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In verità vi dico: potete e dovete “giudicare” il prossimo!

24/3/2014

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La grande marcia della distruzione mentale proseguirà. Tutto verrà negato. Tutto diventerà un credo. È un atteggiamento ragionevole negare l’esistenza delle pietre sulla strada; sarà un dogma religioso affermarla. È una tesi razionale pensare di vivere tutti in un sogno; sarà un esempio di saggezza mistica affermare che siamo tutti svegli.

Accenderemo fuochi per testimoniare che due più due fa quattro. Sguaineremo spade per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Non ci resterà quindi che difendere non solo le incredibili virtù e saggezze della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile: questo immenso, impossibile universo che ci guarda dritto negli occhi. Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili. Guarderemo l’erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. Saremo tra coloro che hanno visto eppure hanno creduto.

Sono parole di Chesterton, e sono state la sua ulteriore profezia: sta parlando dei nostri giorni, ma ne ha scritto un secolo fa. Con queste parole mi piace iniziare questa mia improvvisata riflessione di mezzanotte.

***

Questa storia qui che “non si giudica” e che si rovescia nell’esatto contrario. Non si giudica cosa? Le persone e il cuore delle persone, nel cui scrigno i segreti solo Dio conosce. E giudicherà. Non possiamo anticiparne la sentenza, anche perché non la si conosce, o almeno non sappiamo a quali attenuanti o aggravanti vorrà ricorrere. Siamo d’accordo, su questo.

Tuttavia, si è abusivamente esteso questo divieto a tutta una serie di risvolti che nient’affatto sono esentati dal giudizio umano. E lo si è fatto non esattamente in buona fede, ma per sentirsi ciascuno in licenza di fare e dire ciò che vuole “tanto nessuno mi può giudicare”, solo Dio, e non è detto esista, e se  esiste è il Dio della “misericordia”, ossia, per come la vedono loro, della condiscendenza, delle amnesie totali, delle amnistie generali e, magari, della complicità.

Certo, nessuno vuol giudicare l’anima delle persone e i segreti dei loro cuori, anche  se molti hanno quel sesto senso, oserei dire quella sensibilità di leggere entro le pieghe di molti animi. Ma neppure questo basta a trasformare l’intuizione profonda in giudizio, almeno in giudizio pubblico di condanna, quantunque quasi sia un istinto (o una tentazione istintiva) connaturata all’uomo. Ok!

Ma esiste una dimensione pubblica della colpa, un momento in cui i segreti del cuore al giudizio di Dio soltanto sottoposti, si trasformano in pensieri, parole, opere, omissioni, qui e ora, sulla terra, e i cui riverberi si estendono su tutti noi. Ecco, è questo il momento esatto in cui il “giudizio” cessa di essere soltanto sfera di competenza del divino e diventa anche non privilegio, non abuso, ma dovere preciso, e obbligo di ogni cristiano. Di segnalare con la denuncia onesta e rispettosa, anche se forte una cattiva azione od omissione di un qualcuno che ha perpetrato o permesso il male, foss’anche solo limitato al contesto religioso… e anzi a maggior ragione. Malazione che non può che nascere da un cattivo animo.

Ora, in ogni pagina del Vangelo, IN OGNI PAGINA, si riportano giudizi su azioni o omissioni dei diversi protagonisti che hanno condotto al male, e a questi si aggiunge il giudizio che segnala l’origine delle cattive azioni di tanti, radice che è quasi sempre allocata nel cuore: “ipocriti” è una sentenza che ricorre spessissimo in quelle pagine, pronunciata molteplici volte dallo stesso Gesù, con la quale si dice, in pratica, che la parvenza formalmente corretta di un’azione è in contrasto con l’animo malevolo e magari corrotto di chi l’ha compiuta. È quando Gesù parla dei “sepolcri imbiancati”, ad esempio: sepolcro imbiancato non è necessariamente sempre chi accusa, ma anche chi difende… magari pure l’accusato di aver compiuto il male, il corrotto. Persino chi dice “chi sei tu per giudicare?” persino costui può essere ilsepolcro imbiancato: anzi, quasi sempre è lui il vero sepolcro imbiancato. Stiamoci attenti a questa cosa!

I “giudizi” espressi nelle vicende evangeliche, dunque. Si dirà: ma quello era Gesù e poteva! Come no, certamente! Ma è lo stesso Gesù che indica quasi un metodo per riconoscere le incoerenze, per vagliare e dunque giudicare, additare e condannare le stesse azioni cattive degli uomini.

A un certo punto Gesù chiama Pietro in disparte e gli dice che se qualcuno, “un fratello”  sbaglia, tu devi prenderlo da parte e farglielo notare. Ma se continua imperterrito allora lo devi portare davanti all’assemblea e accusarlo pubblicamente. Detto questo, Gesù fa un’operazione difficilmente spiegabile, enigmatica: all’improvviso accusa ad alta voce Pietro davanti a tutti, lo prende a male parole senza averlo prima redarguito in privato.

Abbiamo una coscienza, la coscienza è autonoma; ma non è fatta solo per auto-giudicare le nostre stesse azioni e lo spirito con cui le abbiamo compiute; serve anche ad applicare lo stesso meccanismo per il vaglio delle azioni altrui. “Chi sono io per giudicare?” Una bestialità, si dirà, avrà detto quel funesto giorno il papa. Mica tanto: se poi ha aggiunto una cosa: “Ma io sono figlio della Chiesa”, ossia professo quanto essa stabilisce su un determinato problema. Questo è legittimo, illegittimo è applicare i “secondo me”.

Perché, mettiamocelo in testa, chi crede che a prescindere nulla e nessuno sia “giudicabile”, che lecita è l’immunità e l’impunità di chiunque perché a Dio solo spetterebbe giudizio e condanna, non è né per rispetto a Dio né al prossimo che parla così; così pensa e dice perché vittima fra le tante del relativismo strisciante, di quella cattiva coscienza che professa quel “tutto uguale a tutto” e dunque tutto “è lecito” se solo “a me piace”, dove si smarrisce non solo il senso del peccato e la nozione di colpa, ma persino l’idea stessa di giustizia e di coscienza. In nome della maestà del “Secondo Me”, vera detronizzazione di Dio e del suo tanto sbandierato (a parole, respinto nei fatti) “giudizio”. E’ questo semmai il vero pericolo per la fortezza di alcuni e le debolezze di tanti… questo sì, perché ci pone dinanzi al capriccio e alla mutevolezza delle opinioni altrui, private, sorte dal nulla e dai venti ideologici cangianti, e dall’arbitrio dello spirito del mondo che è il demonio, onde non v’è più alcuna garanzia né certezza per alcuno.

Convinciamocene: il decalogo, il vangelo, la bibbia, il magistero, sono libretti di istruzioni per farci individuare le cose sbagliate, in pensieri, parole opere e omissioni. “Istruzioni” che servono a esaminare anzitutto la nostra vita e la nostra coscienza per avere certezza che queste siano in sintonia con Dio; ma allo stesso tempo e per la stessa ragione, tale esame si può estendere, seppure entro certi limiti, alle azione altrui. E talora si deve. Esiste una dimensione privata ma anche pubblica e sociale del peccato, del peccato individuale. Ecco: quel “libretto delle istruzioni” è come il bugiardino dei medicinali: la posologia, le proprietà terapeutiche di un farmaco se sono valide per me, alla stessa maniera, grossomodo, sono valide pure per gli altri malati. E questo classifica anche il genere di malattia: mia o altrui.

Ma oggi se qualcuno, sovente un religioso, fa una cosa discutibile, contro le regole, contro persino la legge di Cristo si dice… quasi si intimidisce con un “non si deve giudicare” chi osasse far rimostranze;  perché a prescindere dall’azione di un tale ci starebbero un tot di cose, intime, che non sappiamo e solo Dio conoscerebbe. Per cui si arriva all’assurdo di qualcuno che sostiene dal pulpito (sovente televisivo) che il quadrato è tondo, ma guai a giudicarlo per quel che è, un imbecille, perché -ed è questa la ragione di fondo – la verità nella sua assolutezza “non esiste”, ordunque il quadrato può essere tondo e il tondo triangolo. Tutto è relativo.

Ahimè però l’uomo è prevedibile e molte sue azioni, qualora diventano pubbliche, sono indice di un determinato cattivo stato di coscienza, malafede e dolo, sono sempre il riflesso del livello di bontà o corruttela di un animo, e ciò che dal piano privato si estende alla dimensione pubblica in modo devastante, o almeno fuorviante per tanta gente in buonafede, non solo si può e si deve giudicare, ma si deve anche condannare, censurare e combattere. Dopo aver preso, in prima istanza, “il fratello in disparte” e averlo redarguito… ma senza risultati.

Talora il “non giudicare” peloso di molti si rovescia e si trasforma in un giudizio spietato e feroce su chi sta cercando di porre rimedio o fine a un pubblico scandalo, dicendo che un cerchio non può essere quadrato, tacciati, maschini!, di essere “integralisti”, “ipocriti”, “bacchettoni”, magari pure “fascisti”. Ed è, paradossalmente, anche un giudizio sulla persona additata dalla presunta mandria di “ipocriti”, dalla comunità cristiana cioè, e “difesa” dal generalista “non giudicare” di un tale che deve atteggiarsi a buono eumile, per diritto divino, della situazione (si giudica in ogni caso, in bene e in male: Cristo in realtà intendeva vietare entrambi). Ma che in genere non è per delicatezza e pietas christiana che s’appella senza discernimento a tale proibizione divina, il “non giudicare”: egli pure vede l’errore di quel soggetto “additato”, solo che non lo riconosce come tale, come peccato. Semmai come un “diritto”. Perché è d’accordo con lui. O perché, magari, è il medesimo peccato al quale egli stesso vuol aver diritto. Dispensato non solo dal giudizio degli uomini, ma financo da quello del Dio detronizzato… per troppa altrui “umiltà” frammista a “bontà”. Ossia dalle ideologie dell’umilismo e del buonismo. In una parola: dagli ipocriti.
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L'obbedienza di San Giuseppe

18/3/2014

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L'obbedienza di San Giuseppe

Per Maria l'obbedienza consistette nell'esercizio effettivo della sua verginità. Era promessa sposa, nel momento dell'annunciazione, ma il suo cuore e il suo corpo erano vergini. Essa era pronta ad aderire completamente al Signore qualunque fosse stata la sua volontà. E così fece. E lei vergine, divenne, nell'obbedienza madre: in Lei la Parola si è fatta Bambino.

Se questa maternità, frutto dell'obbedienza vergine, è diventata anche fisica in Maria, qualche cosa di analogo accadde anche per il vero sposo di Maria, Giuseppe. La sua fede vergine, piena, totale, e la sua umiltà, che poneva Giuseppe al suo posto nel piano di Dio, fecero di Giuseppe "padre" (Lc 2,33), padre adottivo, s'intende, ma non per questo meno padre di Gesù.

Come accade per i padri e le madri adottivi, che per i figli addottati si mostrano ancora più padri e ancora più madri che non per i figli naturali, perché, non avendoli potuti generare fisicamente, la loro speciale tenerezza e amore per i figli adottati li rende quasi più che padri e più che madri.

Giuseppe fu tanto vergine nella sua obbedienza che in lui l'obbedienza diventò esecuzione della sua fede. "Fece come gli ordinò l'angelo del Signore " (Mt 1,24).

"Anche Giuseppe salì dalla Galilea alla città di Nazaret nella città di Davide, Betlemme" (Lc 2,4), per obbedire all'autorità politica di Roma; "si alzò e prese il bambino e sua madre " (Mt 1,14 e Mt 2,21).

Mai un'obiezione nell'obbedienza. Gli scarni dati evangelici ci parlano di quattro obbedienze di Giuseppe, tre, in sogno, all'angelo del Signore, e una all'autorità politica che ordinava il censimento.

Giuseppe non obietta nulla circa la veridicità degli annunzi dell'angelo a nome di Dio: eppure Dio gli parlava attraverso sogni. Chi poteva garantire a Giuseppe che la fonte del comando era veridica? Se non fosse stato un uomo spirituale, un profeta in diretta connessione con Dio attraverso la fede e l'umiltà, come avrebbe potuto Giuseppe credere all'angelo e quindi obbedire a Dio?

L'obbedienza suppone sempre fede e umiltà, come qualità della verginità. La fede e l'umiltà permettono di discernere ciò che viene da Dio e ciò che non viene da Dio. Giuseppe è uomo spirituale, in cui lo Spirito ha sostituito lo spirito naturale (1 Cor 2), perciò immediatamente riconosce la volontà di Dio, e con l'apporto del proprio consenso razionale e della propria libertà (Giuseppe non è un automa!) egli obbedisce, cioè fa.

Da notare come Matteo usi il verbo greco "poiein" per esprimere il "fece" dell'obbedien-za di Giuseppe. "Poieo " in greco è il verbo della creatività. Come a dire: Giuseppe, obbedendo, si dimostrò creativo, cioè generò, divenne padre. Così anche nel caso del censimento (Lc 2,4), Giuseppe non presentò l'obiezione della sua moglie incinta, ma obbedì all'autorità umana e salì a Betlemme. Quella era la riga storta necessaria a Dio perché si compisse la nascita di Gesù come profetizzata da Michea.

L'obbedienza, cioè, suppone sempre un linguaggio e un contesto di fede, che si accoglie razionalmente e liberamente. L'obbedienza è affermare che: credo, acconsento e liberamente eseguo! È il triplice passaggio della verginità che diventa paternità nelle Opere di Dio. Quando si leggono i differenti momenti che caratterizzano l'obbedienza di San Giuseppe, si prova la sensazione di trovarsi di fronte ad un uomo, umano, umanissimo, ma pieno di pace, ben identificato con la sua vocazione e con il Disegno di Dio.

L'obbedienza per San Giuseppe è, allora, di fatto l'esercizio della sua fede e della sua umiltà.

Quando i genitori di Gesù andranno in cerca del loro figlio nel tempio di Gerusalemme, nonostante l'incomprensione della risposta loro data da Gesù "Gli disse sua madre: 'Figlio perché ci hai fatto questo? Ecco tuo padre ed io con sofferenza ti abbiamo cercato... ". Ma essi non compresero la parola che egli aveva loro rivelato" (Lc 2,48-50), Gesù obbedì ai suoi genitori obbedienti "e tornò con loro a Nazaret ed era loro obbediente" (Lc 2,51). Si può dire che Gesù imparò l'obbedienza a Dio, attraverso le mediazioni umane, proprio dai suoi genitori obbedienti.
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IL MIO ALLENATORE SI CHIAMA GESU'

12/3/2014

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Come si rivela nell'allenamento e cosa chiede ai suoi atleti?
di Carlo Nesti

La mia vita è cambiata, da bambino, quando ho capito che le situazioni che incontravo nell'attività che gradivo di più, il football, e nello sport in genere erano le stesse dell'esistenza di tutti i giorni.

E, visto quanto mi coinvolgeva il pallone, potevo impiegare le medesime energie in una sorta di “training autogeno” anticipato, per sostenere le difficoltà dell'esistenza.

Ogni mattina, per ciascuno di noi, il suono della sveglia equivale all'inizio di una sfida. Ciascuno di noi può interpretarlo come desidera. Il suono di quella sveglia, per me, è come il fischio di inizio di un arbitro, ogni giorno che comincia somiglia a una partita di calcio da vincere.

L'impressione è quella di scendere sempre in campo in uno stadio affollato. Appena si esce di casa, infatti, troviamo persone con le quali dobbiamo rapportarci, che manifestano consenso, dissenso o indifferenza. Occorre resistere a tanti condizionamenti che mettono in pericolo la nostra autonomia.

Le partite sono uniche e irripetibili. E' così nel football, ci sono incontri in cui devi effettuare cinquanta scatti o venticinque salti, e ci sono match in cui accade esattamente l'opposto: non puoi mai saperlo prima. L'avversario è la vita stessa, che va affrontata nel modo giusto, senza esserne travolti.

A volte, sono gli altri a sferrare sonori calcioni. Altre volte, invece, siamo noi gli scorretti di turno, senza accorgerci di fare male. Ci sono goal segnati, quando le azioni raggiungono un obiettivo; goal subiti, quando ciò non avviene; pali, quando sfioriamo solo la finalità che vogliamo ottenere; e tempi supplementari, se non basta il tempo programmato per risolvere un problema.

L'importante, nelle pause della partita, che esistono se sappiamo cercarle, è ricordare di essere guidati, in panchina, da un Allenatore: E chi può essere, se non Colui che ci ha creato e che, dunque, ci conosce meglio? Il nostro Allenatore, per sempre, si chiama Gesù.

Il segreto del successo è capire, nel bene o nel male, come giocare e quindi come vivere, tendendo l'orecchio verso di Lui, per ascoltare che cosa domanda nei momenti-chiave. E quell'orecchio è spirituale, perché si attiva con il più grande trasmettitore della storia: la preghiera.


[Dall'introduzione del volume di Carlo Nesti, “Il mio Allenatore si chiama Gesù. Il Vangelo spiegato attraverso lo sport” (San Paolo]
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UN CUORE PIENO DI SAGGEZZA

2/3/2014

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"Razza di vipere, come
potete dir cose buone,
essendo malvagi? Poiché
dall’abbondanza del
cuore la bocca parla”

Matteo 12:34

UN CUORE PIENO DI SAGGEZZA

"Il cuore di un uomo stolto risiede nella sua bocca, mentre la bocca di un uomo saggio è nel suo cuore!” (Benjamin Franklin). Di cosa abbiamo parlato ultimamente? Di cose buone o cattive? Di benedizioni o mormorii? Di verità o bugie? Di sciocchezze o cose sagge? Del Signore o delle cose di questo mondo? Quando il nostro cuore è pieno d’inganni e vanità, quando è occupato da egoismo e avarizia, quando è sballottato da molte influenze negative e quando non permette a Dio di purificarlo e ristabilirlo, la saggezza ci abbandona e non può essere vista nelle nostre attitudini. Se invece il nostro cuore è pieno dell’amore del Signore, tutto il nostro essere dà segni di puro e vero amore. Quando è la fede ad albergare in noi, non ci sono sulla nostra bocca parole che esprimano dubbi o incertezze; quando impediamo che lo scoraggiamento prenda il sopravvento, confidando pienamente in Dio, le nostre parole esprimono speranza e sono in grado di animare e confortare chi ci sta intorno. 


Caro amico/a, la Bibbia dice che dall’abbondanza del cuore parla la bocca e che il timore dell’Eterno è il principio della sapienza. Quindi, se invitiamo Gesù Cristo a regnare nel nostro cuore, Egli ci riempie d’amore e di saggezza e possiamo ogni cosa; siamo capaci di resistere ad ogni difficoltà, ricevendo la vittoria. La nostra bocca sarà una fonte di speranza e benedizione. Esamina le tue parole e scopri chi regna nel tuo cuore: Gesù Cristo oppure l’odio, il rancore, l’amarezza, l’egoismo?
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