Quesito
Le scrivo in merito alla nuova traduzione della preghiera del Signore, il Padre Nostro, operata nella nuova versione della Bibbia dalla CEI. Nel Vangelo infatti è riportato un cambiamento rilevante, "non ci abbandonare alla tentazione", al posto di "non ci indurre in tentazione". Vorrei chiedere le ragioni filologiche di questo cambiamento, e se comporta conseguenze dogmatiche. Ho trovato più di qualche fedele e anche qualche presbitero che si trovavano in difficoltà nel fatto che Dio potesse "indurci in tentazione" e sosteneva che quel passo fosse un retaggio del passato. Cosa significa questa parte in latino "et ne nos inducas in tentationem", dato che porta a due traduzioni apparentemente così diverse? Ora che la traduzione è cambiata, anche noi fedeli siamo chiamati ad adeguarci a questa disposizione?
Risposta
1. il testo latino della preghiera del Pater recita da sempre: “Et ne nos induca in tentationem” (Mt 6,13).
In greco c’è l’espresssione “eisenènkes” che significa “introdurre, condurre dentro, lasciar cader in”.
In italiano finora è stato da sempre tradotto “non ci indurre in tentazione”,
La versione nuova dice: “Non abbandonarci alla tentazione”.
2. L’espressione di sempre poteva lasciar intendere che Dio tentasse le persone.
Ma questo non può essere perché Dio non tenta nessuno. L’ha detto lui stesso per bocca di Giacomo: “Nessuno, quando è tentato, dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno” (Gc 1,12).
San Paolo fa capire che la tentazione non viene da Dio. Dio la permette, ma nello stesso tempo dà sempre la forza per superarla: “Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere” (1 Cor 10,13).
3. La Bibbia di Gerusalemme scrive ancora: “Domandiamo a Dio di liberarci dal tentatore e lo preghiamo di non entrare in tentazione, e cioè nell’apostasia”.
E fa riferimento a Mt 26,41 quando Gesù dice agli Apostoli nell’orto degli olivi “Vegliate e pregare per non entrare in tentazione”. Qui la tentazione è consistita nell’abbandono (apostasia) del Signore: “allora tutti i discepoli lo abbandonarono e fuggirono” (Mt 26,56).
4. Per cui il non indurci in tentazione sta per “non lasciarci cadere in tentazione”. O, come scrive la tradizione della Cei: “non abbandonarci alla tentazione”.
A mio modestissimo parere, “non lasciarci cadere in tentazione” sarebbe stato meglio che il “non abbandonarci” perché ricorda che senza il aiuto di Dio non possiamo superare le prove.
5. Sant’Agostino commenta: “Senza tentazione nessuno può essere provato né di fronte a se stesso né di fronte agli altri; davanti a Dio invece ognuno è conosciutissimo prima di ogni tentazione.
Quindi non si prega per non essere tentati, ma perché non siamo indotti in tentazione (cioè di non cadervi): così quando uno deve essere esaminato nel fuoco, non prega perché non ci sia il fuoco, ma perché non sia bruciato” (De Sermone Dom. 2,9).
E ancora: “Quando dunque diciamo “non ci indurre in tentazione” siamo avvisati di chiedere che non veniamo privati del suo aiuto e acconsentiamo ingannati a qualche tentazione o cediamo” (Lettera Proba, L. 130,11).
5. San Tommaso: “Forse Dio induce al male dal momento che ci fa dire: “non ci indurre in tentazione”?
Rispondo che si dice che Dio induce al male nel senso che lo permette, in quanto, cioè, sottrae all’uomo – a causa dei suoi molti peccati precedenti – la sua grazia, tolta la quale, egli scivola nel peccato. Per questo noi diciamo col salmista “Non abbandonarmi quando declinano le mie forze” (Sal 70,9).
Dio però sostiene l’uomo, perché non cada in tentazione, mediante il fervore della carità che, per quanto sia poca, è sufficiente a preservarci da qualsiasi peccato. Infatti che “le grandi acque non possono spegnere l’amore” (Ct 8,7)” (Commento al Pater).
6, Con questa domanda noi chiediamo a Dio “di non lasciarci prendere la strada che conduce al peccato” (CCC 2846).
Padre Angelo Bellon
Dal sito Amici Domenicani
(link)
Le scrivo in merito alla nuova traduzione della preghiera del Signore, il Padre Nostro, operata nella nuova versione della Bibbia dalla CEI. Nel Vangelo infatti è riportato un cambiamento rilevante, "non ci abbandonare alla tentazione", al posto di "non ci indurre in tentazione". Vorrei chiedere le ragioni filologiche di questo cambiamento, e se comporta conseguenze dogmatiche. Ho trovato più di qualche fedele e anche qualche presbitero che si trovavano in difficoltà nel fatto che Dio potesse "indurci in tentazione" e sosteneva che quel passo fosse un retaggio del passato. Cosa significa questa parte in latino "et ne nos inducas in tentationem", dato che porta a due traduzioni apparentemente così diverse? Ora che la traduzione è cambiata, anche noi fedeli siamo chiamati ad adeguarci a questa disposizione?
Risposta
1. il testo latino della preghiera del Pater recita da sempre: “Et ne nos induca in tentationem” (Mt 6,13).
In greco c’è l’espresssione “eisenènkes” che significa “introdurre, condurre dentro, lasciar cader in”.
In italiano finora è stato da sempre tradotto “non ci indurre in tentazione”,
La versione nuova dice: “Non abbandonarci alla tentazione”.
2. L’espressione di sempre poteva lasciar intendere che Dio tentasse le persone.
Ma questo non può essere perché Dio non tenta nessuno. L’ha detto lui stesso per bocca di Giacomo: “Nessuno, quando è tentato, dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno” (Gc 1,12).
San Paolo fa capire che la tentazione non viene da Dio. Dio la permette, ma nello stesso tempo dà sempre la forza per superarla: “Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere” (1 Cor 10,13).
3. La Bibbia di Gerusalemme scrive ancora: “Domandiamo a Dio di liberarci dal tentatore e lo preghiamo di non entrare in tentazione, e cioè nell’apostasia”.
E fa riferimento a Mt 26,41 quando Gesù dice agli Apostoli nell’orto degli olivi “Vegliate e pregare per non entrare in tentazione”. Qui la tentazione è consistita nell’abbandono (apostasia) del Signore: “allora tutti i discepoli lo abbandonarono e fuggirono” (Mt 26,56).
4. Per cui il non indurci in tentazione sta per “non lasciarci cadere in tentazione”. O, come scrive la tradizione della Cei: “non abbandonarci alla tentazione”.
A mio modestissimo parere, “non lasciarci cadere in tentazione” sarebbe stato meglio che il “non abbandonarci” perché ricorda che senza il aiuto di Dio non possiamo superare le prove.
5. Sant’Agostino commenta: “Senza tentazione nessuno può essere provato né di fronte a se stesso né di fronte agli altri; davanti a Dio invece ognuno è conosciutissimo prima di ogni tentazione.
Quindi non si prega per non essere tentati, ma perché non siamo indotti in tentazione (cioè di non cadervi): così quando uno deve essere esaminato nel fuoco, non prega perché non ci sia il fuoco, ma perché non sia bruciato” (De Sermone Dom. 2,9).
E ancora: “Quando dunque diciamo “non ci indurre in tentazione” siamo avvisati di chiedere che non veniamo privati del suo aiuto e acconsentiamo ingannati a qualche tentazione o cediamo” (Lettera Proba, L. 130,11).
5. San Tommaso: “Forse Dio induce al male dal momento che ci fa dire: “non ci indurre in tentazione”?
Rispondo che si dice che Dio induce al male nel senso che lo permette, in quanto, cioè, sottrae all’uomo – a causa dei suoi molti peccati precedenti – la sua grazia, tolta la quale, egli scivola nel peccato. Per questo noi diciamo col salmista “Non abbandonarmi quando declinano le mie forze” (Sal 70,9).
Dio però sostiene l’uomo, perché non cada in tentazione, mediante il fervore della carità che, per quanto sia poca, è sufficiente a preservarci da qualsiasi peccato. Infatti che “le grandi acque non possono spegnere l’amore” (Ct 8,7)” (Commento al Pater).
6, Con questa domanda noi chiediamo a Dio “di non lasciarci prendere la strada che conduce al peccato” (CCC 2846).
Padre Angelo Bellon
Dal sito Amici Domenicani
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