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MAGISTERO DELLA CHIESA SULLE INDULGENZE

29/7/2014

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MAGISTERO DELLA CHIESA SULLE INDULGENZE
DAL “MANUALE DELLE INDULGENZE” 1

N. 1 – L’indulgenza è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati [= le
conseguenze che restano delle nostre colpe, ndr], già rimessi quanto alla colpa [= col sacramento
della confessione, ndr], che il fedele, debitamente disposto e a determinate condizioni, acquista per
intervento della Chiesa, la quale, come ministra della redenzione, autoritativamente dispensa ed
applica il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi [= tutte le preghiere, sacrifici,
mortificazioni e penitenze offerte a Dio come espiazioni dei peccati da Gesù, dalla Madonna e da
tutti i santi, ndr].
N. 2 – L’indulgenza è plenaria o parziale, secondo che libera in tutto (plenaria) o in parte (parziale)
dalla pena temporale dovuta per i peccati [= le sofferenze che sulla terra o in Purgatorio dovremo
affrontare per purificarci dai nostri peccati, ndr]
N. 3 – Ogni fedele può lucrare (= acquistare) le indulgenze sia plenarie che parziali per se stesso [=
in sconto delle pene dovute ai peccati suoi, ndr] oppure applicarle ai defunti a modo di suffragio [=
in sconto delle pene dovute ai peccati dei defunti, per abbreviargli l’intensità o il tempo delle pene
che soffrono nel Purgatorio, ndr]

1. PER LUCRARE QUALUNQUE INDULGENZA È NECESSARIO
• Intenzione almeno generale di acquisirla;
• Distacco dell’affetto dal peccato, anche veniale [= significa che non ci deve essere la volontà di commettere alcun peccato, neanche piccolo 2, ndr];
• Confessione sacramentale;
• Comunione sacramentale;
• Pater, Ave e Gloria secondo le intenzioni del Santo Padre.

2. OGGETTI SACRI A CUI È ANNESSA INDULGENZA PARZIALE SE SE NE FA USO DEVOTO
• Corona, scapolare e crocifisso indossati o venerati devotamente;

3. ALCUNE PARTICOLARITÀ
• Le preghiere prescritte devono essere recitate vocalmente;
• Una confessione vale per più indulgenze (ma una comunione e una preghiera secondo le intenzioni del Santo Padre per una sola indulgenza);
• Si possono lucrare più indulgenze parziali al giorno (ma una sola plenaria);

4. QUATTRO CONCESSIONI GENERALI
Per i cristiani che tendono regolarmente alla perfezione della carità è data indulgenza parziale:
1. Pie invocazioni elevate a Dio con umile fiducia dal cristiano fatte durante lo svolgimento
del suo lavoro o nel tollerare le avversità (= giaculatorie fatte durante la giornata).
!1  Promulgato in ottemperanza alla lettera di Papa Paolo VI “Indulgentiarum doctrina ” (= dottrina delle
indulgenze) dell primo Gennaio 1967. Aggiornato dalla Santa Sede nel 1999.
!2  Anche se, necessariamente, qualche peccato almeno veniale, finché siamo sulla terra, lo commettiamo. Ma
non dobbiamo volere offendere Dio neanche con una semplice bugia. Questa è l’intenzione del testo.
2. Cristiano che dona se stesso o i suoi beni, per spirito di fede, ai fratelli che si trovano in
necessità (= elemosina).
3. Cristiano che si priva di qualche cosa a lui gradita o lecita in spirito di penitenza (= sacrifici
e mortificazioni).
4. Cristiano che rende testimonianza della fede pubblicamente davanti agli altri.

1. CONCESSIONI PARTICOLARI
A) INDULGENZA PLENARIA
5.1 Almeno mezz’ora di adorazione al Santissimo Sacramento;
5.2 Via Crucis;
5.3 Rosario recitato in Chiesa (oppure in ogni luogo se recitato in famiglia o in comune);
5.4 Recita dell’inno Akathistòs (in Chiesa);
5.5 Almeno mezz’ora di lettura della Parola di Dio;
5.6 Ritiro spirituale di almeno tre giorni;
5.7 Indulgenza in articulo mortis: data dal sacerdote con benedizione apostolica ad hoc (si
amministra con il sacramento dell’unzione; per questo è così importante chiamare il sacerdote
prima della morte della persona);
5.8 Partecipazione all’adorazione della Croce il Venerdì Santo;
5.9 Recita in Chiesa dell’inno allo Spirito Santo “Veni Creator” il primo dell’anno e a
Pentecoste;
5.10 Recita in Chiesa il 31 Dicembre dell’inno Te Deum;
5.11 Rinnovazione delle promesse battesimali nella Veglia pasquale e nell’anniversario del
proprio Battesimo con formula propria;
5.12 Recita del Rosario in cimitero e preghiera, anche solo mentale, per i defunti dal primo
all’otto Novembre (per le anime del Purgatorio);
5.13 Visita di una Chiesa o Cappella nel 2 Novembre e recita del Pater e Credo;
5.14 Visita dei seguenti luoghi sacri con recita di Pater e Credo:
•  Una delle quattro basiliche patriarcali romane, facendo un atto di sottomissione al Papa;
•  Una basilica romana minore, una volta l’anno, o nella festa dei Santi Pietro e Paolo o nella Solennità del
Patrono o il 2 di Agosto;
•  Chiesa Cattedrale di ogni diocesi o nella festa dei Santi Pietro e Paolo o nella Solennità del Patrono o il 2
di Agosto;
•  Santuari, una volta all’anno oppure nella festa del Patrono;
•  Chiesa Parrocchiale il 2 Agosto o nella festa del Patrono;
•  Chiesa o altare nel giorno della dedicazione;

B) INDULGENZA PARZIALE
5.1 Visita del Santissimo sacramento;
5.2 Recita degli inni Adoro devote o Tantum ergo o O Sacrum Convivium a Gesù sacramentato;
5.3 Comunione spirituale
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Il fastidio di Dio: "Ma chi mi ha dipinto così?"

27/7/2014

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Il fastidio di Dio: "Ma chi mi ha dipinto così?"
Non il Dio accigliato e cocciuto, barboso e melanconico, arruffato e serioso

Si parla di un uomo che le ha distratto il cuore: “sei il mio tesoro”. E viceversa: si parla di una donna che gli ha distratto l'anima, sin quasi a stordirla: “sei splendida come una perla” (liturgia della XVII^ domenica del tempo ordinario). Il tesoro e la perla: ma anche i gigli e le focacce, la bellezza e l'amore, il batticuore e le sorprese della notte. Perchè ciò che preme a Dio – prima di tutto, a fondamento di tutto, ancor prima del tutto – è dire all'uomo quanto la memoria di lui faccia battere il cuore pure a Dio. Esatto: non il Dio accigliato e cocciuto, barboso e melanconico, arruffato e serioso sin quasi allo stremo di certe raffigurazioni. Purtroppo anche di certe catechesi più o meno ortodosse: no, quelle sono le immagini che l'uomo s'è fatto di Dio, forse la conseguenza di ciò che l'uomo s'è sentito raccontare di Dio. Di sicuro non è ciò che Dio dice di se stesso e del suo paese: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo (…) Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose». Ecco come Dio descrive se stesso: narrando di tesori nascosti e di perle che appaiono. Il Vangelo è il cuore di Dio ma è per l'uomo: non solo tesori e perle ma anche mercanti e ortolani, cercatori di bellezza.

Un Dio che organizza una “caccia al tesoro”? Non è sciatteria, tanto meno banalità: è il vero cruccio del Cielo. Una di quelle dolci simulazioni che si fanno tra amanti: “trovami se sei capace”, oppure “facciamo che io mi nascondo e tu mi cerchi”. C'è chi va cercando Dio ostinatamente come il mercante va alla ricerca della perla - «andare», «cercare», «trovare», «comprare» -: a forza di cercare, il bracconaggio riesce. E c'è gioia in quell'incontro: «pieno di gioia», sottolinea il Vangelo, tanto sobrio nelle parole quanto copioso di piccoli particolari. Ma c'è anche chi Dio magari non lo sta cercando: per distrazione, per disinteresse, per scarsa familiarità con la gioia. In questo caso, è Dio a mettersi in moto, come per l'uomo che sta solcando le zolle di quel terreno. Mica sta cercando un tesoro, semplicemente lo trova, s'imbatte in esso, ne rimane stregato. Entrambi, però, il vangelo li accomuna per la gioia: una festosità così gaia nel cuore al punto  tale da stravolgere la loro vita. Sorpresi dall'amore, sorprendono la cruda ferialità di un'esistenza che non sarà più la stessa. O, meglio, che leggeranno incuneandosi nelle feritoie di un Cielo diventato familiare. Sin quasi fanciullesco per quella sua voglia matta di giocare con i figli di quaggiù.

Del Dio barboso e accigliato? Il Vangelo mica arreca traccia: quei connotati da paura e da rimorso dell'anima li hanno aggiunti gli uomini – anche gli uomini della sua stirpe – perchè è più facile manovrare un Dio vendicativo e tenebroso piuttosto che imbattersi in un Dio amabile e fanciullesco, sin quasi imbarazzante nel suo modo di raccontarsi e di affidarsialla storia della sua umanità: un Dio che si nasconde per farsi trovare, un Dio che s'apposta per arrecare sorpresa, un Dio che finge d'essere lì – magari appena dietro la zolla – per caso quando in realtà t'aveva teso un tranello: per sorprenderti, per sorprendersi, per sorprenderli. Loro: quelli che non alla gioia non ci credono più, quelli che al Cielo temono di volgere ancora lo sguardo, quelli che alla religiosità popolare han preferito la bestemmia come ultimo approdo di un'ostinata ricerca. Quella nella quale è capitolata la grandezza di Salomone: «Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male; infatti chi può governare questo tuo popolo così numeroso?». Dio gli aveva concesso il lusso di chiedere qualsiasi cosa volesse, Salomone s'arrischiò puntando dritto all'essenziale: un cuore docile e nulla di più. Per non tradire quel primordiale annuncio che è rimasto lo stesso nel trascolorare dei giorni: “Dio ti cerca e ti sta trovando. Non te lo perdere, altrimenti sei perduto”. E perduto l'appuntamento con la sorpresa, perderà pure l'appuntamento con Dio. Tanto che di Lui, poi, farà solo grottesche caricature: tutte tristi, tra l'altro.
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«La Messa è noiosa? È un problema vostro, non della Messa»

26/7/2014

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La Messa è così noiosa”.

Quante volte voi genitori l’avete sentito dire dai vostri figli la domenica mattina? Quante volte i nostri insegnanti e i nostri catechisti l’hanno sentito mentre preparavano i bambini per la Messa? E, ammettiamolo, quante volte noi stessi ce lo siamo detti?

Cosa dire di fronte a una frase così infelice e quasi sacrilega? Beh, innanzitutto: “No, non è così!”. Uno può trovare la Messa noiosa, ma è un problema suo, non della Messa.
 
Ci sono nella vita diverse attività importanti che sono “noiose”: le visite dal dentista possono essere tali; le persone che hanno malattie ai reni mi dicono che una dialisi tre volte alla settimana non è un’esperienza entusiasmante; andare a votare non è il massimo del divertimento. Tutte e tre le cose sono però importanti per il nostro stare bene e il loro valore non dipende dal grado di soddisfazione con cui le facciamo. La Messa è ancora più importante per la salute della nostra anima rispetto agli esempi citati.

La noia è un nostro problema e, dicono i sociologi, lo è perché siamo ormai abituati a esperienze mordi e fuggi, a fare zapping con il telecomando quando sbadigliamo di fronte a un programma.

Grazie a Dio, il valore di una persona o di un evento non dipende dal fatto che possano “annoiare” o meno, qualche volta. La gente e gli avvenimenti importanti non esistono per  emozionarci, saremmo dei narcisi o dei ragazzini viziati se lo pensassimo!

Questo è vero in particolar modo per il Santo Sacrificio della Messa. Noi crediamo che ogni Messa è il rinnovarsi dell’avvenimento più importante e decisivo che sia mai accaduto: l’eterno, infinito sacrificio di lode di Dio Figlio a Dio Padre su una croce, sul Monte Calvario, in un venerdì chiamato “santo” (in inglese “good”, buono, ndr).

Pensiamoci un attimo: anche i soldati romani erano “annoiati” quando deridevano Gesù e si giocavano a dadi la sua tunica, l’unica cosa che possedeva.

Secondo, non andiamo a Messa per cercare uno svago, ma per pregare. Se i fiori sull’altare sono belli, se la musica è piacevole, se l’aria condizionata funziona, se la predica è corta e significativa, se attorno ci sono volti amici… tutto questo di certo aiuta. Ma la Messa è efficace anche se tutte queste cose mancano (e spesso purtroppo è così!).

Perché la Messa non riguarda noi, ma Dio. E il valore della Messa viene dalla nostra semplice ma profonda convinzione, basata sulla fede, che per un’ora, la domenica, siamo parte di qualcosa che “va al di là”, siamo innalzati verso l’eterno, siamo partecipi di un mistero, unendoci a Cristo nel rendimento di grazie, nell’amore, nel sacrificio di espiazione che offre eternamente al Padre. Quello che fa Gesù funziona sempre e non è mai noioso.  La Messa non è un tedioso compito che assolviamo per Dio, ma un miracolo che Gesù compie con e per noi.

Un signore mi ha raccontato che quando era ragazzo il cuore della settimana era per lui il pranzo di famiglia alla domenica. Il cibo era buono perché lo cucinava sua mamma e la tavola era felice perché suo padre era sempre presente.

Anche dopo essersi sposato e aver avuto dei figli, alla domenica a pranzo andava con tutta la famiglia da sua madre e da suo padre.  Quando i figli sono cresciuti gli hanno chiesto se era proprio “necessario” andarci, perché a volte lo trovavano “noioso”. “Sì, dobbiamo” rispondeva lui, “perché non andiamo per il cibo, ma per l’amore, perché il papà e la mamma sono là”.

Aveva le lacrime agli occhi mentre lo ricordava, perché quando i suoi genitori erano invecchiati le portate effettivamente non erano più così buone e la compagnia non era più così brillante. Nonostante tutto non era mai mancato una volta: quel pranzo aveva un significato speciale, anche se le lasagne erano bruciate o suo padre si addormentava a tavola.

E ora, diceva, avrebbe dato qualsiasi cosa per essere ancora là, perché sua mamma era morta e suo padre era in una casa per anziani.

Così adesso sono lui e sua moglie a preparare il pranzo della domenica e spera che i suoi tre bambini un giorno vi porteranno le loro mogli e i loro figli.

Lo stesso vale per il pranzo della domenica della nostra famiglia spirituale: la Messa.

Alcuni pensano che una partita allo Yankee Stadium sia noiosa, altri pensano lo stesso della musica country. Secondo molti l’amicizia, il volontariato, la famiglia, la lealtà e l'amore per la patria sono cose “del passato”, che non “prendono” più. Bene: sono loro ad avere un problema!

E poi mi vengono a dire che la Messa è “noiosa”…


* cardinale e arcivescovo di New York     
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NON ESISTE L'EDUCAZIONE NEUTRA: AI GIOVANI VANNO PROPOSTI IL VERO, IL BENE E IL BELLO

24/7/2014

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Il criterio della vita non può essere il soddisfacimento immediato di ogni desiderio, ma un cammino paziente che ci fa amare la vita
di Luisella Saro

C'è una cosa che più delle altre mi inquieta, nella palude relativista nella quale stiamo sprofondando. E' la nostra incapacità (o non volontà) di comunicare ai giovani ciò che è bene e ciò che è male. Non moralisticamente (questo si fa e questo no-perché-di-no). "Bene" e "male" dando ragioni ragionevoli. "Bene" e "male" per la propria vita, per la salute del corpo della mente dell'anima. Per essere felici davvero.

Chi ha la mia età o giù di lì è cresciuto in un'epoca in cui, ancora, la famiglia, la scuola, la società gliel'ha trasmessa, la differenza. Educare voleva dire anche questo. Liberi poi di trasgredire, di deviare, di cadere. Ci si rialzava e si riprendeva la strada. A noi, questo hanno insegnato. Oggi no. Non era mai accaduto nella storia dell'uomo: siamo la prima generazione che ha abdicato al proprio compito educativo, che ha gettato i propri figli nel labirinto, che lascia i giovani impantanati in questa melma in cui vogliono farci credere che tutto sia uguale al contrario di tutto. Chi sono io per dirti cosa è bene e cosa è male, cosa è giusto e cosa è sbagliato? Chi sono io per indicarti la strada? Cercala da te.
Al massimo gli diciamo come fare i furbetti, come non rischiare la galera, come non finire in ospedale, o in un rigurgito di senso civico, come non danneggiare gli altri, sull'onda del refrain la mia libertà finisce dove comincia la tua. Che farsene, poi, di questa libertà, come orientarla, non è dato sapere.

Insomma: bontà nostra viene fornita ai ragazzi qualche strategia di sopravvivenza nella selva oscura, ma neanche una bussola scassata per trovare l'uscita, e figuriamoci se qualcuno oggi ha ancora voglia di candidarsi novello Virgilio. Bussola e guida ledono la libertà, feriscono l'autodeterminazione, dice il pensiero unico che va tanto di moda. Vade retro.

E così leggo su Repubblica, a firma di Roberta Giommi, psicologa della sessualità: «Carlotta mi chiede cosa deve fare perché ha avuto rapporti a rischio con più ragazzi nella stessa sera e sta aspettando con paura le mestruazioni. E' minorenne e la invito ad andare al consultorio giovani. Provo sgomento a pensare che sono passati tanti anni da quando sono nati i consultori giovani e ancora non si sa come coniugare il desiderio di essere liberi nel sesso e la protezione».

Leggo nel "documento politico" sul sito del Gay Pride di Roma, che, tra le innumerevoli altre richieste di diritti, compare anche questa: il «riconoscimento dei poliamori e delle relazioni aperte come differenti forme di affettività che ciascuna e ciascuno di noi può scegliere liberamente».

Leggo che da qualche giorno è online il sito Finti Fidanzati: previo pagamento (lauto!) promette, tramite Facebook, di «far vedere ad amici, parenti e colleghi, una finta relazione con un finto partner».

Notizie date in modo asettico tutte e tre. Come se tutte e tre fossero le cose più normali del mondo: una minorenne che si accoppia la stessa sera con più maschi, il poliamore, i fidanzati virtuali.

Manca uno straccio di giudizio, sui giornali che hanno dato queste notizie; manca la consapevolezza della responsabilità educativa degli adulti nei confronti dei ragazzi; manca, quanto meno, un punto di domanda. Che strada stiamo prendendo? Che strada indichiamo alle generazioni più giovani?

Badate, lo dicevo e lo ridico. Non si tratta di rilievi moralistici o bigotti. In gioco non è una posizione del Kamasutra o il premio famolo strano. In gioco c'è la felicità della persona, e con la felicità non si scherza.

Davvero ce la sentiremmo di dire a nostra figlia che sta muovendo i primi passi nella vita, che la felicità sta in un accoppiamento serale multiplo totalmente sganciato da legami affettivi, basta che non resti incinta? O in un fidanzato virtuale un tanto all'ora? O in un non meglio specificato poliamore?

Se uno ama i propri figli sono altre (e alte!) le mete che indica. Desidera il massimo. Educa al buono, al bello, al vero, al giusto. Aiuta a comprendere che il criterio della vita non è e non può essere «voglio ergo è», il soddisfacimento immediato di ogni fregola, ma un cammino paziente che porta al compimento di sé. E allora, sapete cosa penso?

Penso che tanti sessuologi, tanti giornalisti, tanti politici, tanti intellettuali che siedono nei salotti buoni delle redazioni e delle trasmissioni che contano, tanti esperti (!) Lgbt che entrano nelle aule di scuola e da lì blaterano sulla liberazione e la libertà sessuale, evidentemente non hanno figli. Non ne hanno quelli del Gay Pride che hanno steso il succitato "documento politico" e van ripetendo che «Love is Love, basta essere consenzienti». Né chi per soldi crea siti come Finti 

Fidanzati. Non li hanno tenuti in grembo, non sentono la responsabilità quotidiana di educarli e di crescerli. E' chiaro che non vivono nemmeno quella maternità e paternità straordinaria che caratterizza il lavoro dell'insegnante e dell'educatore, laico e religioso, che si occupa dei figli degli altri e, accompagnandoli nel cammino, comincia a sentirli anche un po' figli suoi perché ne ha a cuore il Destino.

Un mese fa, incontrando insegnanti e studenti, Papa Francesco ha ricordato che «per educare un figlio ci vuole un villaggio» e così ha detto: «Amo la scuola perché ci educa al vero, al bene e al bello. Vanno insieme tutti e tre. 

L'educazione non può essere neutra. O è positiva o è negativa; o arricchisce o impoverisce; o fa crescere la persona o la deprime, persino può corromperla. (…) Coltiviamo in noi il vero, il bene e il bello; e impariamo che queste tre dimensioni non sono mai separate, ma sempre intrecciate. Se una cosa è vera, è buona ed è bella; se è bella, è buona ed è vera; e se è buona, è vera ed è bella. E insieme questi elementi ci fanno crescere e ci aiutano ad amare la vita, anche quando stiamo male, anche in mezzo ai problemi. La vera educazione ci fa amare la vita, e ci apre alla pienezza della vita!»
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Sulle case di tutti

22/7/2014

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Sulle case di tutti
di Marco Tarquinio

Un marchio per individuare i cristiani. Una "N". Un marchio della vergogna.
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Una «N» per marchiare, per umiliare, per discriminare, per derubare legalmente. La impongono – in carattere arabo, lo stesso che affianca il titolo che apre questa pagina – i fondamentalisti musulmani sunniti dell’Isis a Mosul, in Iraq. «N» come «nasara», seguace del Nazareno, cioè cristiano. «N» come marchio di vergogna. Ma vergogna solo e soltanto per coloro che lo usano, che si proclamano credenti in Dio e si dimostrano feroci portatori e servi di odio, sopraffazione e violenza.

Quella «N» la portiamo anche noi, con disarmato e dolente orgoglio, con consapevole partecipazione alla sorte delle donne e degli uomini cristiani di Mosul e di ogni altro perseguitato a ragione della propria fede. Questo è il giorno giusto per dirlo, e – speriamo – non da soli. Perché quella «N» la portiamo nell’anima, nel cuore, sulla pelle, e non come una cicatrice amara o una bandiera di guerra, ma come l’inizio di una parola di fraternità e di libertà.

Vogliamo che si sappia – e sogniamo che tutto il mondo trovi la passione e il coraggio necessari per gridarlo – che quella «N» è stata tracciata anche sulla soglia delle nostre case, sull’uscio delle scuole che frequentano i nostri figli, davanti alle nostre chiese e ai luoghi di culto di chi crede diversamente da noi eppure ci è fratello, sui muri di tutti i civili edifici di città che sogniamo libere, sicure e accoglienti per ogni cittadino, per ogni ospite, per ogni profugo.

Vogliamo tutto questo. E vorremmo anche riuscire a dire che quella «N» non è soltanto una ferita profonda. È un’eco dura e potente della Croce di Cristo in una terra vicina e lontana, come ormai tutte le terre del mondo, come le tante, troppe terre che per i cristiani continuano a essere, ma mai prima così intensamente, terre di quotidiano martirio. Quella «N» è la conferma di una promessa impressionante e difficile, di una speranza che sfida le logiche e le paure degli uomini e delle donne di ogni tempo. È una frazione esigente e splendente di ciò che Gesù annuncia a chi l’incontra e si lascia toccare e cambiare dalla verità dell’incontro: «Beati voi – sta scritto nel Vangelo di Luca (6,22) – quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v’insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’uomo».

Quella «N» incisa per infamare e per depredare, per umiliare e per esiliare può allora aiutare tutti – ma proprio tutti – ad aprire gli occhi, a ritrovare la voce, ad agire senza esitazioni, per umanità contro la prevaricazione e la persecuzione degli inermi. Quella «N» vuole essere e, infatti, sembra un sigillo di dominio e di morte, ma può essere convertita nel principio di una frase antica e nuova: nessuno aggredisca il fratello, nessuno su di lui commetta ingiustizia.
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A cosa serve il tempo libero?

16/7/2014

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Acuta riflessione di Don Giussani sull’attesa delle vacanze che non devono portare a una “vacanza” da se stessi

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Appunti da un dialogo con don Giussani, prima di partire per le ferie
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"Dai primissimi giorni di Gioventù Studentesca abbiamo avuto un concetto chiaro e semplice: tempo libero è il tempo in cui uno non è obbligato a fare niente, non c’è qualcosa che si è obbligati a fare, il tempo libero è tempo libero.

Siccome discutevamo spesso coi genitori e coi professori sul fatto che Gs occupava troppo il tempo libero dei ragazzi, mentre i ragazzi avrebbero dovuto studiare o lavorare in cucina, in casa, io dicevo: «Avranno ben il tempo libero, i ragazzi!». «Ma un giovane, una persona adulta» mi si obiettava «lo si giudica dal lavoro, dalla serietà del lavoro, dalla tenacia e dalla fedeltà al lavoro». «No» rispondevo, «macché! Un ragazzo si giudica da come usa il tempo libero». Oh, si scandalizzavano tutti. E invece... se è tempo libero, significa che uno è libero di fare quello che vuole. Perciò quello che uno vuole lo si capisce da come utilizza il suo tempo libero.

Quello che una persona - giovane o adulto - veramente vuole lo capisco non dal lavoro, dallo studio, cioè da ciò che è obbligato a fare, dalle convenienze o dalle necessità sociali, ma da come usa il suo tempo libero. Se un ragazzo o una persona matura disperde il tempo libero, non ama la vita: è sciocco. La vacanza, infatti, è il classico tempo in cui quasi tutti diventano sciocchi. Al contrario, la vacanza è il tempo più nobile dell’anno, perché è il momento in cui uno si impegna come vuole col valore che riconosce prevalente nella sua vita oppure non si impegna affatto con niente e allora, appunto, è sciocco.

La risposta che davamo a genitori e insegnanti più di quarant’anni fa ha una profondità a cui essi non erano mai giunti: il valore più grande dell’uomo, la virtù, il coraggio, l’energia dell’uomo, il ciò per cui vale la pena vivere, sta nella gratuità, nella capacità della gratuità. E la gratuità è proprio nel tempo libero che emerge e si afferma in modo stupefacente. Il modo della preghiera, la fedeltà alla preghiera, la verità dei rapporti, la dedizione di sé, il gusto delle cose, la modestia nell’usare della realtà, la commozione e la compassione verso le cose, tutto questo lo si vede molto più in vacanza che durante l’anno. In vacanza uno è libero e, se è libero, fa quello che vuole.

Questo vuol dire che la vacanza è una cosa importante. Innanzitutto ciò implica attenzione nella scelta della compagnia e del luogo, ma soprattutto c’entra con il modo in cui si vive: se la vacanza non ti fa mai ricordare quello che vorresti ricordare di più, se non ti rende più buono verso gli altri, ma ti rende più istintivo, se non ti fa imparare a guardare la natura con intenzione profonda, se non ti fa compiere un sacrificio con gioia, il tempo del riposo non ottiene il suo scopo. La vacanza deve essere la più libera possibile. Il criterio delle ferie è quello di respirare, possibilmente a pieni polmoni.
Da questo punto di vista, fissare come principio a priori che un gruppo debba fare la vacanza insieme è innanzitutto contrario a quanto detto, perché i più deboli della compagnia, per esempio, possono non osare dire di no. In secondo luogo è contro il principio missionario: l’andare in vacanza insieme deve rispondere a questo criterio. Comunque, innanzitutto, libertà sopra ogni cosa. Libertà di fare ciò che si vuole... secondo l’ideale! Che cosa ne viene in tasca, a vivere così? La gratuità, la purità del rapporto umano.

In tutto questo l’ultima cosa di cui ci si può accusare è di invitare ad una vita triste o di costringere ad una vita pesante: sarebbe il segno che proprio chi obietta è triste, pesante e macilento. Dove macilento indica chi non mangia e non beve, perciò chi non gode della vita. E dire che Gesù ha identificato lo strumento, il nesso supremo tra l’uomo che cammina sulla terra e il Dio vivente, l’Infinito, il Mistero infinito, col mangiare e col bere: l’eucarestia è mangiare e bere - anche se adesso tanto spesso è ridotta a uno schematismo di cui non si capisce più il significato -. È un mangiare e un bere: agape è un mangiare e bere. L’espressione più grande del rapporto tra me e questa presenza che è Dio fatto uomo in te, o Cristo, è mangiare e bere con te. Dove tu ti identifichi con quel che mangi e bevi, così che, «pur vivendo nella carne io vivo nella fede del Figlio di Dio» (“fede” vuol dire riconoscere una Presenza)
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