Hai preso ora coscienza della tua miseria, della tua povertà, della tua malizia; per questo gridi verso il Signore come il pubblicano: «O Dio, abbi pietà di me, peccatore! » (Lc 18,14). E puoi aggiungere: «Io sono anche peggio del pubblicano, perché non posso impedirmi di guardare con disprezzo il fariseo, e il mio cuore si inorgoglisce dicendo: ‘Ti ringrazio che io non sono come lui!’».
Ma, ci dicono i santi, quando avrai constatato il nerume del tuo cuore e la fralezza della tua carne, perderai ogni voglia di giudicare il tuo fratello. Al di là della tua personale caligine, vedrai allora la luce celeste brillare in tutte le creature, che ne portano riflesso lo splendore; poiché non ti sarà più possibile star a guardare i peccati degli altri, quando i tuoi sono così grandi. In effetti, proprio quando tendi con ardore verso la perfezione, incominci a scoprire la tua imperfezione. E solo se avrai visto quanto sei imperfetto, la perfezione ti diventerà accessibile. Così la perfezione scaturisce dalla debolezza. E allora otterrai quello che s. Isacco il Siro assicura a chi perseguita se stesso: «Il tuo nemico sarà volto in fuga al tuo solo avvicinarti ».
Di qual nemico parla qui il santo? È evidente: di colui che prese un giorno la forma di serpente e che, da allora, suscita in noi il malcontento, l’insoddisfazione, l’impazienza, la precipitazione, la collera, l’invidia, la paura, l’ansietà, l’odio, l’abbattimento, l’indolenza, la tristezza, il dubbio, e tutto quello che ci avvelena l’esistenza e si radica nel nostro amor proprio e nella compassione verso noi medesimi.
Come dunque potrebbe volere che gli altri gli obbediscano, colui che constata, con la profonda sofferenza che l’amore ispira, che egli non obbedisce al suo Signore? Come, allora, potrebbe turbarsi, spazientirsi, andare in collera, se tutto non va secondo i suoi desideri? Un tale uomo si è abituato, con un lungo esercizio, a non desiderare più niente, e, come spiega l’abate Doroteo, a colui che non ha più desideri, tutto va per il verso. La sua volontà si è pienamente adattata a quella di Dio, e tutto ciò che egli domanda, l’ottiene (cf. Mc 11,24).
Può forse provare invidia colui che, ben lungi dal volersi innalzare, è cosciente delle proprie deficienze e pensa che gli altri meritano più di lui stima e considerazione? Può provare timore, angoscia o ansietà, colui che, come il ladrone in croce, vede in tutto ciò che gli capita il giusto salario delle sue azioni (Lc 23,41)? La sciatteria lo abbandona, perché egli ne smaschera e insegue in se stesso, continuamente, le minime tracce. L’abbattimento scompare, perché come potrebbe essere buttato a terra colui che se ne sta senza posa prostrato nel suo spirito? Il suo odio ormai è tutto rivolto contro il male che porta in sé e che gli impedisce di vedere con limpidezza il Signore; egli odia davvero la propria vita (Lc 14,26).
Non è più accessibile al dubbio, perché ha gustato e ha visto quanto il Signore è buono (Sai 34,8); è solo il Signore che lo sostiene. Il suo amore si dilata incessantemente, e con esso, la sua fede. Egli raccoglie il frutto dell’umiltà. Ma tutto questo non si trova che sulla via stretta, e sono pochi quelli che la imboccano (Mt 7,14).