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"Commentando le tentazioni al Signore, nel primo tomo del suo monumentale “Gesù di Nazaret”, il papa emerito Benedetto XVI scrive: «Il tentatore non è così rozzo da proporci direttamente di adorare il diavolo.
Ci propone soltanto di deciderci per ciò che è razionale, per la priorità di un mondo pianificato e organizzato, in cui Dio, come questione privata, può avere un suo posto, ma non deve interferire nei nostri propositi essenziali. Solov’ev attribuisce all’Anticristo un libro, “La via aperta alla pace e al benessere del mondo”, che diventa per così dire la nuova Bibbia e ha come contenuto essenziale l’adorazione del benessere e della pianificazione razionale» (“Gesù di Nazaret”, Tomo I, 2007, Ed. Rizzoli). È interessante notare che nel 2007, anno di pubblicazione del primo tomo, pochi mesi prima, il 27 febbraio, il cardinal Giacomo Biffi, curando gli esercizi quaresimali al Pontefice e alla Curia Romana ha riflettuto su “L’ammonimento profetico di Vladimir S. Soloviev”. L’arcivescovo emerito di Bologna si riferiva ad un romanzo di Soloviev intitolato “I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo”. Un testo attualissimo e più che mai profetico, nonché “testamento spirituale” di Soloviev, essendo stato stampato l’anno della sua morte (1900). «L’anticristo si presenta come pacifista, ecologista ed ecumenista. Convocherà un concilio ecumenico e – ha detto l'”italiano cardinale” – cercherà il consenso di tutte le confessioni cristiane concedendo qualcosa ad ognuno. Le masse lo seguiranno, tranne dei piccoli gruppetti di cattolici, ortodossi e protestanti». «L’insegnamento lasciatoci dal grande filosofo russo – ha aggiunto – è che il Cristianesimo non può essere ridotto ad un insieme di valori. Al centro dell’essere cristiani c’è infatti l’incontro personale con Gesù Cristo». L’Arcivescovo emerito di Bologna ha spiegato che se i cristiani si «limitassero a parlare di valori condivisibili saremmo ben più accettabili nelle trasmissioni televisive come nei salotti. Ma così avremmo rinunciato a Gesù, alla realtà sconvolgente della Risurrezione». Quei “valori comuni” (umanitarismo, buonismo, etc…) che il mondo vuole imporre alla Chiesa mirano alla distruzione dei “principi non negoziabili”, quei principi che sì sono comuni a tutti gli uomini perché rammentano il primato di Dio, essendo Egli il padrone della vita e della morte. Per il Cardinale Biffi è questo il «pericolo che i cristiani corrono nei nostri tempi», perché «il Figlio di Dio, non è traducibile in una serie di buoni progetti omologabili con la mentalità mondana dominante». «Tuttavia tutto ciò non significa una condanna dei valori, che tuttavia vanno sottoposti ad un attento discernimento. Ci sono, infatti, valori assoluti come il bene, il vero, il bello. Chi li percepisce e li ama, ama anche Cristo, anche se non lo sa, perché Lui è la verità, la bellezza, la giustizia. […] Ci sono valori relativi come la solidarietà, l’amore per la pace e il rispetto per la natura. Se questi si assolutizzano, sradicandosi o perfino contrapponendosi all’annuncio del fatto salvifico, allora questi valori diventano istigazioni all’idolatria e ostacoli sulla strada della Salvezza. […] Se il cristiano per aprirsi al mondo e dialogare con tutti, stempera il fatto salvifico, preclude la sua connessione personale con Gesù e si ritrova dalla parte dell’anticristo». L’Anticristo, molto furbamente, non si mostrerà nemico del cristianesimo, anzi nei confronti di Gesù – spiegò Solovev – non avrà «un’ostilità di principio», ma si presenterà come un grande riformatore. Le sue riforme saranno circa tre: - la fede diventerà sentimentalismo umanitario, facendo della filantropia fine a se stessa l’unico vero agire del “fedele”; - il vangelo diventerà semplicemente il racconto di un uomo che ha cercato di far sì che gli uomini, indipendente dal credo religioso e culturale, si volessero bene e vivessero felici e contenti; - la Chiesa diventerà la più grande ONG del mondo, senza sacramenti ma prodiga di incontri ecumenici e spirituali in cui si “cenerà” tutti insieme. Solovev scrisse che «incalzati dall’Anticristo, quel piccolo gruppetto di cattolici, ortodossi e protestanti risponderanno all’Anticristo: “Tu ci dai tutto, tranne ciò che ci interessa, Gesù Cristo”». «Oggi, infatti, corriamo il rischio di avere – concluse il cardinal Biffi – un Cristianesimo che mette tra parentesi Gesù con la sua Croce e Risurrezione». Sull’anticristo e sul profetico romanzo di Vladimir Solovev, il cardinale Giacomo Biffi aveva già svolto una relazione il 4 marzo del 2000 in una conferenza organizzata dal centro Culturale E. Manfredini e dalla Fondazione Russia Cristiana. Il testo del suo intervento è stato poi riportato nel libro “Pinocchio, Peppone, l’Anticristo” (Cantagalli, 2005). In quell’intervento, l’italiano cardinale, lodando la profezia del filosofo ortodosso, disse: «Soprattutto è stupefacente la perspicacia con cui egli descrive la grande crisi che colpirà il cristianesimo negli ultimi decenni del Novecento, crisi che Soloviev vede come l’Anticristo che riesce a influenzare e a condizionare un po’ tutti, quasi emblema, ipostatizzazione della religiosità confusa e ambigua di questi nostri anni». «L’Anticristo – tornando alla parole conclusive della relazione del cardinale Biffi – sarà “convinto spiritualista”, un ammirevole filantropo, un pacifista impegnato e solerte, un vegetariano osservante, un animalista determinato e attivo. […] Anche un esperto esegeta: la sua cultura biblica gli propizierà addirittura una laurea honoris causa a Tubinga. Soprattutto, si dimostrerà un eccellente ecumenista, capace di dialogare con parole piene di dolcezza, saggezza ed eloquenza». Insomma, l’Anticristo convincerà tutti – escluso il “piccolo gregge” di montiniana memoria – di essere il Cristo stesso. I più, vescovi compresi, sicuri di adorare Cristo, finiranno con l’adorare l’Anticristo. Conoscete la sindrome del buon samaritano deluso?
Si ha la sensazione di non aiutare veramente nessuno e di non servire a nulla di Luciano Sandrin Il burnout (bruciarsi) è un tipo di esaurimento emotivo e professionale che tocca tutta la persona in modi e gradi diversi: fisicamente, intellettualmente, spiritualmente. Quello che primo aveva particolare valore e sul quale si investiva, perde man mano senso, viene messo in questione o del tutto abbandonato. Lavorare stanca. Un nuovo tipo di stress lavorativo, che gli studiosi hanno chiamato burnout (letteralmente bruciarsi), sta richiamando sempre più l’attenzione degli studiosi. E presente, in particolare, nelle professioni di aiuto (le helping professions). E la sindrome del buon samaritano deluso. Ne sono interessati coloro che lavorano nel campo sociale, sanitario, in quello dell'istruzione e dell'educazione: giocano su un terreno psicologicamente a rischio, dove il coinvolgimento emotivo e personale è forte. Soffrono e le conseguenze si vedono. Il professionista bruciato Molti, dopo un po', perdono fiducia nelle loro capacità, diventano passivi, si rifugiano nella routine, la loro identità professionale entra in crisi, l'autostima è ai livelli più bassi, stanno male, finiscono per rinunciare a responsabilità, a disinteressarsi di ciò che fanno e a innalzare rigide barriere difensive. Il rapporto con coloro che hanno bisogno di aiuto - il malato, la persona disabile, il ragazzo "difficile" o psicologicamente fragile, l'anziano che si perde, l'emigrato con cui è difficile comunicare - diventa freddo e distante. Motivazioni altruistiche e grandi ideali diventano un ricordo che fa solo soffrire. Aumentano i conflitti con i colleghi e le tensioni in famiglia. Non mancano disturbi che interessano la salute. I costi di questo fuoco che si spegne sono piuttosto elevati: per il professionista la cui prestazione professionale risulta sempre più scadente; per la persona che si vuole aiutare, alla quale viene offerto un trattamento sempre meno efficace e poco umano; per la struttura in cui si lavora con prestazioni scadenti, assenze sempre più frequenti, avvicendamenti continui (turnover) o veri abbandoni; per la famiglia (o la comunità in cui si vive) che subiscono aumenti di tensione e di conflittualità. A cascarci dentro sono quelli che lavorano con più entusiasmo. Solo che per troppo tempo rimangono esposti a situazioni nelle quali vi è un forte squilibrio tra richieste e risorse, tra ideale e realtà. Aspettative e risposte che si incontrano sempre meno. I professionisti a rischio di burnout sono quelli che devono aiutare giorno dopo giorno gente che soffre per i più svariati problemi e che si aspetta di trovare sempre disponibilità, interesse e premure; quelli che sono in rapporto con persone che continuamente domandano e che non potranno mai essere pienamente soddisfatte. Si sentono man mano sopraffatti dai problemi che non riescono a risolvere, dalle emozioni che bruciano, mentre il supporto tra col leghi è piuttosto scarso. Percorso a tappe II sovraccarico emozionale aumenta: troppo viene chiesto e poco dato in contraccambio. A fare sempre strade in salita la benzina si esaurisce in fretta. Ci si sente come risucchiati da sabbie mobili. Si sta troppo sul fuoco e si finisce per bruciarsi. Ma tutto ciò non accade da un giorno all'altro. Il burnout può essere visto come un cammino con vari passaggi, un film nel quale non è sempre facile riavvolgere la pellicola e tornare indietro (immagine d'altri tempi ma evocativa): dall'entusiasmo idealistico, tipico del nuovo arrivato, innamorato del suo lavoro, che non ha paura di niente, all'esperienza di sentirsi impantanato, bloccato e frustrato, perché i risultati non sono quelli sperati e i problemi "continuamente tornano". Si ha la sensazione di non aiutare veramente nessuno e di non servire a nulla. E questo il momento più delicato della crisi. Si apre una specie di bivio: da un lato verso il superamento della situazione, attraverso una riconciliazione tra aspirazioni e realtà, dall'altro verso il ritiro, la rinuncia, il disinteresse, l'apatia finale, e cioè il vero e proprio burnout. Riprendere il timone A questo punto il lavoro non dà più le soddisfazioni sperate, diventa pesante, un masso che come Sisifo si è costretti a spingere sulla cima del monte per vederlo immancabilmente rotolare a valle. Si ha contemporaneamente la sensazione di essere come in prigione, di soffrire ma di non poter scappare. Non è che le soddisfazioni manchino, i motivi di gioia non ci siano, semplicemente non vengono più colti come tali. L'occhio vede nel bicchiere solo il vino che manca. Il pessimismo colora in nero la lettura della realtà. Si cercano compensazioni o fughe di vario tipo, delle nicchie per difendere la propria sopravvivenza: zattere di salvataggio che aiutino a stare a galla e che diano almeno l'illusione che non tutto è perduto. Ma sono imbarcazioni fragili che portano alla deriva. Bisogna saper riprendere il timone della barca. |
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