizione data da Dio anche attraverso la mano del sacerdote non è solo un augurio, ma una effusione di doni, è efficace ed irreversibile.

Ti ringrazio della domanda e spero che la risposta possa rendere più convinta la tua partecipazione a questo che è l’atto più alto e più fruttuoso della nostra religione cristiana.
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Anime vaganti e dannate: che cosa dice in proposito la Chiesa?

1/8/2014

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Anime vaganti e dannate: che cosa dice in proposito la Chiesa?
Esistono le anime “fuoriuscite”, cioè lasciate libere a vagare per il mondo?
Domande a Don Amorth


Don Amorth, qualcuno afferma di sentire una specie di “presenza” di qualche persona del passato. Sono soltanto suggestioni?

Quelle a cui lei si riferisce vengono chiamate “presenze”. Si tratta di una vasta casistica, che riguarda non poche persone, le quali affermano di percepire la vicinanza, talvolta anche fisica, di antenati o di persone estranee magari morte all'improvviso. Altre volte parlano di “anime vaganti”, che vengono percepite come anime di defunti che non hanno ancora trovato la loro collocazione nell'ordine della vita eterna; altre volte ancora di “anime guida”, che consiglierebbero le persone sulle decisioni più giuste. Si tratta di problemi aperti, che i teologi dovrebbero studiare, approfondendo i dati della Scrittura, del Magistero della Chiesa e delle esperienze dei mistici.

Cosa ne pensa lei?


Abbiamo alcune certezze: la prima è che abbiamo una vita sola, che ci giochiamo qui, alla fine della quale saremo giudicati per risorgere nella vita in Dio o per la morte nell'inferno eterno. Non esiste, dunque, alcuna possibilità che queste anime siano forme di reincarnazione, per inciso, è fuori dalla fede della Chiesa cattolica. Una seconda conseguenza deriva da questa: se dopo la nostra morte andiamo in paradiso, all'inferno o in purgatorio, nutro qualche perplessità a credere che esistano anime fuoriuscite, cioè in libertà a vagare per il mondo.

Ma esiste comunque una forma di comunicazione tra i defunti e noi?

Certo, il Corpo Mistico che è la Chiesa comunica al suo interno. Così fra le anime dei defunti che sono in paradiso e in purgatorio e noi ancora in pellegrinaggio sulla terra esiste uno scambio di amore dato dalla preghiera reciproca di intercessione. In particolare quelle in purgatorio, soffrendo per la loro purificazione davvero straordinarie in nostro favore.

E le anime dei dannati?

Non lo sappiamo. A me è capitato che uno spirito durante l'esorcismo sostenesse di essere una tal persona ma a una verifica più approfondita, dopo varie sessioni, si scopriva che in realtà erano demoni. Altri esorcisti, però sono convinti che la presenza di queste anime vaganti sia reale. Ripeto, sarebbe opportuno promuovere approfondimenti teologici sulla condizione delle anime dopo la morte. Compito che non è proprio degli esorcisti ma, come ho detto, dei teologi.
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