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Sì, obbedire è meglio. Ascoltate la piccola Adelaide

28/8/2014

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Fu testimone diretta della cosiddetta "Fatima d'Italia"

Appena saputo della morte di Adelaide Roncalli, mi è balzato alla mente il titolo dell’ultimo libro di Costanza Miriano, Obbedire è meglio, solo che con una piccolissima postilla: il punto interrogativo. Ma obbedire è davvero meglio? Se anche tra molti cattolici il nome di Adelaide Roncalli è sconosciuto, è perché questa donna, ha vissuto così come è morta: nell’obbedienza più totale alla Chiesa, e saldamente ancorata alla verità che quella stessa Chiesa ancora oggi non riconosce. Com’è stato possibile?


Quarta di otto figli, Adelaide viveva con la famiglia in località Torchio a Ghiaie di Bonate, a 10 chilometri da Bergamo. Una quotidianità umile, modesta, niente fuori dall’ordinario per quella provincia bergamasca dove quello che contava era lavorare per portare a casa il pane per la famiglia. Era il 13 maggio del 1944 e mentre l’Europa tremava sotto le bombe del secondo conflitto mondiale, Adelaide, una bimba di soli sette anni, andava per campi a raccogliere fiori di sambuco quando un incontro stravolse la sua vita, quella degli abitanti di Ghiaie di Bonate e di molti altri nel corso dei successivi 70 anni. Pur avvertendo la straordinarietà di quell’incontro, con genuinità di bambina, Adelaide racconterà di aver chiaramente visto una signora: «bella e maestosa, indossava un vestito bianco e un manto azzurro […] Al primo momento ebbi paura e feci per scappare, ma la Signora mi chiamò con voce delicata dicendomi: “Non scappare ché sono la Madonna!”. Allora mi fermai fissa a guardarla, ma con senso di paura. La Madonna mi guardò, poi aggiunse: “Devi essere buona, ubbidiente, rispettosa col prossimo e sincera: prega bene e ritorna in questo luogo per nove sere sempre a quest'ora”». 

A questo primo episodio ne seguiranno altri 12, la Vergine apparirà infatti alla piccola ogni sera dal 13 al 21 maggio e poi dal 28 al 31, presentandosi come “Regina della Famiglia”. Nella visione la donna si mostra con una veste purpurea e un manto verde, tra le mani tiene due colombi, simbolo dell’unione dei coniugi e su un braccio la corona del Rosario. Durante le apparizioni sollecita a pregare molto e a offrire sacrifici, chiede penitenze e digiuni, promette protezione e guarigioni. 

La voce delle apparizione si diffonde in men che non si dica in quel fazzoletto di terra che è Ghiaie di Bonate e, nonostante la guerra e i mezzi allora disponibili, un fiume di pellegrini comincia ad arrivare, prima cento persone, poi settecento, poi tremila, trentamila, fino a trecentomila persone: tutti vogliono vedere la bambina e chiedono insistentemente all’Adelaide notizie sulla guerra. «Se gli uomini faranno penitenza la guerra finirà fra due mesi, altrimenti poco meno di due anni», le dirà la Madonna, annunciando la fine esatta delle ostilità. Per chi conosce quelle strade e quei paesi, impressiona vedere i filmati dell’epoca: fiumi di ammalati trasportati in barella, pellegrini che si riversano alla stazione di Ponte San Pietro, distante pochi chilometri e che mai più verrà invasa così da una folla devota e a dire il vero da nessun altro tipo di folla.

Il filmato del fotografo Vittorio Villa, realizzato con una rudimentale cinepresa, documenta anche i luoghi e le persone della quotidianità della piccola Adelaide: i sentieri di campagna, la vita contadina, le bambole, quotidianità che verrà stravolta non solo dalle apparizioni, ma dall’incontro con don Luigi Cortesi. Giovane e brillante professore del seminario di Bergamo, subito intuì la portata straordinaria dell’evento e si propose come figura di fiducia per la famiglia che non sapeva più come gestire la folla che si accalcava fuori casa e nemmeno cosa fare con la bambina. Con affabilità e malizia, senza il mandato ufficiale del vescovo, don Cortesi strappa la bambina dalla sua famiglia e, con il pretesto di indagare, nei mesi successivi sottopone Adelaide a fortissime pressioni psicologiche e minacce, analisi e indagini del tutto arbitrarie e invasive, nonché soprusi che lo stesso sacerdote riporterà nei suoi scritti, al fine di convincerla a ritrattare. Un’operazione non facile perché la bambina ribadiva di non avere mentito, si piega solo con la minaccia dell’inferno, ovvero quando il sacerdote le dice: «Fai peccato ad affermare di aver visto la Madonna». Era il 1945. Dopo le crescenti proteste di molte persone che ne avevano visto l’operato, il vescovo impedisce al Cortesi di avvicinarsi di nuovo alla bambina, ma era troppo tardi: l’abiura peserà come un macigno nel processo di riconoscimento delle apparizioni stesse. 

L'anno successivo, finalmente liberata dall’oppressione di don Cortesi, la veggente dichiara che la ritrattazione era falsa e gli era stata estorta con pesantissime pressioni psicologiche e in totale isolamento. Il 18 aprile del 1948 la Chiesa di Bergamo si pronuncia con un decreto firmato dall’allora vescovo Adriano Bernareggi con un giudizio sospensivo «non consta della soprannaturalità», un giudizio che non nega le apparizioni, ma che per anni rappresenterà il punto di non ritorno per gran parte della clero bergamasco. «L’espressione “non consta della realtà”», spiegava Padre Angelo Maria Tentori, mariologo morto nel novembre scorso, «non ha un valore negativo, bensì un valore sospensivo e significa che in quel momento non c’erano elementi probativi sufficienti; il decreto quindi non chiude definitivamente il caso, altrimenti sarebbe stata utilizzata, la formula “consta che non”. Purtroppo dobbiamo registrare un forte equivoco, perché molti, anche nel campo ecclesiale, quindi anche da parte di sacerdoti, ritengono che quel giudizio sia da considerarsi negativo, ossia che significhi che le apparizioni non sono mai avvenute, e purtroppo questo equivoco porta molte persone che vanno a pregare alla Cappella a sentirsi in stato di disobbedienza. Non è così. La formula usata si limita a dire che l’autorità ecclesiastica non riconobbe sufficiente valore probativo agli argomenti portati a favore delle apparizioni. Il giudizio definitivo rimane in sospeso, in attesa di maggiore studio e valutazione dei fatti».
Oggi sono in molti ad auspicare e richiedere una riapertura del caso: da quel maggio del 1944 il flusso di pellegrini al santuario dedicato alla Madonna della Famiglia non si è mai fermato, notte e giorno, sole o pioggia, c’è sempre qualcuno in preghiera. Molti invece ancora oggi non credono alle apparizioni e si dicono convinti che la devozione sia nata su una mistificazione. Nel corso degli anni la distanza fra queste due posizioni si è fatta contrapposizione a tratti: da un lato chi accusa senza mezzi termini la chiesa di Bergamo di aver colpevolmente negato la verità delle apparizioni e vergognosamente negato l’operato meschino di don Cortesi, dall’altro chi difende in modo indefesso la stessa chiesa, giustificando con zelo e insistenza l’operato di tutti i sacerdoti che, con diverso grado e responsabilità, si sono occupati della vicenda.

E Adelaide? A 15 anni decide di consacrarsi con le suore Sacramentine di Bergamo, ma gli strascichi delle apparizioni le sono ancora di ostacolo tanto che è costretta a rinunciare. Così qualche anno dopo si sposa e decide di trasferirsi a Milano dove per una vita intera si dedica alla cura degli ammalati lavorando come infermiera. Per anni, mentre i pellegrini si riversavano a Ghiaie ottenendo guarigioni miracolose e grazie, mentre l’eco delle apparizioni esce dai confini della provincia e dell’Italia, pur nella sofferenza di non vedere confermate le sue parole, Adelaide vive in obbedienza alla Chiesa. Mai una rivendicazione, mai una presa di posizione contro, mai una parola fuori posto, un’accusa. Non solo: Adelaide non si concede a nessuna delle numerose richieste di intervista, per lei non ci sono apparizioni televisive, si sottrae ai riflettori e alle chiacchiere, non alle lusinghe di chi, col pretesto di farle raccontare le ingiustizie subite, voleva farne uno strumento contro la Chiesa, mai un moto di ribellione o anche solo di vanità.

Ma obbedienza non significa totale remissione, non è la rinuncia cieca alla verità che Adelaide coraggiosamente continua ad affermare e a cui rimane sempre fedele. Mai più ha vacillato una volta liberata dall’ombra di don Cortesi, mai, nonostante il pronunciamento della Chiesa, ha ceduto di un centimetro. Non rinnega quelle parole nemmeno quando percepisce chiaramente di avere gran parte del clero cittadino ostile, o comunque non amico: resta saldamente ancorata alla verità. Era il febbraio del 1989 quando davanti ad un notaio scriveva: «Io sottoscritta Roncalli Adelaide nata a Ghiaie di Bonate Sopra (Bg) il 23 aprile 1937, nel quarantacinquesimo anniversario torno a dichiarare, come già più volte ho fatto in occasioni precedenti, che sono assolutamente convinta di aver avuto le apparizioni della Madonna a Ghiaie di Bonate dal 13 al 31 Maggio 1944 quando avevo sette anni. Le vicende da me dolorosamente vissute da allora, le offro a Dio e alla legittima autorità della Chiesa, alla quale sola appartiene di riconoscere o no quanto in tranquilla coscienza e in sicuro possesso delle mie facoltà mentali ritengo essere verità».

Ma è davvero possibile stare in obbedienza alla Chiesa e nello stesso tempo difendere una verità che la Chiesa stessa non conferma, su una questione così rilevante? La vita di Adelaide ci dimostra di sì, i suoi 70 trascorsi da quel maggio delle apparizioni svelano il significato più autentico per un cristiano, dell’obbedienza alla Chiesa: l’affidamento è totale, anche quando il sacrificio è grande, anche quando sembra andare contro ragione, ma è vissuto nella libertà di figli per questo non può esserci timore nell’affermare il vero. «E chi non crede?», aveva chiesto la piccola alla Madonna che le risposte così: «Verranno anche quelli, molti si convertiranno ed io sarò riconosciuta dalla Chiesa». Poi ha aggiunto: «Medita queste parole ogni giorno della tua vita, fatti coraggio in tutte le pene. Mi rivedrai nell'ora della tua morte, ti terrò sotto il mio manto e ti porterò in cielo». 

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PAPA FRANCESCO APPROVA UNA LETTERA CIRCOLARE PER ELIMINARE GLI ABUSI DURANTE LO SCAMBIO DELLA PACE

13/8/2014

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Abolito il canto per la pace (inesistente nel Rito romano); vietato lo spostamento dei fedeli dal loro posto per scambiarsi la pace; il sacerdote non può allontanarsi dall'altare (neppure a matrimoni e funerali)
di Antonio Canizares

1. LA PACE, DONO DEL RISORTO ALLA SUA CHIESA
«Vi lascio la pace, vi do la mia pace», sono le parole con le quali Gesù promette ai suoi discepoli riuniti nel cenacolo, prima di affrontare la passione, il dono della pace, per infondere in loro la gioiosa certezza della sua permanente presenza. Dopo la sua risurrezione, il Signore attua la sua promessa presentandosi in mezzo a loro nel luogo dove si trovavano per timore dei Giudei, dicendo: «Pace a voi!». Frutto della redenzione che Cristo ha portato nel mondo con la sua morte e risurrezione, la pace è il dono che il Risorto continua ancora oggi ad offrire alla sua Chiesa riunita per la celebrazione dell'Eucaristia per testimoniarla nella vita di tutti i giorni.

2. LO SCAMBIO DELLA PACE PRIMA DELLA COMUNIONE
Nella tradizione liturgica romana lo scambio della pace è collocato prima della Comunione con un suo specifico significato teologico. Esso trova il suo punto di riferimento nella contemplazione eucaristica del mistero pasquale - diversamente da come fanno altre famiglie liturgiche che si ispirano al brano evangelico di Matteo (cf. Mt 5, 23) - presentandosi così come il "bacio pasquale" di Cristo risorto presente sull'altare. I riti che preparano alla comunione costituiscono un insieme ben articolato entro il quale ogni elemento ha la sua propria valenza e contribuisce al senso globale della sequenza rituale che converge verso la partecipazione sacramentale al mistero celebrato. Lo scambio della pace, dunque, trova il suo posto tra il Pater noster - al quale si unisce mediante l'embolismo che prepara al gesto della pace - e la frazione del pane - durante la quale si implora l'Agnello di Dio perché ci doni la sua pace -. Con questo gesto, che «ha la funzione di manifestare pace, comunione e carità», la Chiesa «implora la pace e l'unità per se stessa e per l'intera famiglia umana, e i fedeli esprimono la comunione ecclesiale e l'amore vicendevole, prima di comunicare al Sacramento», cioè al Corpo di Cristo Signore.

3. NECESSITÀ DI MODERARE QUESTO GESTO
Nell'Esortazione Apostolica post-sinodale Sacramentum caritatis il Papa Benedetto XVI aveva affidato a questa Congregazione il compito di considerare la problematica concernente lo scambio della pace, affinché fosse salvaguardato il senso sacro della celebrazione eucaristica e il senso del mistero nel momento della Comunione sacramentale: «L'Eucaristia è per sua natura Sacramento della pace. Questa dimensione del Mistero eucaristico trova nella Celebrazione liturgica specifica espressione nel rito dello scambio della pace. Si tratta indubbiamente di un segno di grande valore (cf. Gv 14,27). Nel nostro tempo, così spaventosamente carico di conflitti, questo gesto acquista, anche dal punto di vista della sensibilità comune, un particolare rilievo in quanto la Chiesa avverte sempre più come compito proprio quello di implorare dal Signore il dono della pace e dell'unità per se stessa e per l'intera famiglia umana. [...] Da tutto ciò si comprende l'intensità con cui spesso il rito della pace è sentito nella Celebrazione liturgica. A questo proposito, tuttavia, durante il Sinodo dei Vescovi è stata rilevata l'opportunità di moderare questo gesto, che può assumere espressioni eccessive, suscitando qualche confusione nell'assemblea proprio prima della Comunione. E' bene ricordare come non tolga nulla all'alto valore del gesto la sobrietà necessaria a mantenere un clima adatto alla celebrazione, per esempio facendo in modo di limitare lo scambio della pace a chi sta più vicino».

4. SENSO RELIGIOSO E SOBRIETÀ
Il Papa Benedetto XVI, oltre a mettere in luce il vero senso del rito e dello scambio della pace, ne evidenziava il grande valore come contributo dei cristiani, con la loro preghiera e testimonianza a colmare le angosce più profonde e inquietanti dell'umanità contemporanea. Dinanzi a tutto ciò egli rinnovava il suo invito a prendersi cura di questo rito e a compiere questo gesto liturgico con senso religioso e sobrietà.

5. POSSIBILI SOLUZIONI PER EVITARE GLI ABUSI
Il Dicastero, su disposizione del Papa Benedetto XVI, ha già interpellato le Conferenze dei Vescovi nel maggio del 2008 chiedendo un parere se mantenere lo scambio della pace prima della Comunione, dove si trova adesso, o se trasferirlo in un altro momento, al fine di migliorare la comprensione e lo svolgimento di tale gesto. Dopo approfondita riflessione, si è ritenuto conveniente conservare nella liturgia romana il rito della pace nel suo posto tradizionale e non introdurre cambiamenti strutturali nel Messale Romano. Si offrono di seguito alcune disposizioni pratiche per meglio esprimere il contenuto dello scambio della pace e per moderare le sue espressioni eccessive che suscitano confusione nell'assemblea liturgica proprio prima della Comunione.

6. DISPOSIZIONI PRATICHE 
Il tema trattato è importante. Se i fedeli non comprendono e non dimostrano di vivere, con i loro gesti rituali, il significato corretto del rito della pace, si indebolisce il concetto cristiano della pace e si pregiudica la loro fruttuosa partecipazione all'Eucaristia. Pertanto, accanto alle precedenti riflessioni che possono costituire il nucleo per una opportuna catechesi al riguardo, per la quale si forniranno alcune linee orientative, si offre alla saggia considerazione delle Conferenze dei Vescovi qualche suggerimento pratico:
A) IL RITO DELLA PACE SI PUÒ OMETTERE E TALORA DEVE ESSERE OMESSO
Va definitivamente chiarito che il rito della pace possiede già il suo profondo significato di preghiera e offerta della pace nel contesto dell'Eucaristia. Uno scambio della pace correttamente compiuto tra i partecipanti alla Messa arricchisce di significato e conferisce espressività al rito stesso. Pertanto, è del tutto legittimo asserire che non si tratta di invitare "meccanicamente" a scambiarsi il segno della pace. Se si prevede che esso non si svolgerà adeguatamente a motivo delle concrete circostanze o si ritiene pedagogicamente sensato non realizzarlo in determinate occasioni, si può omettere e talora deve essere omesso. Si ricorda che la rubrica del Messale recita: "Deinde, pro opportunitate, diaconus, vel sacerdos, subiungit: Offerte vobis pacem".
B) SOSTITUIRE CON GESTI PIU' SPECIFICI
Sulla base delle presenti riflessioni, può essere consigliabile che, in occasione ad esempio della pubblicazione della traduzione della terza edizione tipica del Messale Romano nel proprio Paese o in futuro quando vi saranno nuove edizioni del medesimo Messale, le Conferenze dei Vescovi considerino se non sia il caso di cambiare il modo di darsi la pace stabilito a suo tempo. Per esempio, in quei luoghi dove si optò per gesti familiari e profani del saluto, dopo l'esperienza di questi anni, essi potrebbero essere sostituiti con altri gesti più specifici.
C) EVITARE GLI ABUSI
Ad ogni modo, sarà necessario che nel momento dello scambio della pace si evitino definitivamente alcuni abusi come:
- L'introduzione di un "canto per la pace", inesistente nel Rito romano.
- Lo spostamento dei fedeli dal loro posto per scambiarsi il segno della pace tra loro.
- L'allontanamento del sacerdote dall'altare per dare la pace a qualche fedele.
- Che in alcune circostanze, come la solennità di Pasqua e di Natale, o durante le celebrazioni rituali, come il Battesimo, la Prima Comunione, la Confermazione, il Matrimonio, le sacre Ordinazioni, le Professioni religiose e le Esequie, lo scambio della pace sia occasione per esprimere congratulazioni, auguri o condoglianze tra i presenti.

D) CATECHESI LITURGICHE SUL SIGNIFICATO DEL RITO DELLA PACE
Si invitano ugualmente tutte le Conferenze dei Vescovi a preparare delle catechesi liturgiche sul significato del rito della pace nella liturgia romana e sul suo corretto svolgimento nella celebrazione della Santa Messa. A tal riguardo la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti allega alla presente Lettera circolare alcuni spunti orientativi.

7. BEATI GLI OPERATORI DI PACE
La relazione intima tra la lex orandi e la lex credendi deve ovviamente estendersi alla lex vivendi. Raggiungere oggi un serio impegno dei cattolici nella costruzione di un mondo più giusto e più pacifico s'accompagna ad una comprensione più profonda del significato cristiano della pace e questo dipende in gran parte dalla serietà con la quale le nostre Chiese particolari accolgono e invocano il dono della pace e lo esprimono nella celebrazione liturgica. Si insiste e si invita a fare passi efficaci su tale questione perché da ciò dipende la qualità della nostra partecipazione eucaristica e l'efficacia del nostro inserimento, così come espresso nelle beatitudini, tra coloro che sono operatori e costruttori di pace.

8. OPPORTUNA CATECHESI AI FEDELI
Al termine di queste considerazioni, si esortano, pertanto, i Vescovi e, sotto la loro guida, i sacerdoti a voler considerare e approfondire il significato spirituale del rito della pace nella celebrazione della Santa Messa, nella propria formazione liturgica e spirituale e nell'opportuna catechesi ai fedeli. Cristo è la nostra pace, quella pace divina, annunziata dai profeti e dagli angeli, e che Lui ha portato nel mondo con il suo mistero pasquale. Questa pace del Signore Risorto è invocata, annunziata e diffusa nella celebrazione, anche attraverso un gesto umano elevato all'ambito del sacro.

L'APPROVAZIONE DI PAPA FRANCESCO
Il Santo Padre Francesco, il 7 giugno 2014, ha approvato e confermato quanto è contenuto in questa Lettera circolare, preparata dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, e ne ha disposto la pubblicazione.
 
Fonte: Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, 8 giugno 2014
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Genocidio dei cristiani, l'ora della "guerra giusta"?

9/8/2014

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di Massimo Introvigne

Papa Francesco «rivolge il suo pressante appello alla Comunità internazionale, affinché, attivandosi per porre fine al dramma umanitario in atto, si adoperi per proteggere quanti sono interessati o minacciati dalla violenza». L'appello del Pontefice si riferisce al «Nord dell'Iraq» e non riguarda solo i cristiani, ce ne sono centomila in fuga, ma tutte le vittime della violenza. Il calvario dei cristiani della regione di Mosul è noto, e lo conoscono bene i nostri lettori. Ma alle stragi di cristiani si affiancano ora quelle dei seguaci di un'altra religione, gli Yezidi (leggi qui). La Chiesa Cattolica non apprezza particolarmente le visioni del mondo gnostiche, ma oggi è tra i pochi in Iraq a levare la sua voce contro il massacro di questa minoranza che si accompagna a quello dei cristiani. 

Ma protestare non basta. Quando il Papa invita la comunità internazionale ad «attivarsi» e «adoperarsi» per proteggere quanti sono minacciati dalla cieca violenza delle milizie fondamentaliste, solleva evidentemente il problema di un intervento armato. Gli iracheni da soli non ce la fanno. Le missioni umanitarie curano i feriti e soprattutto seppelliscono i morti, ma non impediscono nuove stragi. È giusto mandare i caccia a bombardare o le truppe a combattere contrro i terroristi dell’Isl?  I problemi politici sono evidenti: tante vicende elettorali hanno insegnato ai governanti negli Stati Uniti e all'Europa quanto sia impopolare mandare soldati a morire in terre lontane anche per le migliori ragioni umanitarie. 

Dal punto di vista morale, tuttavia, il pacifismo assoluto come maschera di inconfessati interessi elettorali non corrisponde all'insegnamento della Chiesa. Non solo i Papi si sono espressi a favore della cosiddetta «ingerenza umanitaria», ma Papa Francesco, come i suoi predecessori, ci rimanda spesso al Catechismo della Chiesa Cattolica. Al numero 2265, questo insegna che «la legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri. La difesa del bene comune esige che si ponga l'ingiusto aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, i legittimi detentori dell'autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità». Un diritto che è anche un «grave dovere», su scala nazionale come per la comunità internazionale.

San Giovanni Paolo II ha sviluppato, in occasione delle tragedie della Bosnia e della Somalia, la dottrina del «Catechismo» che impone alla comunità internazionale di non trincerarsi dietro un malinteso pacifismo per rinunciare a una «ingerenza umanitaria» obbligatoria. Il 5 dicembre 1993, parlando alla Fao Papa Wojtyla affermava che «la coscienza dell'umanità, ormai sostenuta dalle disposizioni del diritto internazionale umanitario, chiede che sia reso obbligatorio l'intervento umanitario nelle situazioni che compromettono gravemente la sopravvivenza di interi popoli e gruppi etnici». Il 30 novembre 1993, ricevendo i ministri degli Esteri della Csce, il Pontefice polacco denunciava lo «scandalo del disinteresse di fronte ad eccessi inammissibili», ribadendo il dovere di ingerenza umanitaria quando «i diritti fondamentali di un popolo sono in gioco». Nell'udienza generale del 12 febbraio 1994, san Giovanni Paolo II ribadiva lo stesso principio, invitando a «qualsiasi tipo di azione» - non «solo politica» ma «anche» militare - per «disarmare l'aggressore» quando minaccia di compiere stragi. 

L'8 agosto 1992, con la precisazione che la pubblicazione era stata esplicitamente autorizzata dal Pontefice, «L'Osservatore Romano» riportava questa dichiarazione del cardinale Segretario di Stato, Angelo Sodano: «Con il Papa abbiamo parlato delle preoccupazioni gravi per la Bosnia-Erzegovina. E abbiamo parlato un po' del diritto di ingerenza umanitaria. Direi che gli Stati europei e le Nazioni Unite hanno il dovere e il diritto di ingerenza, per disarmare uno che vuole uccidere. Questo non è favorire la guerra, ma impedire la guerra». Il giorno dopo, di fronte a polemiche di pacifisti, la Sala stampa vaticana ribadiva il pensiero del Papa, secondo cui è un «peccato di omissione» «non fare tutto il possibile - con i mezzi che le Organizzazioni Internazionali sono in grado di mettere a disposizione - per fermare l'aggressione contro popolazioni indifese», e in questi casi non intervenendo adeguatamente si diventa «complici del male».

Oggi, dopo la canonizzazione di Giovanni Paolo II, questo magistero acquista ancora maggiore autorevolezza. Dobbiamo davvero essere tutti attenti a non diventare «complici del male» per via di omissione e di inazione. Contro i carnefici, lo insegnano non solo i Pontefici ma la storia, le belle parole non bastano.
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Come difendersi da offese alla religione e bestemmie sul web?

6/8/2014

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Come difendersi da offese alla religione e bestemmie sul web?
Il far west on line non agevola il percorso giudiziario. E a farne le spese sempre più spesso sono i cattolici. Ecco un piccolo manuale su come difendersi dall'insulto telematico

I cattolici su internet sono tutelati? Cosa accade se si lasciano commenti offensivi nei confronti della religione, di figure apicali come Dio, Gesù, la Vergine Maria, il Papa? E se si scrivono bestemmie si resta impuniti a prescindere? Il dato di partenza è che l'insulto telematico è sempre più diffuso. Basta collegarsi ad un social network o rilasciare un insulto, sotto forma di commento anonimo, in un qualsiasi portale ritenuto di opinione.

COME DIFENDERSI DAL VILIPENDIO
Ci sono norme dell'ordinamento giuridico italiano che possono essere utilizzate anche nella giungla del web per salvaguardare, in qualche modo, il proprio orientamento religioso. L'articolo 403 del codice penale recita che chiunque offende pubblicamente offende la religione dello Stato, mediante vilipendio di chi la professa, è punito con una sanzione amministrativa (multa che intacca il casellario giudiziario) da 1000 a 5000 euro. Se l'offesa è rivolta ad un sacerdote, al Papa, o ad un qualsiasi ministro del culto, la sanzione arriva sino a 6000 euro.

MULTE PER LA BESTEMMIA ON LINE
E' invece possibile appellarsi all'articolo 724 del codice penale per difendersi dalle bestemmie, fenomeno sempre più diffuso sul web e in particolare sul più popolare del social network: facebook. In tal senso, il blog cattolico Pontifex è stato il primo a farsi promotore di una campagna anti-bestemmie tra alcuni gruppi di Facebook, denunciandone gli autori ai sensi dell'articolo 724 così come modificato da una sentenza della Consulta nel 1995 e da un decreto legislativo del 1999 - che punisce «chiunque pubblicamente bestemmia, con invettive o parole oltraggiose, contro la Divinità», con sanzioni amministrative da 51 a 309 euro.


DOVE BISOGNA DENUNCIARE
Per procedere contro chi, trincerandosi dietro una tastiera, insulta o bestemmia ci si può recare presso la Polizia Postale e sporgere denuncia contro il nickname, il nome reale o l'anonimo che scrive. Oppure in alternativa ci si può recare a denunciare l'accaduto presso la Guardia di Finanza o direttamente alla Procura della Repubblica. In tutti e tre casi, se si accerterà la fondatezza della querela, l'autorità potrà procedere ad oscurare preventivamente il sito internet o rimuovere i commenti e le dichiarazioni ritenute oltraggiose ed offensive.

REATI NON PERCEPITI E ARTICOLO 21
Non è per nulla scontato la condanna di chi commette un reato "anti-religioso". Tutt'altro. Ci sono diversi ostacoli sulla strada di chi indaga. Una parte consistente delle querele finiscono con l'archiviazione o l'assoluzione, poiché parliamo di reati, per così dire "non percepiti" dall'opinione pubblica. Un'offesa contro la religione o i suoi ministri di culto, o ancora una bestemmia, vengono azzerati spesso dal diritto di critica, di satira, dall'articolo 21 della Costituzione, che tutela la libertà di manifestare un proprio pensiero per giustificare il commento-insulto.

DIFFICOLTA' A RISALIRE AL MITTENTE
Ci sono altri casi, sopratutto quelli relativi a offese o bestemmie anonime che muoiono nel corso delle indagini. Quando chi indaga si ritrova davanti ad un profilo fake, non basta risalire all'indirizzo (IP) da cui è stato inviato. Perché bisogna tener conto di tanti altri fattori. Può capitare che la persona si trovi in un internet-cafè dove può accedere chiunque alla connessione; o ancora può giustificarsi dicendo di aver smarrito da tempo il pc, o ancora di non essersi trovata al computer all'orario in cui è stato rilasciato il commento o che qualcuno lo abbia utilizzato al suo posto. Tutte scappatoie che dilatano esponenzialmente i tempi delle indagini.

CATTOLICI SVANTAGGIATI
I cattolici, come fa notare l'avvocato Massimo Melica, direttore generale dell'Agenda digitale italiana per l'Europa 2020, «sono svantaggiati e poco tutelati». La lunghezza delle indagini, i risultati non sempre alla stregua delle attese, il far west del web, non agevolano il percorso giudiziario. «Certo - prosegue il legale - c'è una parte dei casi che viene sanzionato ma è minoritario rispetto a quelli che restano impuniti. Ma deve far riflettere un dato: un messaggio offensivo verso l'Islam, scatena una insurrezione internazionale, le offese che quotidianamente ricevono i cattolici, oggi in gran parte convogliate dal web, sono accompagnate dal silenzio».  
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