A sorpresa, Papa Francesco ha concluso il Sinodo con un discorso importante e impegnativo, che è stato subito reso pubblico, e che contiene una vigorosa messa in guardia contro deviazioni dottrinali sia «tradizionaliste» sia «progressiste» e un fortissimo – non consueto per Papa Bergoglio – richiamo a riconoscere con obbedienza l’autorità del Papa nella sua direzione ordinaria e quotidiana della Chiesa e non solo nel Magistero straordinario.
Il Papa ha ricordato che aveva chiesto che al Sinodo ci si esprimesse liberamente, perché si manifestasse davvero «uno spirito di collegialità e di sinodalità». I padri, si potrebbe dire, lo hanno preso perfino troppo sul serio. «Ci sono stati – ha detto Francesco – dei momenti di corsa veloce, quasi a voler vincere il tempo e raggiungere al più presto la mèta; altri momenti di affaticamento, quasi a voler dire basta; altri momenti di entusiasmo e di ardore». Molti momenti belli, tra cui il Pontefice ha voluto sottolineare le testimonianze delle famiglie che «hanno condiviso con noi la bellezza e la gioia della loro vita matrimoniale».
Ma quello di Papa Francesco non è stato per nulla un discorso celebrativo inteso a nascondere le tensioni che ci sono state durante il Sinodo, «poiché – ha detto – essendo un cammino di uomini, con le consolazioni ci sono stati anche altri momenti di desolazione, di tensione e di tentazioni». Il Papa ha quindi proposto un elenco delle «tentazioni», di notevole importanza per capire la sua «mens» e che del resto corrisponde a quanto tante volte ha esposto nel suo Magistero.
In un famoso dialogo con il clero delle diocesi di Belluno-Feltre e Treviso del 24 luglio 2007 ad Auronzo di Cadore, Benedetto XVI – non a caso puntigliosamente e ripetutamente evocato e citato nel discorso di Papa Francesco – aveva distinto due errori che dividono la Chiesa: l’«anticonciliarismo», che rifiuta le riforme conciliari e postconciliari in nome del passato, e il «progressismo sbagliato», che rifiuta la continuità con il passato in nome delle riforme conciliari. La formula di Benedetto XVI «riforma nella continuità» – che, come precisò nell’enciclica «Caritas in veritate» vale per tutta la vita della Chiesa e non solo per l’interpretazione del Concilio – non autorizza nessuno a rifiutare la riforma in nome della continuità, né la continuità in nome della riforma. Il linguaggio di Francesco non è, ovviamente, lo stesso di Benedetto, ma i concetti di Papa Bergoglio si costruiscono su quella fondamentale indicazione di Papa Ratzinger.
Da una parte, Francesco denuncia «la tentazione dell’irrigidimento ostile, cioè il voler chiudersi dentro lo scritto (la lettera) e non lasciarsi sorprendere da Dio, dal Dio delle sorprese (lo spirito); dentro la legge, dentro la certezza di ciò che conosciamo e non di ciò che dobbiamo ancora imparare e raggiungere. Dal tempo di Gesù, è la tentazione degli zelanti, degli scrupolosi, dei premurosi e dei cosiddetti – oggi – “tradizionalisti”e anche degli intellettualisti». È quello che Benedetto XVI chiamava «anticonciliarismo», evitando la parola «tradizionalismo» che, come storici e sociologi rilevano, ha diversi significati, non tutti negativi (san Pio X, per esempio, la usava in un senso positivo). Ma la lingua ha una sua forza cui è difficile resistere, e «anticonciliarismo» non è entrato nel linguaggio comune, mentre la parola «tradizionalismo», nel suo senso negativo di rifiuto del Concilio Vaticano II e del Magistero postconciliare, è ormai forse più facilmente comprensibile da molti.
Ma dall’altra parte, spiega Francesco, certamente non meno grave, c’è «la tentazione del buonismo distruttivo, che a nome di una misericordia ingannatrice fascia le ferite senza prima curarle e medicarle; che tratta i sintomi e non le cause e le radici. È la tentazione dei “buonisti”, dei timorosi e anche dei cosiddetti “progressisti e liberalisti”» (ricordiamo che all’espressione italiana «progressista» corrisponde, nel mondo di lingua inglese, «liberal»); «la tentazione di scendere dalla croce, per accontentare la gente, e non rimanerci, per compiere la volontà del Padre; di piegarsi allo spirito mondano invece di purificarlo e piegarlo allo Spirito di Dio».
Da una parte – da quella progressista – c’è «la tentazione di trasformare la pietra in pane per rompere un digiuno lungo, pesante e dolente», chiamando pane quello che in realtà è la pietra dell’errore. Dall’altra parte – quella «tradizionalista» – la tentazione è «trasformare il pane in pietra e scagliarla contro i peccatori, i deboli e i malati cioè di trasformarlo in “fardelli insopportabili”».
Ancora, indica il Papa, dalla parte progressista c’è «la tentazione di trascurare il “depositum fidei”, considerandosi non custodi ma proprietari e padroni». Dalla parte opposta c’è « la tentazione di trascurare la realtà utilizzando una lingua minuziosa e un linguaggio di levigatura per dire tante cose e non dire niente! Li chiamavano “bizantinismi”, credo, queste cose...».
Qualcuno potrebbe scorgere nel discorso del Papa, con tutto il rispetto, il tentativo – che in Italia chiameremmo democristiano – di governare le contraddizioni dal centro. Questa interpretazione sarebbe però maliziosa, e non solo perché la cultura politica argentina del Papa non è quella di tradizione democristiana. Papa Francesco si pone anzitutto su un piano spirituale, vedendo nelle tentazioni il «movimento degli spiriti» di cui parla sant’Ignazio di Loyola negli «Esercizi Spirituali». «Personalmente – ha detto – mi sarei molto preoccupato e rattristato se non ci fossero state queste tentazioni e queste animate discussioni; questo movimento degli spiriti, come lo chiamava Sant’Ignazio (EE, 6) se tutti fossero stati d’accordo o taciturni in una falsa e quietista pace». In questo senso, «le tentazioni non ci devono né spaventare né sconcertare e nemmeno scoraggiare, perché nessun discepolo è più grande del suo maestro; quindi se Gesù è stato tentato – e addirittura chiamato Beelzebul (cf. Mt 12, 24) – i suoi discepoli non devono attendersi un trattamento migliore».
Da che parte sta il Papa? Dalla parte, ha detto, che non vuole «mettere mai in discussione le verità fondamentali del Sacramento del Matrimonio: l’indissolubilità, l’unità, la fedeltà e la procreatività, ossia l’apertura alla vita». Certo, la Chiesa «non ha paura di rimboccarsi le maniche per versare l’olio e il vino sulle ferite degli uomini (cf. Lc 10, 25-37)» e «non guarda l’umanità da un castello di vetro per giudicare o classificare le persone». «Questa è la Chiesa Una, Santa, Cattolica, Apostolica e composta da peccatori, bisognosi della Sua misericordia».
Ma nello stesso tempo «è la Chiesa, la vera sposa di Cristo, che cerca di essere fedele al suo Sposo e alla sua dottrina». La Chiesa «spalanca le porte» a tutti, «non si vergogna del fratello caduto e non fa finta di non vederlo», ma non fa finta neppure di non vedere la caduta, lo abbraccia ma si sente «obbligata a rialzarlo e a incoraggiarlo a riprendere il cammino».
La Chiesa discute, ha ammonito il Papa, ma alla fine «non può sbagliare: è la bellezza e la forza del “sensus fidei”, di quel senso soprannaturale della fede, che viene donato dallo Spirito Santo affinché, insieme, possiamo tutti entrare nel cuore del Vangelo e imparare a seguire Gesù nella nostra vita, e questo non deve essere visto come motivo di confusione e di disagio». «Tanti commentatori, o gente che parla – ha aggiunto Papa Francesco –, hanno immaginato di vedere una Chiesa in litigio dove una parte è contro l’altra, dubitando perfino dello Spirito Santo, il vero promotore e garante dell’unità e dell’armonia nella Chiesa. Lo Spirito Santo che lungo la storia ha sempre condotto la barca, attraverso i suoi Ministri, anche quando il mare era contrario e mosso e i ministri infedeli e peccatori».
Il Pontefice ha concluso invitando, non senza severità, a considerare il ruolo del Papa e l’ubbidienza che tutti gli devono: «il Sinodo si svolge “cum Petro et sub Petro”, e la presenza del Papa è garanzia per tutti». «Parliamo un po’ – ha detto – del Papa, adesso, in rapporto con i vescovi... Dunque, il compito del Papa è quello di garantire l’unità della Chiesa». Francesco ha detto di volere «citare testualmente» sul punto Benedetto XVI, il quale nell’udienza generale del 26 maggio 2010 ricordò che «la Chiesa è chiamata e si impegna ad esercitare questo tipo di autorità che è servizio, e la esercita non a titolo proprio, ma nel nome di Gesù Cristo ... attraverso i Pastori della Chiesa, infatti, Cristo pasce il suo gregge: è Lui che lo guida, lo protegge, lo corregge, perché lo ama profondamente». Lo fa attraverso i vescovi, che però devono essere «in comunione con il Successore di Pietro», sia per istruire nella verità sia – sono ancora parole di Papa Ratzinger – «per manifestare l’infinita misericordia di Dio con le parole rassicuranti della speranza»
Sì, ha detto Francesco, «la Chiesa è di Cristo – è la Sua Sposa – e tutti i vescovi, in comunione con il Successore di Pietro, hanno il compito e il dovere di custodirla e di servirla, non come padroni ma come servitori. Il Papa, in questo contesto, non è il signore supremo ma piuttosto il supremo servitore – il “servus servorum Dei”; il garante dell’ubbidienza e della conformità della Chiesa alla volontà di Dio, al Vangelo di Cristo e alla Tradizione della Chiesa, mettendo da parte ogni arbitrio personale, pur essendo – per volontà di Cristo stesso – il “Pastore e Dottore supremo di tutti i fedeli” (Can. 749) e pur godendo “della potestà ordinaria che è suprema, piena, immediata e universale nella Chiesa” (cf. Cann. 331-334)».
Il richiamo al diritto canonico, non certo consueto in Papa Francesco, e alla «potestà ordinaria che è suprema, piena, immediata e universale» del Papa rappresenta un vigoroso invito all’obbedienza e alla fiducia nel Pontefice, nell’anno che ci separa dal Sinodo ordinario del 2015 che sfocerà poi nell’esortazione apostolica post-sinodale del Pontefice nel 2016. Come ha scritto nel suo ultimo libro Costanza Miriano, «obbedire è meglio».