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OBBEDITE AL PAPA E' GARANTE DELLA VERITA'

19/10/2014

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«Obbedite al Papa, è il garante della verità»

A sorpresa, Papa Francesco ha concluso il Sinodo con un discorso importante e impegnativo, che è stato subito reso pubblico, e che contiene una vigorosa messa in guardia contro deviazioni dottrinali sia «tradizionaliste» sia «progressiste» e un fortissimo – non consueto per Papa Bergoglio – richiamo a riconoscere con obbedienza l’autorità del Papa nella sua direzione ordinaria e quotidiana della Chiesa e non solo nel Magistero straordinario.

Il Papa ha ricordato che aveva chiesto che al Sinodo ci si esprimesse liberamente, perché si manifestasse davvero «uno spirito di collegialità e di sinodalità». I padri, si potrebbe dire, lo hanno preso perfino troppo sul serio. «Ci sono stati – ha detto Francesco – dei momenti di corsa veloce, quasi a voler vincere il tempo e raggiungere al più presto la mèta; altri momenti di affaticamento, quasi a voler dire basta; altri momenti di entusiasmo e di ardore». Molti momenti belli, tra cui il Pontefice ha voluto sottolineare le testimonianze delle famiglie che «hanno condiviso con noi la bellezza e la gioia della loro vita matrimoniale».

Ma quello di Papa Francesco non è stato per nulla un discorso celebrativo inteso a nascondere le tensioni che ci sono state durante il Sinodo, «poiché – ha detto – essendo un cammino di uomini, con le consolazioni ci sono stati anche altri momenti di desolazione, di tensione e di tentazioni». Il Papa ha quindi proposto un elenco delle «tentazioni», di notevole importanza per capire la sua «mens» e che del resto corrisponde a quanto tante volte ha esposto nel suo Magistero.

In un famoso dialogo con il clero delle diocesi di Belluno-Feltre e Treviso del 24 luglio 2007 ad Auronzo di Cadore, Benedetto XVI – non a caso puntigliosamente e ripetutamente evocato e citato nel discorso di Papa Francesco – aveva distinto due errori che dividono la Chiesa: l’«anticonciliarismo», che rifiuta le riforme conciliari e postconciliari in nome del passato, e il «progressismo sbagliato», che rifiuta la continuità con il passato in nome delle riforme conciliari. La formula di Benedetto XVI «riforma nella continuità» – che, come precisò nell’enciclica «Caritas in veritate» vale per tutta la vita della Chiesa e non solo per l’interpretazione del Concilio – non autorizza nessuno a rifiutare la riforma in nome della continuità, né la continuità in nome della riforma. Il linguaggio di Francesco non è, ovviamente, lo stesso di Benedetto, ma i concetti di Papa Bergoglio si costruiscono su quella fondamentale indicazione di Papa Ratzinger.

Da una parte, Francesco denuncia «la tentazione dell’irrigidimento ostile, cioè il voler chiudersi dentro lo scritto (la lettera) e non lasciarsi sorprendere da Dio, dal Dio delle sorprese (lo spirito); dentro la legge, dentro la certezza di ciò che conosciamo e non di ciò che dobbiamo ancora imparare e raggiungere. Dal tempo di Gesù, è la tentazione degli zelanti, degli scrupolosi, dei premurosi e dei cosiddetti – oggi – “tradizionalisti”e anche degli intellettualisti». È quello che Benedetto XVI chiamava «anticonciliarismo», evitando la parola «tradizionalismo» che, come storici e sociologi rilevano, ha diversi significati, non tutti negativi (san Pio X, per esempio, la usava in un senso positivo). Ma la lingua ha una sua forza cui è difficile resistere, e «anticonciliarismo» non è entrato nel linguaggio comune, mentre la parola «tradizionalismo», nel suo senso negativo di rifiuto del Concilio Vaticano II e del Magistero postconciliare, è ormai forse più facilmente comprensibile da molti.

Ma dall’altra parte, spiega Francesco, certamente non meno grave, c’è «la tentazione del buonismo distruttivo, che a nome di una misericordia ingannatrice fascia le ferite senza prima curarle e medicarle; che tratta i sintomi e non le cause e le radici. È la tentazione dei “buonisti”, dei timorosi e anche dei cosiddetti “progressisti e liberalisti”» (ricordiamo che all’espressione italiana «progressista» corrisponde, nel mondo di lingua inglese, «liberal»); «la tentazione di scendere dalla croce, per accontentare la gente, e non rimanerci, per compiere la volontà del Padre; di piegarsi allo spirito mondano invece di purificarlo e piegarlo allo Spirito di Dio».

Da una parte – da quella progressista – c’è «la tentazione di trasformare la pietra in pane per rompere un digiuno lungo, pesante e dolente», chiamando pane quello che in realtà è la pietra dell’errore. Dall’altra parte – quella «tradizionalista» – la tentazione è «trasformare il pane in pietra e scagliarla contro i peccatori, i deboli e i malati cioè di trasformarlo in “fardelli insopportabili”».

Ancora, indica il Papa, dalla parte progressista c’è «la tentazione di trascurare il “depositum fidei”, considerandosi non custodi ma proprietari e padroni». Dalla parte opposta c’è « la tentazione di trascurare la realtà utilizzando una lingua minuziosa e un linguaggio di levigatura per dire tante cose e non dire niente! Li chiamavano “bizantinismi”, credo, queste cose...».

Qualcuno potrebbe scorgere nel discorso del Papa, con tutto il rispetto, il tentativo – che in Italia chiameremmo democristiano – di governare le contraddizioni dal centro. Questa interpretazione sarebbe però maliziosa, e non solo perché la cultura politica argentina del Papa non è quella di tradizione democristiana. Papa Francesco si pone anzitutto su un piano spirituale, vedendo nelle tentazioni il «movimento degli spiriti» di cui parla sant’Ignazio di Loyola negli «Esercizi Spirituali». «Personalmente – ha detto – mi sarei molto preoccupato e rattristato se non ci fossero state queste tentazioni e queste animate discussioni; questo movimento degli spiriti, come lo chiamava Sant’Ignazio (EE, 6) se tutti fossero stati d’accordo o taciturni in una falsa e quietista pace». In questo senso, «le tentazioni non ci devono né spaventare né sconcertare e nemmeno scoraggiare, perché nessun discepolo è più grande del suo maestro; quindi se Gesù è stato tentato – e addirittura chiamato Beelzebul (cf. Mt 12, 24) – i suoi discepoli non devono attendersi un trattamento migliore».

Da che parte sta il Papa? Dalla parte, ha detto, che non vuole «mettere mai in discussione le verità fondamentali del Sacramento del Matrimonio: l’indissolubilità, l’unità, la fedeltà e la procreatività, ossia l’apertura alla vita». Certo, la Chiesa «non ha paura di rimboccarsi le maniche per versare l’olio e il vino sulle ferite degli uomini (cf. Lc 10, 25-37)» e «non guarda l’umanità da un castello di vetro per giudicare o classificare le persone». «Questa è la Chiesa Una, Santa, Cattolica, Apostolica e composta da peccatori, bisognosi della Sua misericordia».

Ma nello stesso tempo «è la Chiesa, la vera sposa di Cristo, che cerca di essere fedele al suo Sposo e alla sua dottrina». La Chiesa «spalanca le porte» a tutti, «non si vergogna del fratello caduto e non fa finta di non vederlo», ma non fa finta neppure di non vedere la caduta, lo abbraccia ma si sente «obbligata a rialzarlo e a incoraggiarlo a riprendere il cammino».

La Chiesa discute, ha ammonito il Papa, ma alla fine «non può sbagliare: è la bellezza e la forza del “sensus fidei”, di quel senso soprannaturale della fede, che viene donato dallo Spirito Santo affinché, insieme, possiamo tutti entrare nel cuore del Vangelo e imparare a seguire Gesù nella nostra vita, e questo non deve essere visto come motivo di confusione e di disagio». «Tanti commentatori, o gente che parla – ha aggiunto Papa Francesco –, hanno immaginato di vedere una Chiesa in litigio dove una parte è contro l’altra, dubitando perfino dello Spirito Santo, il vero promotore e garante dell’unità e dell’armonia nella Chiesa. Lo Spirito Santo che lungo la storia ha sempre condotto la barca, attraverso i suoi Ministri, anche quando il mare era contrario e mosso e i ministri infedeli e peccatori».

Il Pontefice ha concluso invitando, non senza severità, a considerare il ruolo del Papa e l’ubbidienza che tutti gli devono: «il Sinodo si svolge “cum Petro et sub Petro”, e la presenza del Papa è garanzia per tutti». «Parliamo un po’  – ha detto – del Papa, adesso, in rapporto con i vescovi... Dunque, il compito del Papa è quello di garantire l’unità della Chiesa». Francesco ha detto di volere «citare testualmente» sul punto Benedetto XVI, il quale nell’udienza generale del 26 maggio 2010 ricordò che «la Chiesa è chiamata e si impegna ad esercitare questo tipo di autorità che è servizio, e la esercita non a titolo proprio, ma nel nome di Gesù Cristo ... attraverso i Pastori della Chiesa, infatti, Cristo pasce il suo gregge: è Lui che lo guida, lo protegge, lo corregge, perché lo ama profondamente». Lo fa attraverso i vescovi, che però devono essere «in comunione con il Successore di Pietro», sia per istruire nella verità sia – sono ancora parole di Papa Ratzinger – «per manifestare l’infinita misericordia di Dio con le parole rassicuranti della speranza»

Sì, ha detto Francesco, «la Chiesa è di Cristo – è la Sua Sposa – e tutti i vescovi, in comunione con il Successore di Pietro, hanno il compito e il dovere di custodirla e di servirla, non come padroni ma come servitori. Il Papa, in questo contesto, non è il signore supremo ma piuttosto il supremo servitore – il “servus servorum Dei”; il garante dell’ubbidienza e della conformità della Chiesa alla volontà di Dio, al Vangelo di Cristo e alla Tradizione della Chiesa, mettendo da parte ogni arbitrio personale, pur essendo – per volontà di Cristo stesso – il “Pastore e Dottore supremo di tutti i fedeli” (Can. 749) e pur godendo “della potestà ordinaria che è suprema, piena, immediata e universale nella Chiesa” (cf. Cann. 331-334)».

Il richiamo al diritto canonico, non certo consueto in Papa Francesco, e alla «potestà ordinaria che è suprema, piena, immediata e universale» del Papa rappresenta un vigoroso invito all’obbedienza e alla fiducia nel Pontefice, nell’anno che ci separa dal Sinodo ordinario del 2015 che sfocerà poi nell’esortazione apostolica post-sinodale del Pontefice nel 2016. Come ha scritto nel suo ultimo libro Costanza Miriano, «obbedire è meglio».
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Messaggio della III Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo dei Vescovi

18/10/2014

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Synod14 – Messaggio della III Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo dei Vescovi

Noi Padri Sinodali riuniti a Roma intorno a Papa Francesco nell’Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, ci rivolgiamo a tutte le famiglie dei diversi continenti e in particolare a quelle che seguono Cristo Via, Verità e Vita. Manifestiamo la nostra ammirazione e gratitudine per la testimonianza quotidiana che offrite a noi e al mondo con la vostra fedeltà, la vostra fede, speranza, e amore.

Anche noi, pastori della Chiesa, siamo nati e cresciuti in una famiglia con le più diverse storie e vicende. Da sacerdoti e vescovi abbiamo incontrato e siamo vissuti accanto a famiglie che ci hanno narrato a parole e ci hanno mostrato in atti una lunga serie di splendori ma anche di fatiche.

La stessa preparazione di questa assemblea sinodale, a partire dalle risposte al questionario inviato alle Chiese di tutto il mondo, ci ha consentito di ascoltare la voce di tante esperienze familiari. Il nostro dialogo nei giorni del Sinodo ci ha poi reciprocamente arricchito, aiutandoci a guardare tutta la realtà viva e complessa in cui le famiglie vivono.

A voi presentiamo le parole di Cristo: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui e cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3, 20). Come usava fare durante i suoi percorsi lungo le strade della Terra Santa, entrando nelle case dei villaggi, Gesù continua a passare anche oggi per le vie delle nostre città. Nelle vostre case si sperimentano luci ed ombre, sfide esaltanti, ma talora anche prove drammatiche. L’oscurità si fa ancora più fitta fino a diventare tenebra, quando si insinua nel cuore stesso della famiglia il male e il peccato.

C’è, innanzitutto, la grande sfida della fedeltà nell’amore coniugale. Indebolimento della fede e dei valori, individualismo, impoverimento delle relazioni, stress di una frenesia che ignora la riflessione segnano anche la vita familiare. Si assiste, così, a non poche crisi matrimoniali, affrontate spesso in modo sbrigativo e senza il coraggio della pazienza, della verifica, del perdono reciproco, della riconciliazione e anche del sacrificio. I fallimenti danno, così, origine a nuove relazioni, nuove coppie, nuove unioni e nuovi matrimoni, creando situazioni famigliari complesse e problematiche per la scelta cristiana.

Tra queste sfide vogliamo evocare anche la fatica della stessa esistenza. Pensiamo alla sofferenza che può apparire in un figlio diversamente abile, in una malattia grave, nel degrado neurologico della vecchiaia, nella morte di una persona cara. È ammirevole la fedeltà generosa di molte famiglie che vivono queste prove con coraggio, fede e amore, considerandole non come qualcosa che viene strappato o inflitto, ma come qualcosa che è a loro donato e che esse donano, vedendo Cristo sofferente in quelle carni malate.

Pensiamo alle difficoltà economiche causate da sistemi perversi, dal «feticismo del denaro e dalla dittatura di un’economia senza volto e senza scopo veramente umano» (Evangelii gaudium, 55), che umilia la dignità delle persone. Pensiamo al padre o alla madre disoccupati, impotenti di fronte alle necessità anche primarie della loro famiglia, e ai giovani che si trovano davanti a giornate vuote e senza attesa, e che possono diventare preda delle deviazioni nella droga o nella criminalità.

Pensiamo, pure, alla folla delle famiglie povere, a quelle che s’aggrappano a una barca per raggiungere una meta di sopravvivenza, alle famiglie profughe che senza speranza migrano nei deserti, a quelle perseguitate semplicemente per la loro fede e per i loro valori spirituali e umani, a quelle colpite dalla brutalità delle guerre e delle oppressioni. Pensiamo anche alle donne che subiscono violenza e vengono sottoposte allo sfruttamento, alla tratta delle persone, ai bambini e ragazzi vittime di abusi persino da parte di coloro che dovevano custodirli e farli crescere nella fiducia e ai membri di tante famiglie umiliate e in difficoltà. «La cultura del benessere ci anestetizza e […] tutte queste vite stroncate per mancanza di possibilità ci sembrano un mero spettacolo che non ci turba in alcun modo» (Evangelii gaudium, 54). Facciamo appello ai governi e alle organizzazioni internazionali di promuovere i diritti della famiglia per il bene comune.

Cristo ha voluto che la sua Chiesa fosse una casa con la porta sempre aperta nell’accoglienza, senza escludere nessuno. Siamo perciò grati ai pastori, fedeli e comunità pronti ad accompagnare e a farsi carico delle lacerazioni interiori e sociali delle coppie e delle famiglie.

* * *

C’è, però, anche la luce che a sera splende dietro le finestre nelle case delle città, nelle modeste residenze di periferia o nei villaggi e persino nelle capanne: essa brilla e riscalda corpi e anime. Questa luce, nella vicenda nuziale dei coniugi, si accende con l’incontro: è un dono, una grazia che si esprime – come dice la Genesi (2,18) – quando i due volti sono l’uno “di fronte” all’altro, in un “aiuto corrispondente”, cioè pari e reciproco. L’amore dell’uomo e della donna ci insegna che ognuno dei due ha bisogno dell’altro per essere se stesso, pur rimanendo diverso dall’altro nella sua identità, che si apre e si rivela nel dono vicendevole. È ciò che esprime in modo suggestivo la donna del Cantico dei Cantici: «Il mio amato è mio e io sono sua… io sono del mio amato e mio amato e mio», (Ct2,16; 6,3).

L’itinerario, perché questo incontro sia autentico, inizia col fidanzamento, tempo dell’attesa e della preparazione. Si attua in pienezza nel sacramento ove Dio pone il suo suggello, la sua presenza e la sua grazia. Questo cammino conosce anche la sessualità, la tenerezza, la bellezza, che perdurano anche oltre la vigoria e la freschezza giovanile. L’amore tende per sua natura ad essere per sempre, fino a dare la vita per la persona che si ama (cf. Gv 15,13). In questa luce l’amore coniugale, unico e indissolubile, persiste nonostante le tante difficoltà del limite umano; è uno dei miracoli più belli, benché sia anche il più comune.

Questo amore si diffonde attraverso la fecondità e la generatività, che non è solo procreazione, ma anche dono della vita divina nel battesimo, educazione e catechesi dei figli. È pure capacità di offrire vita, affetto, valori, un’esperienza possibile anche a chi non ha potuto generare. Le famiglie che vivono questa avventura luminosa diventano una testimonianza per tutti, in particolare per i giovani.

Durante questo cammino, che è talora un sentiero d’altura, con fatiche e cadute, si ha sempre la presenza e l’accompagnamento di Dio. La famiglia lo sperimenta nell’affetto e nel dialogo tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra fratelli e sorelle. Poi lo vive nell’ascoltare insieme la Parola di Dio e nella preghiera comune, una piccola oasi dello spirito da creare per qualche momento ogni giorno. C’è quindi l’impegno quotidiano dell’educazione alla fede e alla vita buona e bella del Vangelo, alla santità. Questo compito è spesso condiviso ed esercitato con grande affetto e dedizione anche dai nonni e dalle nonne. Così la famiglia si presenta quale autentica Chiesa domestica, che si allarga alla famiglia delle famiglie che è la comunità ecclesiale. I coniugi cristiani sono poi chiamati a diventare maestri nella fede e nell’amore anche per le giovani coppie.

C’è, poi, un’altra espressione della comunione fraterna ed è quella della carità, del dono, della vicinanza agli ultimi, agli emarginati, ai poveri, alle persone sole, malate, straniere, alle altre famiglie in crisi, consapevoli della parola del Signore: «C’è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35). È un dono di beni, di compagnia, di amore e di misericordia, e anche una testimonianza di verità, di luce, di senso della vita.

Il vertice che raccoglie e riassume tutti i fili della comunione con Dio e col prossimo è l’Eucaristia domenicale, quando con tutta la Chiesa la famiglia si siede alla mensa col Signore. Egli si dona a tutti noi, pellegrini nella storia verso la meta dell’incontro ultimo quando «Cristo sarà tutto in tutti» (Col 3,11). Per questo, nella prima tappa del nostro cammino sinodale, abbiamo riflettuto sull’accompagnamento pastorale e sull’accesso ai sacramenti dei divorziati risposati.

Noi Padri Sinodali vi chiediamo di camminare con noi verso il prossimo sinodo. Su di voi aleggia la presenza della famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe nella loro modesta casa. Anche noi, unendoci alla Famiglia di Nazaret, eleviamo al Padre di tutti la nostra invocazione per le famiglie della terra:

Padre, dona a tutte le famiglie la presenza di sposi forti e saggi, che siano sorgente di una famiglia libera e unita.

Padre, dona ai genitori di avere una casa dove vivere in pace con la loro famiglia.

Padre, dona ai figli di essere segno di fiducia e di speranza e ai giovani il coraggio dell’impegno stabile e fedele.

Padre, dona a tutti di poter guadagnare il pane con le loro mani, di gustare la serenità dello spirito e di tener viva la fiaccola della fede anche nel tempo dell’oscurità.

Padre, dona a noi tutti di veder fiorire una Chiesa sempre più fedele e credibile, una città giusta e umana, un mondo che ami la verità, la giustizia e la misericordia.

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BEATIFICAZIONE SS.  PAOLO VI - Il Vangelo dell'amore

18/10/2014

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IL VANGELO DELL'AMORE NEL CUORE DI PAOLO VI

Grande dono è stato per me vivere 24 anni accanto a Paolo VI, dal quale ho ricevuto continue lezioni di fede, di coraggio, di sacrificio, di umiltà e di dedizione gioiosa al Signore.

Un servizio, il mio, nato per obbedienza ai miei superiori, si è rivelato poi come un privilegio spirituale altissimo, condividendo la storia quotidiana di un eccezionale uomo di Chiesa.

Nel riflettere ora sulla figura di Paolo VI cerco di riassumere le mie impres­sioni indicando le sue preferenze.

Amava i bambini:
 aveva per loro una specie di tenerezza reverenziale; se li accarezzava, se li baciava lo faceva con modo finissimo come di fronte a un mistero delicato. Per i bambini infermi aveva una preferenza dolcissima.

Amava i poveri e i sofferenti:
 a ognuno di loro avrebbe voluto dimostrare la sua stima e portare un aiuto veramente provvido.

Amava i giovani:
 non solo perché in essi vedeva l'awenire della società e della Chiesa, ma perché avrebbe voluto che ciascuno di loro valutasse le ricchezze interiori di cui sono depositari e le potesse sviluppare al massimo per la propria felicità, per il regno di Cristo e per il bene del mondo.

Amava i sacerdoti: 
aveva per loro e per i candidati al sacerdozio una parti­colare predilezione che lo muoveva alla commozione, a una venerazione profon­da e a un affetto sincero. Ogni defezione era una ferita per il suo cuore.

Amava le religiose:
 quelle di vita contemplativa cui riconosceva un posto particolare nel cuore della Chiesa e poi tutte le religiose che considerava sorelle amatissime cui la Chiesa deve particolare onore, benevolenza, gratitudine.

Amava i religiosi di tutte le comunità, antiche e moderne.
 Di ciascuna ricercava con passione la particolare spiritualità di cui riconosceva carisma e pregio per l'edificazione del Regno di Dio.

Amava i lavoratori
 ai quali voleva comunicare l'amore profondo di Cristo e della Chiesa perché fossero i protagonisti della civiltà moderna.

Amava le donne
 che venerava alla luce di Maria come le creature cui Dio ha affidato con la maternità qualità e virtù singolari.

Amava la famiglia,
 dalla quale aveva ricevuto beni inestimabili e che ritene­va il fondamento della storia umana e cristiana. Ogni ferita alla famiglia (divorzio, aborto) lo faceva soffrire immensamente.

Amava questo mondo:
 il creato e tutte le meraviglie in esso disseminate: i fiori, gli uccelli, i monti, il mare.

Amava il mondo nelle sue forme moderne
, la scienza, il progresso, l'arte, la letteratura, la poesia, la musica, la cultura.

Amava la storia umana, la storia della Chiesa, la storia di ognuno:
 ogni persona umana lo appassionava. Si interessava ad ogni persona.

Nulla mai lo lasciava indifferente:
 ogni voce era da lui accolta, ogni lettera riceveva attenzione, ogni richiesta esigeva risposta, ogni dono voleva gratitudine, ogni pena suscitava conforto, ogni dolore induceva preghiera.

La sua disponibilità non conosceva limite. La cultura acquisita in tanti anni di studio e di lettura non gli aveva tolto la semplicità del bambino. Aveva un cuore semplice che si manifestava nel suo sguardo.

Uno sguardo limpido 
che penetrava fino in fondo al cuore, e rivelava il suo animo. Non per indagare, non per condannare, non per ricercare, non per inqui­sire, ma per amare, per comprendere, per essere solidale, per confortare. Non come rimprovero, come sfida, come spada che ferisce, ma sempre come aiuto, come sostegno benefico.

Il suo animo 
era così puro e così limpido! Si aveva l'impressione che il male, di cui aveva una percezione radicale e drammatica, non riuscisse a depositarlo nel suo cuore né a intorbidire lo specchio limpido del suo essere. Tuttavia, lo feriva talmente da condurlo fino all'angoscia dell'agonia dell'orto del Getsemani; ma nel dolore del Redentore, di Cristo, riusciva sempre a ricuperare una luce luminosis­sima per sé e per gli altri.

Il Vangelo 
era la sua unica regola. Si potrebbe dire che non aveva altri regolamenti se non la parola di Gesù.

La sua meditazione 
fondamentale era il Vangelo, le lettere di s. Paolo e degli altri apostoli. Atti degli Apostoli, la Sacra Scrittura in generale. Alle parole del Vangelo si ispiravano i suoi modi di essere, di pensare, di agire, di parlare.

Qualsiasi pagina 
era motivo di gioia, di riflessione, di contemplazione, di vitale soddisfazione, da cui sapeva trarre «cose nuove e cose antiche», come qualche idea geniale, qualche intuizione meravigliosa. Il Vangelo è la fonte della sua spiritualità, la radice del suo comportamento, la motivazione decisiva delle sue scelte, la ragione dei suoi gusti.

La parola di Gesù 
è la sola soluzione ai mali del mondo, è la ragione delle sue speranze, è il fondamento definitivo del suo ottimismo, è la sola via d'uscita dalle angosce disperanti dell'uomo moderno.

Senza Cristo non c'è luce,
 non c'è speranza, non c'è amore, non c'è avvenire. La consapevolezza della presenza di Cristo gli ha permesso di far fronte a ogni difficoltà con calma, con pazienza, con serenità, con sicurezza.

Non ho mai visto Paolo VI nell'angoscia,
 nella paura, nella desolazione. Se qualche volta l'ho visto piangere, non fu mai per disperazione o per panico, ma solo per profonda commozione.

Cristo Gesù era il suo unico Maestro.
 S. Paolo, s. Agostino erano l'aiuto più valido per conoscere Cristo. Il suo interesse fondamentale era Cristo, Cristo la sua vera passione, Cristo la sua specialità.

Ha amato la Chiesa 
con amore appassionato, senza limiti, senza calcoli, senza interruzioni, anche quando la Chiesa lo ha fatto soffrire, perché la Chiesa l'ha voluta Cristo, è di Cristo, è la sua sposa, è la sua gloria.

Sempre l'ha amata, 
nella gioia e nel dolore, nello splendore e nella desola­zione, nella crescita e nella diserzione, nel trionfo e nel disprezzo, nell'accoglienza e nel rifiuto. Particolare amore ha sempre nutrito per la Chiesa perseguitata, avvilita, impedita. Anche quando alcuni uomini di Chiesa le facevano gravi torti, non ha mai perso la fiducia, anzi nei momenti più tempestosi il suo amore si faceva più intenso, perché ancorato alla parola di Cristo.

Fu disposto a ogni sacrificio per la Chiesa, 
per la sua pace, la sua unità, la sua santità, la sua bellezza interiore ed esteriore, la sua libertà, la sua fedeltà a Cristo, la universalità, la sua povertà, la sua credibilità, la sua luminosità, la onorabilità.

Amò Maria Santissima
 con un amore dolcissimo: Madre della Chiesa la volle proclamare nel Concilio. Ma con quel titolo voleva onorare soprattutto la Madre dell'uomo, dell'afflitto, del desolato, dell'angosciato, del solo, dell'abban­donato. Madre della Chiesa perché madre di chi soffre con la Chiesa, per la Chiesa, nella Chiesa con Cristo, per Cristo, in Cristo.

L'amore a Cristo, alla Chiesa e a Maria
 riassume tutta la vita di Paolo VI vissuta nella continua, umile e fiduciosa obbedienza alla volontà di Dio. Lo stesso amore risplende nella luce della Trasfigurazione, quando Paolo VI muore ripe­tendo il Padre nostro, quasi come presentazione di sé alle soglie dell'eterno e come messaggio e traccia per il cammino di ogni uomo.
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Il cardinale Burke: «Sul Sinodo informazione manipolata»

15/10/2014

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Il cardinale Burke: «Sul Sinodo informazione manipolata»
Così il Prefetto della Segnatura Apostolica in un’intervista: «Non so come sia concepito il briefing ma mi pare che qualcosa non funzioni»

L'informazione sui lavori del Sinodo «viene manipolata» perché c'è «un numero consistente di vescovi non accetta le idee di apertura ma pochi lo sanno». Lo sottolinea il cardinale Raymond Leo Burke in un'intervista al `Foglio´ che sarà pubblicata domani e che viene anticipata in parte oggi sul sito internet del quotidiano. Burke ora dice di attendere un «pronunciamento» di Papa Francesco, «che può essere solo in continuità con l'insegnamento dato dalla chiesa in tutta la sua storia».

«Io non so come sia concepito il briefing ma mi pare che qualcosa non funzioni bene se l'informazione viene manipolata - dice il cardinal Burke - in modo da dare rilievo solo a una tesi invece che riportare fedelmente le varie posizioni esposte. Questo mi preoccupa molto perché un numero consistente di vescovi non accetta le idee di apertura, ma pochi lo sanno. Si parla solo della necessità che la Chiesa si apra alle istanze del mondo enunciata a febbraio dal cardinale Kasper. In realtà, la sua tesi sui temi della famiglia e su una nuova disciplina per la comunione ai divorziati risposati non è nuova, è già stata discussa trent'anni fa. Poi da febbraio ha ripreso vigore ed è stata colpevolmente lasciata crescere. Ma tutto questo deve finire perché provoca un grave danno per la fede».
 
Il Prefetto della Segnatura Apostolica fa presente che «vescovi e sacerdoti mi dicono che ora tanti divorziati risposati chiedono di essere ammessi alla comunione poiché lo vuole Papa Francesco. In realtà, prendo atto che, invece, finora non si è espresso sulla questione».

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Cari padri sinodali, non rubateci la speranza

13/10/2014

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Cari padri sinodali, non rubateci la speranza
di Riccardo Cascioli

Cari padri sinodali,

in questi giorni sono stati diversi gli interventi dentro e fuori l’aula del Sinodo che hanno dipinto coloro che sono contrari alla comunione per i divorziati risposati come persone che vogliono una “Chiesa dei puri”, “dei perfetti”, perciò una Chiesa elitaria, mentre Gesù è venuto per i peccatori e la Chiesa deve essere aperta a tutti. Ovviamente questa descrizione fa la gioia di tanti giornalisti e intellettuali, che già di loro tendono a dividere la Chiesa in buoni e cattivi.

Ma non è questo il problema. Lo è invece il fatto che personalmente non mi ritrovo affatto in questo giudizio. Per quanto mi riguarda sono ben cosciente di essere un povero peccatore e di avere un estremo bisogno della Misericordia del Signore. Non potrei per questo vagheggiare una “Chiesa dei puri”, perché ne sarei irrimediabilmente escluso. Eppure sono contrario alla Comunione per i divorziati risposati, o comunque per chi vive in situazioni irregolari. Anzi, è proprio perché sono cosciente di essere un peccatore che sono contrario.

Provo a spiegarmi: la consapevolezza del mio peccato mi fa desiderare che qualcuno venga a salvarmi. E salvare vuol dire che qualcuno mi liberi da questa situazione, non che metta in pace la coscienza dicendomi che va bene così. È come quando uno è in mare aperto e sa di non sapere nuotare fino a riva: spera che passi una nave, una barca, andrebbe bene anche un gommone o una tavola di legno, qualcosa insomma che possa dare la possibilità di arrivare sano e salvo a riva, che faccia uscire dall’acqua. Che aiuto sarebbe se passasse un peschereccio e invece di trarre in salvo il naufrago i pescatori lo valorizzassero lodandolo per come sa stare bene a galla? Nell’immediato magari darebbe sollievo psicologico, ma sarebbe la condanna a morte.

Ecco, la speranza che mi è nata incontrando Cristo si fonda proprio nella certezza che un’altra vita è possibile; una certezza che nasce dallo sperimentare la misericordia di Dio ogni volta che cado, ma dove anche «propongo di non farlo mai più». È proprio questo proposito che mi rilancia nella vita. Per non stancarsi mai di chiedere perdono, come tante volte ci ha invitato papa Francesco, c’è bisogno di sapere che dalla mia condizione posso uscire. Concretamente, non metaforicamente. «Anch’io non ti condanno, Va’ e non peccare più». Se la frase di Gesù si fermasse a «..Va’» non ci sarebbe speranza, perché l’esperienza del peccato è davvero l’esperienza della morte; e bisogna sapere che c’è la vita per poter sperare. 

Come nella parabola del padre misericordioso (o del figliol prodigo): il figlio si rende conto di aver sbagliato e abbandona il peccato per tornare alla casa del padre. Non ci torna con prostitute e maiali («nel senso del purcel», direbbe Jannacci), né il padre gli dice di andarli a prendere che tanto gli vuole bene lo stesso.

Se non fosse chiaro cosa è bene e cosa è male, e non fosse chiaro il confine da superare per passare da una condizione all’altra non ci sarebbe più neanche la speranza del bene.

Mi rendo conto che ci sono situazioni davvero difficili, di sofferenza, ma l’appartenenza alla Chiesa non coincide con l’accostarsi alla comunione. Perché non guardare e non ascoltare quelle tante coppie, tante famiglie che vivono quotidianamente la stessa o altre sofferenze seguendo le indicazioni della Chiesa e proprio per questo vi sperimentano un’appartenenza più profonda? Non possono queste essere un esempio anche per le altre coppie che si sentono frustrate? Se davvero siete pastori che sentono l’odore delle pecore non potete non conoscere esempi meravigliosi di coppie che si santificano nel seguire il magistero della Chiesa. Perché di queste coppie non v’è traccia al Sinodo? 

Stabilire per principio (e ribadisco per principio) che nella situazione di peccato si può permanere essendo contemporaneamente in stato di grazia (condizione necessaria per accostarsi alla comunione), non è un atto di misericordia, è l’assassinio della speranza. Mantenere con chiarezza il confine tra il bene e il male non è la condanna di noi peccatori, ma la nostra speranza. 

Papa Francesco tante volte ci ha invitato a «non lasciarci rubare la speranza».

Ecco, per questo cari padri sinodali, vi chiedo: a noi peccatori non rubate la speranza.

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SINODO E GOSSIP

9/10/2014

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Care amiche, cari amici

Se posso permettermi un suggerimento a proposito del Sinodo straordinario dei vescovi intorno alla famiglia cominciato domenica e che si concluderà il 19 ottobre con la beatificazione del Papa dell'Humanae vitae, è quello di fare una cosa che assomiglia al digiuno eucaristico, cioè rifiutarsi di assumere il veleno che esce dalle interviste che ormai tutti, dal cardinale all'ultimo fedele, si sentono in dovere di rilasciare alla stampa, scritta, online o radiotv.

Un veleno che sta trasformando il Sinodo, che venne istituito proprio dal beato Paolo VI per aiutare il Papa a fornire una indicazione magisteriale contenuta nell'esortazione apostolica post-sinodale, in uno scontro fra opposte tifoserie, senza che peraltro la partita sia visibile perché viene giocata a porte chiuse.

 
Certo, le interviste non sono tutte uguali. Ci sono quelle che ribadiscono la dottrina di sempre sul matrimonio e quelle che lasciano immaginare cambiamenti rivoluzionari a proposito della famiglia, ci sono quelle che coniugano il buon senso che tiene conto dei cambiamenti avvenuti nella cultura e nel costume per trovare un modo efficace di fare innamorare i giovani del "fare famiglia" (che è il vero problema di oggi) e ci sono anche le interviste ambigue o comunque inutili. Però la sensazione del lettore è che quanto richiesto dal Pontefice, cioè di evitare interviste e polemiche pur esternando apertamente all'interno dei lavori sinodali la propria opinione, sia stato completamente disatteso da quanti in questi giorni hanno trasformato il Sinodo in una sorta di congresso di partito, eccitati da giornalisti alla ricerca di scoop.

Il suggerimento è dunque di stare tranquilli, di ricordare che la Chiesa è del Signore e che Lui la vuole salvare nonostante noi, di attenerci ai documenti ufficiali e di astenersi dalle interviste, dalle polemiche e dai titoli dei giornali fatti apposta per aumentare le vendite e non per servire la verità. E di ricordare che il documento del Magistero uscirà dopo il prossimo Sinodo ordinario sulla famiglia, quando il Papa pubblicherà l'esortazione apostolica postsinodale sulla famiglia. Tranquillità e pace, come ha detto Francesco concludendo il breve intervento all'inizio dei lavori, "perchè il Sinodo si svolge sempre cum Petro e sub Petro, e la presenza del Papa è garanzia per tutti e custodia della fede". Infatti, come ha scritto Costanza Miriano su Avvenire, qualunque cosa il Pontefice deciderà noi saremo con lui. Sono assolutamente d'accordo.

Marco Invernizzi
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Sotto il Monte, nasce il santuario - 11 ottobre, è festa di S. Giovanni XXIII

9/10/2014

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Sotto il Monte, nasce il santuario
11 ottobre, è festa di S. Giovanni XXIII


Il complesso parrocchiale di Sotto il Monte viene elevato a santuario. Attraverso un decreto del vescovo, si erige a santuario quello che è il luogo della devozione e della preghiera a San Giovanni XXIII. Il complesso che comprende la chiesa parrocchiale, la cappella di Nostra Signora della pace, il giardino della pace e la cripta oboedentia et pax saranno quindi compresi nella definizione di santuario di Sotto il Monte.

Ai luoghi in cui i pellegrini si fermano a pregare è stata riconosciuta l’identità di santuario, perché luoghi di particolare devozione, profonda fede e intensa preghiera. «Questo riconoscimento – dice il parroco monsignor Claudio Dolcini – avviene in concomitanza con la prima festa celebrata di San Giovanni XXIII (11 ottobre) e proprio qui a Sotto il Monte, monsignor Maurizio Malvestiti presiederà domenica 12 la sua prima Messa di Episcopato. Sono tutti segni di questo particolare anno di grazia per questa comunità e per la Chiesa bergamasca».

Durante la novena di preparazione alla festa sono previsti appuntamenti di preghiera e eventi di carattere culturale e artistico. Nel pomeriggio di domenica 12, prima della solenne celebrazione, presieduta da monsignor Malvestiti (neo vescovo di Lodi) e concelebrata dal vescovo monsignor Francesco Beschi, nel Giardino della pace sarà messo a dimora un albero d’ulivo secolare, proveniente dalla Puglia che era in San Pietro durante l’ultima Liturgia della Domenica delle Palme presieduta da San Giovanni Paolo II.

Nell’occasione della festa liturgica di San Giovanni XXIII e dell’elevazione a santuario del complesso parrocchiale la Fondazione Bernareggi, in collaborazione con l’Associazione Giovanni XXIII, espone negli spazi della Casa del Pellegrino due opere di artisti bergamaschi. Si tratta di un’installazione di arte contemporanea realizzata da Arianna Tinulla e un ritratto del Pontefice a opera dell’artista Luigi Scarpanti. 
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«È Francesco», parola di canonista

7/10/2014

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«È Francesco», parola di canonista
di G. Cerrelli e M. Introvigne
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Chi è stato al ‪#‎Conclave‬ (i cardinali) non può parlare, 
chi non ci è stato (i giornalisti) può dire tutto senza timore 
di essere smentito. E' su questo che si basa ‪#‎Socci‬?
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Il libro di Antonio Socci «Non è Francesco» solleva dubbi, che turbano molti suoi lettori, sulla regolarità dell’elezione di Papa Francesco. L’elezione, afferma il giornalista, è avvenuta in modo irregolare, così che il cardinale Bergoglio «non è Francesco» e il legittimo Papa è ancora Benedetto XVI. In questo breve saggio Giancarlo Cerrelli, avocato specializzato in Diritto canonico, e Massimo Introvigne, sociologo ma con anche una laurea in legge, confutano la tesi di Socci.

Dopo la pubblicazione del suo libro «Non è Francesco», Antonio Socci contesta chi identifica la sua posizione con quella dei sedevacantisti, per cui la sede apostolica è vacante. In effetti, per lui non è vacante ma è occupata da Benedetto XVI. Poiché però il Papa emerito non intende esercitare il ministero petrino, e anzi invita a obbedire a Francesco, quello di Socci è un sedevacantismo pratico. È anche un sedevacantismo a orologeria, perché la sede diventerebbe vacante alla morte di Benedetto XVI.

Il problema della validità dell’elezione – Socci lo sa – è del tutto distinto dal giudizio sul pontificato di Francesco. Come scrive Socci, se ha ragione lui il conclave non avrebbe veramente eletto un Papa neppure se avesse scelto il più conservatore dei cardinali.

Su che cosa fonda Socci la sua tesi sensazionale, che – aggiunge – dovrebbe indurre il Papa a fare le valigie e tornarsene in Argentina? Su un resoconto relativo al conclave della giornalista argentina Elisabetta Piqué, dove si legge, a proposito della quinta votazione che elesse Papa Francesco: «Dopo la votazione e prima della lettura dei foglietti, il cardinale scrutatore, che per prima cosa mescola i foglietti deposti nell’urna, si accorge che ce n’è uno in più: sono 116 e non 115 come dovrebbero essere. Sembra che, per errore, un porporato abbia deposto due foglietti nell’urna: uno con il nome del suo prescelto e uno in bianco, che era rimasto attaccato al primo. Cose che succedono. Niente da fare, questa votazione viene subito annullata, i foglietti verranno bruciati più tardi senza essere stati visti, e si procede a una sesta votazione».

Da questa affermazione Socci ricava che l’elezione è stata nulla, per due motivi diversi. Primo, perché, anziché annullare la votazione, si sarebbe dovuto procedere comunque allo scrutinio, che avrebbe potuto dare un esisto diverso dall’elezione del cardinale Bergoglio. Secondo, perché si procedette subito alla sesta votazione, mentre si sarebbe dovuto attendere il giorno dopo. 

Senonché l’argomento di Socci è infondato in fatto e in diritto. In fatto, perché nessuno può sapere se quanto riferisce la Piqué è vero. Curiosamente, in un libro dove nulla è certo e tutto è fallibile, compresi i pronunciamenti e i documenti del Papa, è attribuita una sorta d’infallibilità solo alle poche righe della Piqué, con il pretesto che del suo libro hanno parlato bene il vaticanista Andrea Tornielli, Radio Vaticana e «L’Osservatore Romano» – il quale ha scritto che il libro propone «dettagli inediti sul conclave» –, e che la Piqué è amica del Papa. Solo chi non legge «L’Osservatore Romano» può pensare che un libro recensito su quelle colonne diventi Magistero, e si sa che i giornalisti amano infiorare i loro racconti. E Socci sa benissimo che nessun cardinale può smentire la Piqué perché parlare del conclave è vietato e punito con la scomunica. Da quando esiste la stampa moderna, i giornalisti raccontano la qualunque sui conclavi, e nessuno che al conclave ci sia stato davvero li smentisce, perché smentendoli si esporrebbe a essere scomunicato.

Basterebbe questo per chiedersi di che cosa esattamente Socci stia parlando. Ma ammesso – e assolutamente non concesso – che le cose siano andate come scrive la Piqué, il ragionamento di Socci non sta comunque in piedi in diritto. Le sue contestazioni sono due, e derivano dalla costituzione apostolica di san Giovanni Paolo II «Universi dominici gregis» del 1996, che fissa le regole per il conclave. La prima si riferisce agli articoli 68 e 69 della costituzione. L’articolo 68 stabilisce che, prima dello spoglio, si procede a un conteggio delle schede. «Se il numero delle schede non corrisponde al numero degli elettori, bisogna bruciarle tutte e procedere subito ad una seconda votazione». L’articolo 69 prevede che «qualora nello spoglio dei voti gli Scrutatori trovassero due schede piegate in modo da sembrare compilate da un solo elettore, se esse portano lo stesso nome vanno conteggiate per un solo voto, se invece portano due nomi diversi, nessuno dei due voti sarà valido; tuttavia, in nessuno dei due casi viene annullata la votazione». 

Socci sostiene che «se […] il 68 regolasse la fase del conteggio e il 69 quella dello scrutinio avremmo due articoli che danno due soluzioni opposte per il medesimo problema (una scheda in più). Sarebbero dunque in totale contraddizione». Per evitare questa contraddizione, propone un’interpretazione alternativa a quella più consueta: i due articoli non si riferirebbero a fasi diverse dello scrutinio, ma a casi diversi. Il 68 si riferirebbe al caso in cui si trova una scheda in più, ma tutte le schede sono separate; il 69 al caso in cui la scheda in più è piegata insieme con un’altra in modo che due schede possano essere ricondotte a un solo elettore. 

A Socci però, che non è un giurista, sfugge – quasi celata dal dettaglio – l’architettura complessiva delle norme. L’articolo 66, che non a caso non cita mai, stabilisce che lo scrutinio comprende tre fasi separate: «1) la deposizione delle schede nell'apposita urna; 2) il mescolamento ed il conteggio delle stesse; 3) lo spoglio dei voti». Dopo di che gli articoli 67, 68 e 69 regolano ciascuno una delle tre fasi. Dando l’interpretazione letterale e comune tra i canonisti – l’articolo 68 regola la fase del conteggio e l’articolo 69 quella dello spoglio – non si crea in realtà nessuna contraddizione. In diritto si chiama contraddizione l’esistenza di norme che danno soluzioni diverse allo stesso problema. Ma il 68 e il 69 danno soluzioni diverse a problemi diversi: se la scheda in più si scopre nella fase di conteggio, si applica il 68; se la si trova nella fase di spoglio – ovvero se non c’è nessuna scheda in più ma comunque due schede sembrano «compilate da un solo elettore» – il 69. È possibile che la scheda in più sfugga durante la fase del conteggio ed emerga solo al momento dello spoglio? Sì, è possibile, precisamente nel caso in cui un cardinale abbia piegato due foglietti insieme: è possibile che solo aprendo quella che durante il conteggio era sembrata una sola scheda si scopra che in realtà sono due. Ammettendo che la Piqué abbia ragione, la scheda che non doveva esserci emerse nella fase del conteggio, non in quella dello spoglio, e fu quindi applicato correttamente l’articolo 68 procedendo a bruciare le schede e non a scrutinarle.

La seconda contestazione di Socci riguarda l’articolo 63 della stessa costituzione di san Giovanni Paolo II, il quale prescrive che in ogni giorno di conclave «si dovranno tenere due votazioni sia al mattino sia al pomeriggio», dunque quattro in totale. Secondo la Piqué il 13 marzo vi furono cinque votazioni e non quattro. Qui sì Socci potrebbe vedere una contraddizione con l’articolo 68, il quale prevede come abbiamo visto che qualora in fase di conteggio emerga una scheda in più, occorre bruciare tutte le schede e procedere «subito» a una nuova votazione. «Subito» anche se quel giorno ci sono già state quattro votazioni? Ma in tal caso non si viola l’articolo 63? In realtà no, perché – applicando elementari principi generali del diritto, anche canonico – l’articolo 63 si riferisce a quattro votazioni valide e complete, cioè arrivate fino allo spoglio. Se si bruciano le schede a norma dell’articolo 68 prima di procedere allo spoglio non si è completata la votazione, che dunque non va conteggiata fra le quattro del giorno. Se le cose fossero andate come afferma la Piqué, la cosiddetta «quinta» votazione sarebbe stata in realtà la quarta, perché quella non portata a termine tramite lo spoglio ma interrotta bruciando le schede non poteva entrare nel conteggio.

Socci, dunque, non ha ragione su nessuno dei due punti che solleva. Ma se avesse ragione, e ci fossero state davvero cinque votazioni nello stesso giorno, ovvero si fosse annullata una votazione che andava invece scrutinata, per questo Francesco non sarebbe Papa? In realtà no, neppure in questo caso. Socci, ancora da non giurista, interpreta l’articolo 76 della costituzione «Universi dominici gregis» in modo letterale e formalistico. L’articolo prescrive che «se l’elezione fosse avvenuta altrimenti da come è prescritto nella presente Costituzione o non fossero state osservate le condizioni qui stabilite, l’elezione è per ciò stesso nulla e invalida». Ma questo non significa, come pensa Socci, che qualunque violazione formale renda nulla una cosa tanto importante come l’elezione del Papa. 

Facciamo un esempio: l’articolo 67 prescrive che se un cardinale è infermo gli si portino le schede e la cassetta «su un piccolo vassoio». Se per errore si usasse un vassoio grande anziché piccolo, pensa Socci che l’elezione del Papa sarebbe invalida? L’esempio è paradossale, ma serve a chiarire che l’avverbio «altrimenti» e il riferimento alle «condizioni» si riferisce allo schema essenziale del conclave, e non a singoli elementi, per quanto utili all’ordinato svolgimento delle votazioni. 

La dottrina canonistica più autorevole anzi ritiene che, per evitare incertezze e altri gravi inconvenienti, i requisiti di validità del voto per l’elezione del Romano Pontefice, o tecnicamente per la «provvista dell'ufficio primaziale», siano stati ridotti al minimo: è sufficiente che il procedimento sia stato segreto e che si sia avuto con consenso naturalmente sufficiente. Non rendono nullo il voto, pertanto, né l'errore, né la paura: e neppure un fatto gravissimo come la simonia (art. 78 della costituzione). Solo se lo schema essenziale dell’elezione fosse stato stravolto si potrebbe dire che si è tenuto un conclave «altrimenti» da come prescrive la Chiesa e senza osservare le «condizioni» che questa prescrive. E davvero, se lo schema essenziale del conclave fosse stato stravolto, non un solo cardinale avrebbe protestato?

Riassumendo: nessuno può sapere se le cose siano andate come dice la Piqué, ma anche se fosse così non ci sarebbe stata nessuna irregolarità. Se ci fosse stata – ma non ci fu – qualche irregolarità formale, non tale da alterare lo schema essenziale dell’elezione, questa non invaliderebbe il conclave. Del resto, a differenza di quanto avveniva nel caso degli antipapi del Medioevo, l’elezione di Francesco è stata accettata da tutti i cardinali, i vescovi e i fedeli del mondo, tranne Socci, qualche suo amico e qualche veggente di dubbie intenzioni e costumi morali. 

Le catastrofiche conseguenze prospettate da Socci – se «l’elezione di Bergoglio è nulla, non è mai esistita» cadono le sue nomine episcopali, le canonizzazioni, gli atti di governo – rimangono dunque, per fortuna, frammenti della fervida e certamente brillante immaginazione del giornalista. Per i fedeli comuni, come per qualunque canonista, la risposta al dubbio sollevato da Socci è ovvia: «è Francesco», è il Papa, è stato validamente eletto e validamente governa. Il resto è chiacchiera. 
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