I DIECI COMANDAMENTI - Il secondo comandamento: Dio e il suo nome
Il secondo comandamento proibisce di nominare invano il nome del Signore nostro Dio. Come abbiamo già avuto modo di osservare questo precetto (come tutti) contiene e veicola anzitutto un valore importante ed essenziale da riconoscere, perseguire e tutelare: in questo caso la santità del “nome” di Dio e il rispetto e l’adorazione a Lui dovuti come Essere Supremo, Sommo ed Eterno.
Nella Sacra Scrittura il nome designa sempre l’essenza e l’identità profonda della persona. Ciò che vale per i nomi di molti idiomi, vale per tutti i nomi ebraici: sono sempre intrisi di un significato molto profondo che è un po’ come l’identikit di colui che porta quel dato nome. Pensiamo, solo per fare qualche esempio, al significato del nome di Gesù (“Jahvèh salva”), a quello dell’arcangelo Michele (“chi è come Dio”), a quello del profeta Elia (“Dio è Jahvèh”). Il nome individua dunque la persona, la ragione profonda del suo essere ed anche il contenuto della sua missione. Si pone a questo punto perentoria una domanda: Dio ha un nome? E cosa significa il termine “Dio”?
Come afferma san Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae (S. Th., I, q. 13), riferendo il pensiero di san Giovanni Crisostomo, la possibile etimologia del termine “Dio” (in greco “theòs”) è triplice: come derivante dal verbo “theein”, che significa “correre”, ad indicare la rapidità, o meglio l’istantaneità con cui Dio agisce e provvede a tutte le cose (noi sappiamo che per Dio basta un movimento della volontà per creare o modificare qualunque cosa); come derivante dal verbo “aethein” (“ardere”), in riferimento al fatto che Dio è un “fuoco divoratore” (Dt 4,24; Eb ,12,29) come afferma la Scrittura e come ci attesta la prima grande epifania di Dio di cui tra breve parleremo: con ciò si alluderebbe all’incendio eterno di amore che caratterizza la vita intima della divina essenza; infine come derivante dal verbo “theaomai” (“vedere”), che rimanda al fatto che Dio vede chiaramente e simultaneamente tutte le cose. Quest’ultima significazione trova conferma dall’etimo derivante dal sanscrito “thieu”, che significa “luce”. Da questo breve e sintetico excursus emergono già chiaramente alcuni caratteri di questo “essere supremo che tutti chiamano Dio” (volendo chiosare le celebri espressioni adoperate da sant’Anselmo e San Tommaso d’Aquino), quali l’assoluta ed istantanea potenza, l’ineffabile ed eterno amore, il supremo controllo e l’infallibile e simultanea conoscenza di tutto lo scibile, reale o potenziale.
Basterebbe questo per prendere coscienza del timore e tremore con cui tutte le creature dovrebbero accostarsi a questo supremo Ente. Ma Dio, nella sua infinita bontà, ha voluto anche rivelare il suo nome proprio nella celebre teofania del roveto ardente che ebbe come spettatore il suo servo Mosè (cf Es 3,1-15). In questo episodio Dio, dopo essersi mostrato attraverso l’immagine del roveto che ardeva senza consumarsi (chiara allusione alla grande simbologia legata al fuoco); dopo aver esortato Mosè a togliersi i sandali (dettaglio molto importante e dall’alta valenza significativa, dato che scalzi andavano fin da allora gli schiavi, ovvero coloro che erano assolutamente privi di ogni diritto e proprietà); dopo aver ricordato la sua primitiva rivelazione come Dio personale ed in rapporto personale con gli uomini sue creature (“Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”), si rivela finalmente come “io sono Colui che sono”. Purtroppo una simile straordinaria affermazione, magistralmente spiegata da san Tommaso d’Aquino e oltremodo adeguata per farci apprendere una qualche cognizione, certamente misteriosa ma al tempo stesso vera e profonda di chi Dio è, a noi uomini del ventesimo secolo, figli del nichilismo e della postmodernità, potrebbe sembrare banale, o forse priva di senso o addirittura incomprensibile. Invece con questa sublime espressione vengono affermate, in modo assoluto, tre proprietà che appartengono a Dio e a Dio solo: 1) l’identità tra essere ed essenza; 2) l’eternità; 3) l’immutabilità.
Nessuno si spaventi dinanzi all’apparente difficoltà della prima affermazione. Cosa significa che in Dio l’essere si identifica con l’essenza? Una cosa che Gesù, nel Vangelo, spiega in termini per noi certamente più comprensibili, dicendo: “io sono [non “io ho”] la Vita”. Nel senso che mentre per ogni ente creato, la vita non è affatto una realtà necessaria (io posso pensare ad un cane senza che necessariamente questo debba esistere) ed è comunque sempre contingente (ogni creatura ha una data di nascita ed una di morte), in Dio vale il contrario: l’essenza di Dio, ciò che fa di Dio ciò che è, è “l’essere il Vivente”. Dio non solo ha, ma è una Vita che non ha data di nascita né di morte. Badiamo bene a questa affermazione e alla sua portata. Noi esseri creati, infatti, possiamo concepire l’eternità solo in avanti (“qualcosa che non finisce mai”), ma non all’indietro (“qualcosa che non ha inizio”). Se noi siamo capaci di portarci indietro di miliardi e miliardi di anni e ci chiediamo se Dio c’era, la risposta è sempre affermativa e questo vale per l’infinito, senza poter arrivare ad un punto di inizio, né ad una causa anteriore. Ricordo una volta durante una lezione di catechismo un bambino obiettarmi: “ma Dio, chi l’ha fatto? E quando è nato?”. Ottima domanda, che tutti dovremmo porci. Ma la risposta esatta è semplicemente che Dio non l’ha fatto nessuno e c’è sempre stato e sempre sarà. Questo concetto, peraltro, può essere espresso in forma, per così dire dinamica, anche tenendo presente le possibili traduzioni di questa frase. Chi conosce la grammatica ebraica, inoltre, sa che “io sono colui che sono” contiene due verbi all’imperfetto e che l’imperfetto ebraico si può tradurre in italiano con tre tempi: imperfetto, presente e futuro. Dunque quell’espressione potrebbe tradursi (correttamente) in tutti questi modi: “io ero Colui che ero”, “io ero Colui che sono”, “io ero Colui che sarò”; “io sono Colui che ero”, “io sono Colui che sono”, “io sono Colui che sarò”; “io sarò Colui che ero”, “io sarò Colui che sono”, “io sarò Colui che sarò”. La traduzione convenzionale rende tuttavia cristallinamente e staticamente questi aspetti: “io sono” (= la mia essenza) “colui che sono” (= colui che è e vive in un eterno ed immutabile presente). La trascendenza assoluta di Dio su tutto il creato è dunque affermata in modo netto e inequivocabile. Come trattare con un Essere “di questa portata”? Come osare anche solo pronunziare, pur con somma riverenza, il suo nome? Quanto grande sarà la santità di esso?
Il secondo comandamento proibisce di nominare invano il nome del Signore nostro Dio. Come abbiamo già avuto modo di osservare questo precetto (come tutti) contiene e veicola anzitutto un valore importante ed essenziale da riconoscere, perseguire e tutelare: in questo caso la santità del “nome” di Dio e il rispetto e l’adorazione a Lui dovuti come Essere Supremo, Sommo ed Eterno.
Nella Sacra Scrittura il nome designa sempre l’essenza e l’identità profonda della persona. Ciò che vale per i nomi di molti idiomi, vale per tutti i nomi ebraici: sono sempre intrisi di un significato molto profondo che è un po’ come l’identikit di colui che porta quel dato nome. Pensiamo, solo per fare qualche esempio, al significato del nome di Gesù (“Jahvèh salva”), a quello dell’arcangelo Michele (“chi è come Dio”), a quello del profeta Elia (“Dio è Jahvèh”). Il nome individua dunque la persona, la ragione profonda del suo essere ed anche il contenuto della sua missione. Si pone a questo punto perentoria una domanda: Dio ha un nome? E cosa significa il termine “Dio”?
Come afferma san Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae (S. Th., I, q. 13), riferendo il pensiero di san Giovanni Crisostomo, la possibile etimologia del termine “Dio” (in greco “theòs”) è triplice: come derivante dal verbo “theein”, che significa “correre”, ad indicare la rapidità, o meglio l’istantaneità con cui Dio agisce e provvede a tutte le cose (noi sappiamo che per Dio basta un movimento della volontà per creare o modificare qualunque cosa); come derivante dal verbo “aethein” (“ardere”), in riferimento al fatto che Dio è un “fuoco divoratore” (Dt 4,24; Eb ,12,29) come afferma la Scrittura e come ci attesta la prima grande epifania di Dio di cui tra breve parleremo: con ciò si alluderebbe all’incendio eterno di amore che caratterizza la vita intima della divina essenza; infine come derivante dal verbo “theaomai” (“vedere”), che rimanda al fatto che Dio vede chiaramente e simultaneamente tutte le cose. Quest’ultima significazione trova conferma dall’etimo derivante dal sanscrito “thieu”, che significa “luce”. Da questo breve e sintetico excursus emergono già chiaramente alcuni caratteri di questo “essere supremo che tutti chiamano Dio” (volendo chiosare le celebri espressioni adoperate da sant’Anselmo e San Tommaso d’Aquino), quali l’assoluta ed istantanea potenza, l’ineffabile ed eterno amore, il supremo controllo e l’infallibile e simultanea conoscenza di tutto lo scibile, reale o potenziale.
Basterebbe questo per prendere coscienza del timore e tremore con cui tutte le creature dovrebbero accostarsi a questo supremo Ente. Ma Dio, nella sua infinita bontà, ha voluto anche rivelare il suo nome proprio nella celebre teofania del roveto ardente che ebbe come spettatore il suo servo Mosè (cf Es 3,1-15). In questo episodio Dio, dopo essersi mostrato attraverso l’immagine del roveto che ardeva senza consumarsi (chiara allusione alla grande simbologia legata al fuoco); dopo aver esortato Mosè a togliersi i sandali (dettaglio molto importante e dall’alta valenza significativa, dato che scalzi andavano fin da allora gli schiavi, ovvero coloro che erano assolutamente privi di ogni diritto e proprietà); dopo aver ricordato la sua primitiva rivelazione come Dio personale ed in rapporto personale con gli uomini sue creature (“Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”), si rivela finalmente come “io sono Colui che sono”. Purtroppo una simile straordinaria affermazione, magistralmente spiegata da san Tommaso d’Aquino e oltremodo adeguata per farci apprendere una qualche cognizione, certamente misteriosa ma al tempo stesso vera e profonda di chi Dio è, a noi uomini del ventesimo secolo, figli del nichilismo e della postmodernità, potrebbe sembrare banale, o forse priva di senso o addirittura incomprensibile. Invece con questa sublime espressione vengono affermate, in modo assoluto, tre proprietà che appartengono a Dio e a Dio solo: 1) l’identità tra essere ed essenza; 2) l’eternità; 3) l’immutabilità.
Nessuno si spaventi dinanzi all’apparente difficoltà della prima affermazione. Cosa significa che in Dio l’essere si identifica con l’essenza? Una cosa che Gesù, nel Vangelo, spiega in termini per noi certamente più comprensibili, dicendo: “io sono [non “io ho”] la Vita”. Nel senso che mentre per ogni ente creato, la vita non è affatto una realtà necessaria (io posso pensare ad un cane senza che necessariamente questo debba esistere) ed è comunque sempre contingente (ogni creatura ha una data di nascita ed una di morte), in Dio vale il contrario: l’essenza di Dio, ciò che fa di Dio ciò che è, è “l’essere il Vivente”. Dio non solo ha, ma è una Vita che non ha data di nascita né di morte. Badiamo bene a questa affermazione e alla sua portata. Noi esseri creati, infatti, possiamo concepire l’eternità solo in avanti (“qualcosa che non finisce mai”), ma non all’indietro (“qualcosa che non ha inizio”). Se noi siamo capaci di portarci indietro di miliardi e miliardi di anni e ci chiediamo se Dio c’era, la risposta è sempre affermativa e questo vale per l’infinito, senza poter arrivare ad un punto di inizio, né ad una causa anteriore. Ricordo una volta durante una lezione di catechismo un bambino obiettarmi: “ma Dio, chi l’ha fatto? E quando è nato?”. Ottima domanda, che tutti dovremmo porci. Ma la risposta esatta è semplicemente che Dio non l’ha fatto nessuno e c’è sempre stato e sempre sarà. Questo concetto, peraltro, può essere espresso in forma, per così dire dinamica, anche tenendo presente le possibili traduzioni di questa frase. Chi conosce la grammatica ebraica, inoltre, sa che “io sono colui che sono” contiene due verbi all’imperfetto e che l’imperfetto ebraico si può tradurre in italiano con tre tempi: imperfetto, presente e futuro. Dunque quell’espressione potrebbe tradursi (correttamente) in tutti questi modi: “io ero Colui che ero”, “io ero Colui che sono”, “io ero Colui che sarò”; “io sono Colui che ero”, “io sono Colui che sono”, “io sono Colui che sarò”; “io sarò Colui che ero”, “io sarò Colui che sono”, “io sarò Colui che sarò”. La traduzione convenzionale rende tuttavia cristallinamente e staticamente questi aspetti: “io sono” (= la mia essenza) “colui che sono” (= colui che è e vive in un eterno ed immutabile presente). La trascendenza assoluta di Dio su tutto il creato è dunque affermata in modo netto e inequivocabile. Come trattare con un Essere “di questa portata”? Come osare anche solo pronunziare, pur con somma riverenza, il suo nome? Quanto grande sarà la santità di esso?