di Giuliano Guzzo
Brutte notizie amici, ci siamo persi un comandamento per strada: quello che impone di parlare “da cattolici”. Altri invece devono averlo scovato in qualche vangelo apocrifo e lo mettono drammaticamente in pratica. Lo si vede e lo si legge tutti i giorni – non occorre fare nomi e cognomi – nelle dichiarazioni di politici, intellettuali e in qualche caso persino di prelati i quali, con frequenza sempre maggiore, allorquando si accingono ad affrontare temi eticamente sensibili, non perdono occasione per riproporre l’imperdibile puntualizzazione: «Parlo da cattolico». Ora, al dato positivo – fa sempre piacere che fra i battezzati vi sia ancora chi, ogni tanto, rammenta d’esserlo – di solito ne segue uno assai meno entusiasmante, che nove volte su dieci si sostanzia in una dichiarazione in totale contrasto con la dottrina della Chiesa. «Parlo da cattolico, ma credo che la Chiesa si debba rinnovare». «Parlo da cattolico, ma in certi casi non considero l’aborto sbagliato». «Parlo da cattolico, ma sono favorevole alla fecondazione assistita». «Parlo da cattolico, ma per me non conta se Gesù sia risorto, l’importante è quello che ha detto perché ha parlato d’amore».
Prima che un lettore meno forte di altri accusi comprensibili malori, meglio fermarsi. Del resto il senso è chiaro: il «parlo da cattolico» è ormai divenuto la premessa allo strafalcione, qualche pignolo direbbe all’eresia ma non esageriamo, se no finisce che qualcheduno, poi, prende sul serio gli insegnamenti della Chiesa: non sia mai. Tornando a noi, la domanda ora è una ed è molto semplice: com’è possibile tutto questo? Come si è arrivati all’infelice matrimonio fra il «parlo da cattolico» e la licenza di spararla grossa, meglio se più grossa possibile? Trattandosi di problema complesso, è saggio limitarsi a delle ipotesi.
La prima: parlare «da cattolici» è un conto, agire da tali è molto diverso e, soprattutto, più costoso: in un caso infatti basta l’autocertificazione, nell’altro è richiesta la testimonianza.
Seconda ipotesi: parlare «da cattolici» è facile, dire cose «cattoliche» per nulla, tanto che persino il Figlio di Dio, quando lo faceva, non riscontrava alcun successo e si sentiva chiedere: «Questo parlare è duro: chi lo può ascoltare?» (Giovanni 5,2.60).
Un’ultima ipotesi è quella di una conoscenza limitata della dottrina cristiana, spesso confusa con un’odiosa sfilza di divieti. E chissà qual è, delle tre, quella giusta. Sempre che non sia in realtà giusto così, e cioè esibire il patentino «da cattolici» per poi sfrecciare a tutta velocità fra dichiarazioni e battute imbarazzanti. Il tutto guardandosi bene dal provare, senza tanti proclami, a sostenere posizioni etiche che fra l’altro non abbisognano di alcun tipo di riferimento confessionale. Puoi difatti sostenere la naturalità della famiglia citando Aristotele, condannare l’aborto citando Bobbio, avversare l’eutanasia facendo tue le posizioni del francese Lucien Israel, agnostico luminare dell’oncologia. Il «parlo da cattolico» seguito da uscite spiazzanti non è dunque necessario. Eppure continua ad essere impiegato, al punto che si potrebbe quasi parlare di tormentone. Come mai? Abbiamo avanzato delle ipotesi, ma il mistero resta. E in attesa che qualcuno lo chiarisca un pensiero ci allieta: meno male che Gesù Cristo, quella volta, non ha scelto di parlare «da cattolico». Altrimenti avrebbe fondato una bocciofila o un circolo della briscola. Ma non di certo il Cristianesimo.