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SIAMO TUTTI DEI PAZIENTI... IN ATTESA DELLA CURA

23/10/2025

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La Speranza, da cui nasce la pazienza, è quel dono che ci permette di guardare oltre le difficoltà.

Non a caso, chi è malato e attende la cura si chiama paziente, proprio perché pratica la pazienza.

I pazienti, cioé coloro che soffrono, incarnano questa virtù: attendono con fiducia la guarigione, e in questa attesa riflessa c'è l’umanità che aspetta il Medico divino, Gesù Cristo.

È proprio in questa attesa, spesso dolorosa, che la Speranza si rafforza, perché c’è una promessa che ci attende.

La pazienza, nata dalla Speranza, diventa un terreno fertile in cui la fiducia in Dio cresce giorno per il giorno.

​E così, mentre aspettiamo, ci prepariamo ad accogliere la Grazia promessa.


Questa attesa fiduciosa ci trasforma, ci fa sentire parte di qualcosa di più grande e ci assicura che il Medico divino, Gesù, saprà guarire ogni paziente che si affida a Lui.

Ciò che oggi per noi oggiè Speranza diventerà un domani certezza che ci farà risplendere.
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UMILTA'

1/9/2025

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Laudate e benedicete mi’ Signore,
et rengratiate e serviateli cum grande humilitate.


San Francesco conclude il Cantico delle Creature con un invito che racchiude tutto il senso della sua vita:
“Lodate e benedite il mio Signore, ringraziatelo e servitelo con grande umiltà.”

L’umiltà, secondo la fede cattolica, non è un sentimento di disprezzo di sé, né un farsi piccoli per mancanza di valore. Al contrario: è la verità davanti a Dio. È riconoscere che tutto ciò che siamo e tutto ciò che abbiamo viene da Lui, come dono.

San Francesco, che pure aveva compiuto opere straordinarie, non si pone mai al centro: pone sempre Cristo. L’umile non dice “io non valgo nulla”, ma piuttosto: “tutto ciò che valgo, lo devo a Dio”. L’umiltà è dunque gratitudine, è vivere con cuore libero dall’orgoglio, capace di lodare Dio per ogni creatura e ogni fratello.

Gesù stesso ci ha mostrato l’umiltà come via della salvezza: “imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). E nell’Ultima Cena si è chinato a lavare i piedi ai suoi discepoli: un gesto che dice più di mille parole cosa significa servire con amore.

Per questo Francesco ci ricorda che lodare Dio non è soltanto pregare con le labbra, ma ringraziare e servire. E il vero servizio nasce dall’umiltà: non cercare il proprio vantaggio, ma donarsi, perché nell’altro riconosciamo sempre un fratello, una sorella, un’immagine di Dio.

Allora, l’umiltà diventa la via della gioia: perché quando ci facciamo piccoli davanti al Signore, è Lui che ci rialza e ci colma del suo amore.
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IL MARTIRIO DI SAN GIOVANNI BATTISTA... E IL NOSTRO

28/8/2025

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'Cari fratelli e sorelle, celebrare il martirio di san Giovanni Battista ricorda anche a noi, cristiani di questo nostro tempo, che non si può scendere a compromessi con l’amore a Cristo, alla sua Parola, alla Verità. La Verità è Verità, non ci sono compromessi. La vita cristiana esige, per così dire, il «martirio» della fedeltà quotidiana al Vangelo, il coraggio cioè di lasciare che Cristo cresca in noi e sia Cristo ad orientare il nostro pensiero e le nostre azioni''.
BXVI


Anche oggi si può essere esposti ad un «martirio», sia pure non violento, ogni volta che ci si trova dinanzi al tentativo di far tacere voci scomode che proclamino la Verità. A volte, purtroppo, anche in ambiente ecclesiastico.

Sant’Agostino nel suo Sermo 94/A, spiegò bene che il martirio del Battista derivò dall’aver difeso la Verità che, apparendo scomoda alle orecchie dei malvagi, arriva a generare odio. E fu profetico quando precisò: «Hi sunt fructus futuri saeculi», questi sono i frutti del mondo futuro.

Sant’Agostino volle pure precisare – e sembra parlare agli occidentali di oggi – che «nessuno dovrebbe dire: “Non posso essere martire perché i cristiani oggi non sono perseguitati”, in quanto se Cristo è la verità, soffre per Cristo chiunque viene condannato per la verità», e «omnia tempora patent martyribus», tutti i tempi sono aperti ai martiri. «Forse perché è cessata la persecuzione da parte dei sovrani della terra, per questo non infuria il diavolo?», si chiede il Vescovo d’Ippona. «No, l’antico avversario è sempre instancabilmente all'opera contro di noi, perciò non dobbiamo dormire. Ci trama lusinghe, agguati, ci ispira cattivi pensieri; per farci cadere in modo peggiore», ossia risucchiandoci piano piano nel gorgo infernale dell’apostasia. Precisa, infine, Agostino che «dobbiamo pensare sempre che il diavolo, nostro tentatore e persecutore, non si stanca mai di tramare contro di noi, e noi nel nome e con l’aiuto di Dio nostro Signore non stanchiamoci mai di combattere con ardore contro di lui, perché in qualche occasione vinca su di noi».

San Giovanni Battista è morto martire perché non ha fatto sconti ad Erode. Non ha tentato un “dialogo” per trovare punti d’incontro o soluzioni “misericordiose”. Non ha lanciato “ponti” ad Erode per ascoltare anche le sue ragioni. Non ha voluto usare un particolare “discernimento” per verificare se nella particolare situazione del re vi fosse qualche elemento per attenuare o eliminare la sua responsabilità. Non ha ritenuto di essere tanto “misericordioso” da evitare di gridare ad Erode davanti a tutti: «Non ti è lecito tenere la moglie di tuo fratello!». Non ha voluto considerare se nel rapporto irregolare tra Erode ed Erodiade vi fossero comunque “semi di verità”.

No, Giovanni il Battista è stato ucciso per aver sostenuto che la Verità non può essere “seminata” qua e là, a proprio uso e consumo.

Concludiamo, quindi, con le parole dell’invocazione impetrata da Benedetto XVI durante l’Angelus del 24 giugno 2007: «Invochiamo l’intercessione di San Giovanni Battista, insieme con quella di Maria Santissima, perché anche ai nostri giorni la Chiesa sappia mantenersi sempre fedele a Cristo e testimoniare con coraggio la sua verità e il suo amore per tutti». Sancte Joannes Baptista ora pro nobis et pro sancta Ecclesia Dei.
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SIAMO LO SFORZO CHE ABBIAMO FATTO

11/8/2025

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Uno degli uomini più geniali e inquieti del Novecento è stato senz'altro il filosofo Ludwig Wittgenstein, che contiene la frase diventata proverbiale: «su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Apparteneva a una delle famiglie più ricche d'Europa, ma dopo la Prima guerra mondiale rinunciò all'intera eredità e andò a insegnare come maestro elementare nei villaggi rurali più poveri dell'Austria. Non era un credente nel senso classico del termine, ma fu un uomo alla ricerca di Dio. Scrisse: "Pregare è pensare al senso della vita". Verso la fine della sua esistenza, come un testamento interiore, annotò: "Il mio corpo è stato l'involucro del mio sforzo". Non disse "dei miei successi", né "dei miei titoli" o "delle mie opere". Ma dello sforzo. Noi siamo lo sforzo che abbiamo fatto. Il nostro valore non sta nei risultati ottenuti, ma nell'impegno quotidiano, nella fedeltà silenziosa, nei piccoli gesti di chi veglia anche quando nessuno lo vede. Come fece lui, tra le montagne dimenticate dell'Austria.

Anche il Vangelo ci parla di servi rimasti vigilanti fino alla fine. Il padrone, tornando in un'ora inaspettata, trovandoli svegli, si cinge i fianchi e si mette lui a servirli. È un capovolgimento commovente: non il servo che serve il Signore, ma il Signore che serve i suoi servi fedeli. E questi servi non sono beati perché hanno fatto cose straordinarie, ma perché sono rimasti svegli. "Beati quei servi che il padrone, al suo ritorno, troverà ancora svegli". Hanno atteso, creduto, vegliato... anche se il padrone sembrava tardare.
E noi? Anche a noi sarà capitato di "addormentarci" nella nostra vita di fede, di abbassare la guardia, di perdere il fervore. La fede non è uno slancio iniziale, è una fedeltà quotidiana. Come l'amore vero tra due persone: non si misura in giorni, ma in anni. Non si vive per un momento, ma per una vita intera.

In conclusione. La frase di Wittgenstein "Il mio corpo è stato l'involucro del mio sforzo", è davvero una fotografia della vigilanza evangelica di cui ci parla Gesù. Ma oggi l'idea dello "sforzo" sembra non riscuotere molto successo. Viviamo in una cultura che esalta la comodità, che cerca di facilitare tutto, di raggiungere il massimo con il minimo sforzo. È la logica diffusa anche in una certa "pedagogia della facilità", che vorrebbe trasformare ogni apprendimento in gioco, in divertimento senza nessuno sforzo o sacrificio. Ma sforzarsi, imparare a sacrificarsi, è ciò che ci fa crescere davvero, che ci rende umani. Anche l'intelligenza artificiale, che è uno strumento formidabile a servizio dell'educazione, non deve rendere l'apprendere più banale, ma più profondo, più serio, più qualificato. E questo, ancora una volta, esige sforzo. Quando il Signore, come promesso, verrà "Nell'ora che non immaginate viene il Figlio dell'uomo", ci ricompenserà non per i risultati ottenuti, ma per lo sforzo di restare svegli, nonostante gli abbiocchi.
​Wittgenstein diceva anche: "L'uomo è l'essere che deve continuamente superare se stesso" e "Il lavoro sulla propria vita spirituale è come quello su un'opera d'arte". E allora, non dimentichiamolo mai: non siamo ciò che abbiamo ottenuto, ma lo sforzo che abbiamo compiuto per ottenerlo. Non siamo ciò che conquistiamo, ma Chi abbiamo scelto di servire. E allora, nel silenzio delle nostre giornate ordinarie, tra le fatiche invisibili e le veglie solitarie, possiamo custodire una certezza: ogni sforzo che non ha cercato applausi, ogni fedeltà che ha resistito al sonno del disincanto... tutto questo è visto da Qualcuno. Alla fine, questo Qualcuno che abbiamo servito con fedeltà, ci farà sedere alla sua mensa, e passerà Lui a servirci.
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''E NON CI INDURRE IN TENTAZIONE'' di Papa Benedetto XVI

9/3/2025

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''E NON CI INDURRE IN TENTAZIONE''
Da ''Gesù di Nazareth'' di Papa Benedetto XVI

Le parole di questa domanda sono di scandalo per molti: Dio non ci induce certo in tentazione! Di fatto, san Giacomo afferma: «Nessuno, quando è tentato, dica: "Sono tentato da Dio"; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male» (1,13). Ci aiuta a fare un passo avanti il ricordarci della parola del Vangelo: «Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo» (Mi 4,1). La tentazione viene dal diavolo, ma nel compito messianico di Gesù rientra il superare le grandi tentazioni che hanno allontanato e continuano ad allontanare gli uomini da Dio. Egli deve, come abbiamo visto, sperimentare su di sé queste tentazioni fino alla morte sulla croce e aprirci in questo modo la via della salvezza. Così, non solo dopo la morte, ma in essa e durante tutta la sua vita deve in certo qual modo «discendere negli inferi», nel luogo delle nostre tentazioni e sconfitte, per prenderci per mano e portarci verso l'alto. La Lettera agli Ebrei ha sottolineato in mo-do tutto particolare questo aspetto, mettendolo in risalto come parte essenziale del cammino di Gesù: «Infatti, proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (2,18). «Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato Lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (4,15).

Uno sguardo al Libro di Giobbe, in cui sotto tanti aspetti si delinea già il mistero di Cristo, può fornirci ulteriori chiarimenti. Satana schernisce l'uomo per schernire in questo modo Dio: la sua creatura, che Egli
ha formato a sua immagine, è una creatura miserevole. Quanto in essa sembra bene, è invece solo facciata. In realtà all'uomo - a ogni uomo - interessa sempre e solo il proprio benessere. Questa è la diagnosi di Satana, che l'Apocalisse definisce «l'accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte» (Ap 12,10). La diffamazione dell'uomo e della creazione è in ultima istanza diffamazione di Dio, giustificazione del suo rifiuto. Satana vuole dimostrare la sua tesi con Giobbe, il giusto: se solo gli venisse tolto tutto, allora egli lascerebbe presto perdere anche la sua religiosità. Così Dio concede a Satana la libertà di mettere alla prova Giobbe, anche se entro limiti ben definiti: Dio non lascia cadere l'uomo, ma permette che venga messo alla prova. Qui traspare già in modo sommesso e non ancora esplicito il mistero della vicarietà, che prende una forma grandiosa in Isaia 53: le sofferenze di Giobbe servono alla giustificazione dell'uomo. Mediante la sua fede provata nella sofferenza, egli ristabilisce l'onore dell'uomo. Così le sofferenze di Giobbe sono anticipatamente sofferenze in comunione con Cristo, che ristabilisce l'onore di noi tutti al cospetto di Dio e ci in- dica la via per non perdere, neppure nell'oscurità più profonda, la fede in Dio.

Il Libro di Giobbe può anche esserci d'aiuto nel discernimento tra prova e tentazione. Per maturare, per trovare davvero sempre più la strada che da una religiosità di facciata conduce a una profonda unione con la volontà di Dio, l'uomo ha bisogno della prova. Come il succo dell'uva deve fermentare per divenire vino di qualità, così l'uomo ha bisogno di purificazioni, di trasformazioni che per lui sono pericolose, che possono provocarne la caduta, che però costituiscono le vie indispensabili per giungere a se stessi e a Dio. L'amore è sempre un processo di purificazioni, di rinunce, di trasformazioni dolorose di noi stessi e così una via di maturazione. Se Francesco Saverio poté pregare Dio dicendo: «Ti amo, non perché puoi donarmi il paradiso o l'inferno, ma semplicemente perché sei quello che sei - mio re e mio Dio», era stato certamente necessario un lungo percorso di purificazioni interiori per giungere a quest'ultima libertà - un percorso di maturazioni, in cui era in agguato la tentazione, il pericolo della caduta - e tuttavia un percorso necessario.

Così possiamo ora interpretare la sesta domanda del Padre nostro già in maniera un po' più concreta. Con essa diciamo a Dio: «So che ho bisogno di prove affinché la mia natura si purifichi. Se tu decidi di sottopormi a queste prove, se - come nel caso di Giobbe - dai un po' di mano libera al Maligno, allora pensa, per favore, alla misura limitata delle mie forze. Non credermi troppo capace. Non tracciare troppo ampi i confini entro i quali posso essere tentato, e siimi vicino con la tua mano protettrice quando la prova diventa troppo ardua per me». In questo senso san Cipriano ha interpretato la domanda. Dice: quando chiediamo «e non c'indurre in tentazione», esprimiamo la consapevolezza «che il nemico non può fare niente contro di noi se prima non gli è stato permesso da Dio; così che ogni nostro timore e devozione e culto si rivolgano a Dio, dal momento che nelle nostre tentazioni niente è lecito al Maligno, se non gliene vien data di là la facoltà» (De dom. or. 25). E poi, ponderando il profilo psicologico della tentazione, egli spiega che ci possono essere due differenti motivi per cui Dio concede al Maligno un potere limitato.

Può accadere come penitenza per noi, per smorzare la nostra superbia, affinché sperimentiamo di nuovo la povertà del nostro credere, sperare e amare e non presumiamo di essere grandi da noi: pensiamo al fariseo che racconta a Dio delle proprie opere e crede di non aver bisogno di alcuna grazia. Cipriano, purtroppo, non specifica poi il significato dell'altro tipo di prova: la tentazione che Dio ci impone ad gloriam - per la sua gloria. Ma in questo caso non dovremmo ricordarci che Dio ha messo un carico particolarmente gravoso di tentazioni sulle spalle delle persone a Lui particolarmente vicine, i grandi santi, da Antonio nel deserto fino a Teresa di Lisieux nel pio mondo del suo Carmelo? Tali persone stanno, per così dire, sulle orme di Giobbe come apologia dell'uomo, che è al contempo difesa di Dio. Ancor più: sono in modo del tutto particolare in comunione con Gesù Cristo, che ha sofferto fino in fondo le nostre tentazioni. Sono chiamate a superare, per così dire, nel proprio corpo, nella propria anima le tentazioni di un'epoca, a sostenerle per noi, anime comuni, e ad aiutarci nel passaggio verso Colui che ha preso su di sé il gravame di tutti noi. Nella preghiera che esprimiamo con la sesta domanda del Padre nostro deve così essere racchiusa, da un lato, la disponibilità a prendere su di noi il peso della prova commisurata alle nostre forze; dall'altro, appunto, la domanda che Dio non ci addossi più di quanto siamo in grado di sopportare; che non ci lasci cadere dalle sue mani.

Pronunciamo questa richiesta nella fiduciosa certezza per la quale san Paolo ci ha donato le parole: «Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d'uscita e la forza per sopportarla» (1 Cor 10,13).
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I DUE GRANDI AMICI

30/1/2025

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La Seconda Guerra Mondiale ha lasciato profonde cicatrici nei popoli europei, tra cui la Polonia, che ha subito devastazioni e oppressione sotto l’occupazione nazista. Questo ha generato per anni sentimenti di rancore nei confronti della Germania. Tuttavia, la storia ha dimostrato che il dialogo e la fede possono trasformare anche le ferite più profonde in ponti di riconciliazione.

Un esempio straordinario di questa trasformazione è l’amicizia tra Papa Giovanni Paolo II, polacco, e il Cardinale Joseph Ratzinger, tedesco. Nonostante il passato difficile tra i loro popoli, i due uomini di fede hanno costruito un rapporto fondato sul rispetto, sulla stima reciproca e sulla comune dedizione alla Chiesa. Giovanni Paolo II scelse Ratzinger come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, un incarico di grande responsabilità, dimostrando fiducia nella sua saggezza e nella sua guida teologica.

Questo legame non fu solo personale, ma rappresentò un simbolo di riconciliazione tra Polonia e Germania, mostrando come la fede possa superare le divisioni storiche e trasformare l’odio in amicizia. L’elezione di Ratzinger a Papa Benedetto XVI, dopo la scomparsa di Giovanni Paolo II, fu la conferma di questa continuità spirituale e del potere della riconciliazione.

La loro amicizia resta un esempio di come il perdono e la fede possano unire ciò che la guerra ha diviso, insegnando al mondo che il dialogo e l’amore possono superare anche le ferite più profonde della storia.

​PdN

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GIUBILEO AD 2025 - RACCONTI DI SPERANZA

27/1/2025

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GIUBILEO AD 2025 - PEREGRINANTES IN SPEM
RACCONTI DI SPERANZA dal Bollettino di dicembre 2024 della Parrocchia di Loreto in Bergamo

La nostra famiglia si compone della ottantacinquenne mamma Maria, pilastro di forza e saggezza e dei figli: Paolo di 57 anni, Grazia di 53, e i gemelli Marco e Daniela di 51 anni. Papà Renato, che oggi avrebbe84 anni, è morto nel 2023, ma continua a vivere nei cuori di tutti.

La Charcot-Marie-Tooth (CMT), una malattia genetica neurologica che colpisce i nervi periferici, influenzando la trasmissione dei segnali tra il sistema nervoso centrale e i muscoli, ha profondamente segnato la nostra vita familiare. La malattia ha colpito tre dei quattro figli: Paolo, Marco e Daniela, mentre Grazia è l'unica ad esserne stata risparmiata. Il percorso è
stato caratterizzato da numerosi interventi chirurgici e adattamenti continui della routine familiare, portando negli ultimi anni all'utilizzo della sedia a rotelle per i tre fratelli colpiti. Nonostante le limitazioni, la determinazione ha permesso sia a Paolo che a Marco di raggiungere importanti traguardi professionali. Entrambi hanno completato gli studi e intrapreso esperienze lavorative: Paolo in banca e Marco presso una società di rilievo nazionale a Bergamo. La famiglia ha anche affrontato e superato altre prove significative, come quando Daniela ha sconfitto un tumore al seno grazie a cure tempestive.
Il 2018 ha segnato una svolta con il primo ricovero di Paolo in terapia intensiva, momento in cui è entrato nelle nostre vite il dottor Marchesi. Nel 2023, il suo intervento si è rivelato nuovamente decisivo per Marco, salvandolo da una grave crisi respiratoria. Entrambi hanno successivamente necessitato di tracheostomia.

Il dottor Gianmariano Marchesi, premiato con la benemerenza 2024 del Comune di Bergamo, ha superato il ruolo di professionista diventando un punto di riferimento fondamentale. La sua presenza, che unisce competenza e umanità, rappresenta un dono divino, dimostrando come la medicina possa trasformarsi in sostegno morale e spirituale. E questa è già un grande motivo per continuare ad andare avanti!

La speranza nella nostra casa ha radici profonde, piantate con amore e dedizione dai nostri genitori. La nostra mamma continua a essere la nostra colonna portante, e nostro papà, che anche se non è più fisicamente con noi da quasi due anni, hanno edificato
un rifugio dove la serenità trova spazio nonostante le difficoltà quotidiane. Attraverso i loro gesti, le loro scelte e il loro instancabile impegno, ci hanno insegnato che la vera forza risiede nella nostra unione familiare. Questa lezione continua a vivere nei nostri incontri quotidiani, nei pranzi e nelle cene condivisi, manifestandosi nei gesti di cura reciproca. Nostra sorella, che vive a pochi passi da noi e ci sostiene quotidianamente, è testimone e continuatrice di questo prezioso insegnamento.

Ma la luce più che profonda illumina la nostra casa è la speranza in Dio, un faro che guida ogni nostro passo. Questa presenza divina risplende anche nei momenti più oscuri, permeando ogni aspetto della nostra esistenza. Le quattro mura, che con il tempo
sono diventate il nostro unico mondo, amplificano questa speranza che si manifesta nella Provvidenza divina di ogni giorno: nei sorrisi condivisi, nei gesti di gentilezza, nei momenti di pace interiore che troviamo nella preghiera.

In questa casa, la speranza si manifesta attraverso l'eredità d'amore dei nostri genitori e la nostra fede incrollabile. È la certezza che insieme, come famiglia unita, possiamo trovare luce anche nei momenti più difficili, con la dolce consapevolezza che un giorno ci ritroveremo tutti in paradiso, dove papà ci aspetta
nella gloria del Signore.

Famiglia Moretti
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CONVERSAZIONI CON SAN FRANCESCO

4/10/2024

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CONVERSAZIONI
"Quanto mi piace san Francesco!"
"Come mai?"
E' meraviglioso, mite, umile, buono, tollerante, ecologico, animalista..."
"Sei sicura di conoscerlo veramente?"
"Oh sì, lui avvicina a Dio con la sua povertà, con il suo esempio, non come quei ricconi del vaticano; menomale che ora abbiamo un papa che a lui s'ispira".
"Papa a parte, perdonami, ma non mi sembra che tu sia tanto cristiana, se non altro non ti ho mai vista in chiesa, anzi mi hai detto tu stessa che la Messa non serve a niente e, correggimi se sbaglio, convivi con un uomo che non è tuo marito..."
"Cosa centrano queste cose da bigotto! Io sono più cristiana di tanti!! Non faccio male a nessuno, sono tollerante io!"
"Nessuna intenzione di giudicare la tua anima, ma i fatti sono questi."
"Se voi credenti foste più "francescani" sareste migliori: leggetevi il cantico delle creature!"
"Amica cara, io l'ho letto e mi ricordo pure bene cosa dice verso la fine..."
"E che dirà mai!!?!"
«Guai a quelli che morranno nei peccati mortali »
"GULP!"

Roberto Bonaventura

PREGHIERA
O Serafico San Francesco, Patrono d'Italia,
tu che rinnovasti il mondo nello spirito di Gesù Cristo, ascoltaci!

L'avidità delle ricchezze, l'insidia dei piaceri,
la follia del disordine tornano ad offuscare le menti e ad agghiacciare i cuori.

Tu che fosti segnato dalle stimmate della Passione,
fa che il Sangue di Cristo infiammi tutti i popoli e ci comunichi la tua luce, il tuo amore, il tuo spirito.

Tu conosci le anime, le opere, le ansie e le speranze nostre: benedicile!

Proteggi la Chiesa, proteggi l'Italia di cui sei Patrono, proteggi il mondo intero, suscita sul cammino di tutti gli uomini un desiderio fecondo di Pace e Bene, nel quale soltanto è perfetta letizia.

Così sia.
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VERGOGNOSAMENTE IPOCRITI

9/9/2024

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POVERA FRANCA IPOCRITA

Ieri sera, durante la cerimonia di chiusura delle Paralimpiadi di Parigi, ho sentito parlare con grande enfasi di diritti umani, di inclusione e soprattutto di accoglienza... sempre e comunque...

A me, sentire queste parole, non possono che far venire in mente come, solo qualche mese fa, proprio in Francia sia stato inserito nella Costituzione francese il diritto all'aborto...

Ne consegue che le parole dette ieri sera, come tutte quelle dette nei giorni precedenti, mi sono sembrate semplicemente vuote, fastidiose, incoerenti e ipocrite.

Poi, a sentire decantare, dai vari “autorevoli” pulpiti, come si sia logico e giusto sentirsi orgogliosi nel far parte di una nazione così magnificamente rivoluzionaria sotto l’aspetto dei diritti umani come la Francia, mi è sorta la domanda, finora senza risposta, di come sia possibile esserlo realmente…

Io ne proverei solo tanta vergogna!

Alla luce di queste “contraddizioni”, non posso fare a meno di chiedermi se possiamo davvero parlare di progresso e inclusione, o se siamo semplicemente complici di una grande ipocrisia.

Tuttavia, nutro ancora la speranza che un giorno le parole pronunciate con tanto risalto possano trasformarsi in azioni concrete, e che si possa finalmente costruire un mondo più giusto e accogliente per tutti.

PdN
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FACEBOOK & C. E IL DONO DELLA DISCREZIONE

1/9/2024

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Sui profili di Facebook impazzano notizie, foto, filmati sulle nostre vacanze. Che luoghi belli abbiamo visitato! Quanto siamo stati bene con le persone che amiamo! Che carini i nostri bambini sullo sfondo di questi paesaggi esotici! Tutto viene documentato subito e mostrato sulla nostra pagina. Alcuni fanno i selfie persino con il Santo Padre. Va bene. La tecnica ci fornisce tutte queste belle possibilità.
​
Nell’euforia delle nostre condivisioni dalle vacanze vale la pena, tuttavia, essere un po` sensibili alle persone che forse vorrebbero – ma non possono – viaggiare tanto come noi. Alle persone che proprio adesso soffrono dopo perdita della persona che amavano. Alle persone che magari vorrebbero avere bambini ma non possono. Cosa possono sentire e pensare vedendo la nostra felicità?

Nell’epoca dell’aggressività informativa, una giusta misura nella trasmissione di notizie da parte nostra sembra necessaria, anzi salvifica. La tradizione monastica conosce questa virtù come discrezione, l’arte di una sensibilità pratica. Non è giusto aumentare da parte nostra la pressione nei confronti delle persone; eppure, molto spesso, contribuiamo anche noi, facendo agli altri ciò che vogliamo evitare a noi stessi.
Quando qualcuno ci chiede qualcosa, spesso rifiutiamo, spiegando che siamo occupati etc. La persona che ci chiede, molte volte dopo aver superato tante paure – viene respinta e rimane da sola con il suo problema. San Benedetto, nel versetto 13. del capitolo XXXI della sua Regola raccomandava all’economo che, se non può concedere quanto gli è stato richiesto, dia almeno una risposta caritatevole. È un’arte dell’amore per il prossimo mostrare almeno una certa comprensione.

Nonostante tanti comportamenti narcisistici attorno a noi, dobbiamo ricordarci (comprendere) sempre che non viviamo da soli. Le nostre parole, gesti, decisioni provocano varie reazioni. Nell’epoca dell’onnipresenza dei mezzi di comunicazione, tutto ciò che comunichiamo è diventato un campo immenso d’influsso che possiamo avere: del bene che possiamo trasmettere, come anche del male che possiamo suscitare. Avere questa consapevolezza, è esso stesso un messaggio da trasmettere quasi con ogni clic nei nostri portali social. Spesso più piccolo della parole, ma potenzialmente molto più forte e, speriamo, consolante…

fr. Bernard Sawicki osb
Coordinatore dell’Istituto Monastico all’Ateneo Pontificio Sant’ Anselmo
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