La Bibbia è una comunicazione divina, trascendente e quindi destinata a rivestire un valore assoluto e permanente, in una espressione umana, secondo quindi un linguaggio, generi letterari ed esperienze storiche profondamente connessi ad autori legati al tempo e allo spazio. Una interpretazione che si concentri solo ed esclusivamente sull'aspetto letterale del testo sacro non solo snatura questa duplicità, ma paradossalmente può giungere a esiti opposti.
La domanda si tira dietro direttamente la cosiddetta “questione ermeneutica”, ossia la questione dell'insieme dei criteri necessari a una corretta interpretazione delle Sacre Scritture che, riflettendo la realtà della Rivelazione di Dio, richiamano immediatamente anche quella dell'Incarnazione: così come il Verbo, Parola eterna e perfetta di Dio, si fa carne in Gesù, secondo quanto affermato da san Giovanni (Gv 1,1.14), così anche la Bibbia è Parola divina, ispirata, che permane in eterno, incarnata, rivestita da parole ed eventi umani storici e contingenti.
È perciò chiaro che due devono essere anche gli approcci interpretativi: da una parte occorre seguire un metodo storico-critico mirato a fare chiarezza e a sciogliere i nodi delle vicende, della mentalità e del linguaggio umano, legato a coordinate temporali, spaziali e culturali ben precise che fanno da sfondo agli autori sacri; dall'altra è necessaria una guida trascendente, capace di far cogliere la verità di fede e di vita che è racchiusa nel testo. In quest'ottica vanno lette le parole di Gesù, quando assicura l'aiuto dello Spirito Santo che “insegnerà ogni cosa, vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto […] e vi guiderà alla verità tutta intera” (Gv 14,26; 16,13).
Al contrario, molti gruppi e sette, come i Testimoni di Geova, ricorrono a una lettura “fondamentalista”