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Primo comandamento: LA CONFESSIONE SACRILEGA

29/4/2014

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I DIECI COMANDAMENTI - Primo comandamento: la confessione sacrilega

Iniziando l’analisi dei peccati contro il primo comandamento abbiamo visto che l’uso sacrilego dei sacramenti rappresenta, in assoluto, la forma più grave di offesa diretta a Dio e alla sua divina Maestà. Oltre che le comunioni sacrileghe, purtroppo, oggi è quanto mai diffuso un altro gravissimo peccato: quello dell’uso sacrilego del sacramento della confessione. Prima di addentrarci in questa nuova cancrena che affligge dal profondo i figli della Chiesa, è bene osservare che uno dei precetti generali della Chiesa obbliga i fedeli all’uso minimo di questi due importantissimi sacramenti: la confessione almeno una volta l’anno e la comunione almeno a Pasqua. Per la verità il santo Curato d’Ars piangeva quando doveva rammentare ai suoi fedeli questo precetto, parendogli assurdo che la Chiesa dovesse imporre sub gravi una cosa tanto bella come la santa comunione, che dovrebbe essere ricevuta (secondo le intenzioni di Chi l’ha istituita) preferibilmente ogni giorno. Tuttavia il santo Parroco doveva amaramente costatare che è tale e tanta la stoltezza dell’uomo, che la Chiesa, come madre premurosa di un figlio discolo, ha dovuto imporre quel minimo assolutamente indispensabile per evitare di lasciare i suoi figli in stato di dannazione. Conseguentemente non solo chi profana ma anche chi omette almeno questa frequenza minima a questi sacramenti non è scusabile da colpa grave. Ecco perché la prima cosa da dire quando si entra in confessionale è “da quanto tempo non ci si confessa” e, qualora il penitente non lo faccia, il sacerdote è tenuto a interrogarlo in merito. Qualora infatti non ci si confessasse da dieci, quindici, trent’anni il confessore capirebbe subito che sul povero fedele gravano dieci, quindici, trenta peccati mortali.

Ora, la santa Chiesa, nel Concilio tridentino (di cui è eco fedelissimo il grande dottore sant’Alfonso Maria de’ Liguori, patrono dei confessori e dei moralisti, a cui faremo ampio riferimento) ha insegnato che per ottenere il perdono di Dio dei peccati commessi dopo il Battesimo occorrono alcune condizioni, in mancanza delle quali la confessione o è invalida o, peggio, è sacrilega. Anzitutto oggetto obbligatorio della confessione sono tutti e singoli i peccati mortali di cui il penitente abbia coscienza, che siano stati commessi da quando si ha l’uso della ragione al momento in cui ci si sta confessando. Tali peccati vanno confessati per numero, specie e circostanze e si otterrà la misericordia di Dio solo se di essi si è realmente pentitiovvero: 1) si prova dolore per il peccato commesso (perfetto se originato dal fatto di aver offeso Dio o imperfetto se scaturisce dal timore dell’Inferno e dei castighi dovuti per i peccati); 2) lo si detesta con tutto il cuore; 3) si ha il fermo, risoluto e deciso proposito di non commetterlo più. Il confessore, durante l’amministrazione di questo sacramento, svolge, come insegna sant’Alfonso, quattro funzioni; quella di padre, in quanto interprete della bontà e della misericordia di Dio; quella dimaestro, in quanto deve aiutare il penitente nell’esaminare e nel formare la sua coscienza, formulando alcune domande qualora abbia motivo di ritenere che il penitente non sia in grado di discernere le colpe gravi (cosa che oggi accade spessissimo); quella di giudice, in quanto deve verificare se la confessione è sincera e se il penitente sia pentito, cercando, in caso negativo, di stimolarne o provocarne il pentimento durante la confessione. In quanto giudice il sacerdote deve verificarese può o meno assolvere il penitente; ed in caso positivo impartire una soddisfazione sacramentale (o penitenza) che sia proporzionata al numero e alla gravità dei peccati; quella infine di medico, in quanto deve, con le opportune esortazioni, indicare al penitente le vie di futura preservazione dal male. Anche nel decidere il tipo di penitenza da imporre, il confessore deve ricordare che sta agendo come un medico dinanzi ad un malato che ha bisogno di terapie per guarire e per ristabilirsi in perfetta forma fisica.

Dinanzi a tale disciplina, vediamo ora quando la confessione è sacrilega. Anzitutto quando il penitente non è pentito, cioè non prova dolore per quello che ha fatto, ma, soprattutto, non ha intenzione di smettere. È inutile, in questi casi, andarsi a cercare confessori dalla “manica larga” (oggi, purtroppo, molto diffusi), perché se anche il sacerdote osasse assolvere un fedele non pentito, commetterebbe peccato mortale e sarebbe responsabile di tutte le comunioni sacrileghe fatte dal penitente erroneamente illuso di essere stato assolto. Seguono le confessioni incomplete per colpa del penitente, o perché si vergogna o ha paura di rivelare qualche peccato, oppure perché (cosa peggiore) rifiuta di riconoscere qualche peccato come mortale (pochissimi, per esempio, oggi accettano che mancare alla Messa domenicale o commettere atti impuri sia peccato mortale). La confessione viene invalidata in via successiva se il penitente omette di fare la penitenza sacramentale che gli è stata imposta dal confessore, che va adempiuta seriamente e scrupolosamente. Essa, infatti, è requisito essenziale della confessione, tant’è vero che per larga parte del primo millennio l’assoluzione veniva concessa solo dopo aver adempiuto alla penitenza imposta.

L’esperienza pastorale insegna che quei (pochi) fedeli che si confessano spesso lo fanno assai male e che purtroppo non pochi ministri, atteggiandosi a fare i buoni, causano una vera e propria rovina di innumerevoli anime. A conclusione di questo spinoso tema mi permetto di dare alcuni consigli per evitare di incorrere in spiacevoli e gravi inconvenienti: 1) Pregare Dio che ci faccia trovare un buon confessore ed avere, di norma, un confessore fisso, di sana dottrina, di vita tendenzialmente santae animato da santo zelo. I modelli di confessori sono tre: san Pio da Pietrelcina, il santo Curato d’Ars e sant’Alfonso M. de’ Liguori, tutti pieni di misericordia ma anche di severità, di dolcezza ma anche di fermezza; 2) Far bene l’esame di coscienza e chiedere di persona al confessore di essere interrogati, qualora si pensi di non essere in grado di discernere le colpe gravi; 3) Essere sommamente sinceri e curare di confessare bene i peccati per specie (non basta dire “ho commesso atti impuri”: un conto è l’adulterio, un conto l’omosessualità, un conto la pornografia, etc.), per numero (non basta dire “ho mancato alla Messa”, ma bisogna specificare il numero e, qualora non lo si ricordi, dare un ordine di grandezza) e per circostanze (se un padre bestemmia davanti a un figlio deve specificarlo); 4) Preparare la confessione ricorrendo all’ausilio della Beata Vergine Immacolata e pregare per il confessore, perché abbia da Dio la luce e la grazia per aiutarci a troncare con il peccato, giacché, come diceva il santo Curato d’Ars, “se non c’è in noi un completo cambiamento, non abbiamo meritato l’assoluzione: e c’è da temere che il nostro sia solo un sacrilegio. Ah, se almeno ogni trenta assoluzioni ve ne fosse una valida, come si convertirebbe presto il mondo!”.
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Primo comandamento: le comunioni sacrileghe

27/4/2014

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I DIECI COMANDAMENTI - Primo comandamento: le comunioni sacrileghe
Il gravissimo peccato della comunione sacrilega

Il senso del primo comandamento è l’affermazione chiara, netta e decisa dell’esistenza e dell’assoluta sovranità di Dio, che vuole e deve essere riconosciuto come unico e vero Dio, essere adorato come a Lui conviene, ricevere il culto ed i sacrifici che gli sono dovuti. L’esame sul primo comandamento dovrebbe essere condotto in materia molto seria e coscienziosa, perché i peccati contro di esso sono commessi da molti ma confessati da molto pochi. I principali peccati gravi contro il primo comandamento sono: uso sacrilego dei sacramenti (eucaristia e confessione); rifiuto di rendere a Dio l’adorazione, anche esterna, che gli è dovuta; rifiuto di rendere a Dio il doveroso ossequio della preghiera; ateismo; agnosticismo; incredulità e contestazione delle verità di fede, disperazione, odio di Dio, idolatria, pratiche occulte e superstizione. Analizzeremo ora nel dettaglio ciascuna di queste singole condotte gravemente peccaminose.

L’uso sacrilego dei sacramenti della penitenza e dell’eucaristia è purtroppo un fenomeno oggi diffusissimo. Volendo mutuare un’espressione del beato Antonio Rosmini, si tratta di una vera e propria piaga della Chiesa, che indebolisce enormemente il vigore dei suoi figli e, per contro, accresce il potere del Nemico dell’umana salvezza. Oggi, nelle nostre chiese, assistiamo a vere e proprie interminabili processioni di gente che si accosta alla santa comunione, in un clima che spesso indulge a un malinteso senso di gioia e di festa, nella più piena inconsapevolezza di ciò che si va a ricevere e, talora, con una leggerezza che lascia a dir poco sconcertati. Le nostre nonne ci raccontavano che, quando erano giovani, ben pochi osavano accostarsi alla santa comunione, pur essendo vastissima la percentuale di cattolici che regolarmente frequentavano la santa Messa domenicale (oltre l’80%). Questo non perché, come qualcuno tuttora insinua, si aveva un’idea di Dio terribile e inadeguata, ma perché era chiaro quanto veniva insegnato, in modo semplice e chiaro, dall’immortale catechismo di san Pio X, secondo cui per accostarsi alla santa comunione, oltre che aver osservato il digiuno eucaristico, occorre essere in grazia di Dio e pensare e considerare Chi è Colui che si va a ricevere. Oggi, purtroppo, abbiamo una frequenza regolare alla santa Messa domenicale che in Italia oscilla tra l’8 e il 15 (massimo 20%), una scarsissima frequentazione del sacramento della confessione e un vero e proprio “arrembaggio” all’altare quando si tratta di ricevere la comunione. Molte persone si accostano alla comunione ridendo e scherzando, qualcuno “porta a spasso” la sacra particola, che viene masticata e deglutita quasi come fosse una caramella e terminata la santa Messa si affretta a scappare fuori immediatamente, anche perché, purtroppo, qualora si volesse soffermare (come doveroso) nel ringraziamento a Gesù eucaristico, si imbatterebbe nella triste realtà di Chiese trasformate in una specie di foro, dove si chiacchiera, si ride e si scherza senza alcuna considerazione della sacralità del luogo, della presenza di Colui che abita nel Tabernacolo e della giusta esigenza di coloro che desiderano, nel silenzio e nel raccoglimento, ringraziarlo, adorarlo, lodarlo, benedirlo e supplicarlo. Sono parole crude e tristi, ma amaramente costatabili da chiunque si limiti semplicemente ad osservare. Ed è ancora più triste considerare che quasi nessuno si renda conto dell’enormità e della gravità di tali peccati.

Si pensi ancora al tristissimo e quanto mai diffuso fenomeno di fedeli che, in occasione di funerali di qualche persona cara, osano accostarsi alla santa comunione, pensando di fare cosa buona o addirittura doverosa per il defunto, quando magari si tratta di persone che non mettono piede in Chiesa da anni e sono lontane dal confessionale da più anni ancora. Non è senz’altro un caso che nel lontano 1916, in previsione dell’attuale stato di grave e continua profanazione del più grande e del più santo dei sacramenti, l’Angelo del Portogallo, apparendo in visione ai tre pastorelli di Fatima, li invitò a guardare un’Ostia consacrata di nostro Signore “orribilmente oltraggiato” nel santissimo sacramento ed a prostrarsi in atto di riparazione verso così grave crimine, che a detta di una schiera innumerevole di santi, è in assoluto il più grave dei peccati che si possa commettere, il meno perdonabile e quello che produce le peggiori conseguenze sia nella singola persona che nella Chiesa intera, dando un potere enorme al Nemico dell’umana salvezza, che riesce in questo modo a trasformare il sacramento che è “farmaco di immortalità” (per chi vi si accosta degnamente) in veleno mortale, come ci avverte con monito severo l’Apostolo delle genti, secondo cui chi si accosta indegnamente alla mensa del Signore mangia e beve la sua condanna (cf 1Cor 11,27-29).

Non minore è la trascuratezza dell’altra condizione per una comunione degna e fruttuosa, ovvero pensare e considerare Chi è Colui che si va a ricevere. Il raccoglimento orante, la rinnovazione del proprio pentimento con un atto di dolore, la cura di infervorare e accendere i desideri del cuore con qualche breve e fervente giaculatoria e comunione spirituale, unitamente ad una grande compostezza e dignità del portamento e dei gesti soprattutto nell’atto di ricevere nostro Signore, dovrebbero essere la norma in tutti i fedeli. Quello che invece ordinariamente accade nelle “processioni” per la comunione e nel modo di ricevere le Sacre Specie è sotto gli occhi di tutti. Ringraziamo il Pontefice emerito Benedetto XVI, per aver avuto il coraggio di rompere un muro di silenzio dinanzi ad “abusi al limite del sopportabile” e di aver inaugurato, con l’esempio e con la parola, un modo di accostarsi a nostro Signore che esprima l’adorazione che gli è dovuta e che ricordi a tutti che altro è ricevere un pezzo di pane, altro è ricevere Gesù Cristo nostro Dio vivo e vero, in Corpo, Sangue, Anima e Divinità. Esempio che appare condiviso e seguito dal suo successore e che si spera faccia sempre più breccia nel cuore di tutti i pastori.
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I DIECI COMANDAMENTI - Introduzione

25/4/2014

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I DIECI COMANDAMENTI 
Introduzione


Parlare di “Legge di Dio” o di “dieci comandamenti”, nel nostro attuale contesto storico culturale desacralizzato e scristianizzato, potrebbe sembrare a più di qualcuno un’inquietante rievocazione di spettri di un tipo di vita arcaico e obsoleto, chiuso sotto la cappa oppressiva di un Dio che sembra quasi divertirsi nell’imporre gravosi gioghi agli uomini, pesi insopportabili, oppressioni e limitazioni per la sua libertà, che si vedrebbe mortificata e ristretta entro gli angusti limiti di precetti, prescrizioni, obblighi, proibizioni e divieti. Dopo la rivoluzione sessantottina, compiuta sotto l’egida del “vietato vietare”, l’uomo e la donna, finalmente emancipati (ma già due secoli prima pensavano di esserlo i fautori della rivoluzione francese…), si sarebbero finalmente gettati definitivamente alle spalle precetti e tabù, sciocche credenze e pratiche religiose, ritualità e religiosità proprie di una società ancora bambina e di uomini e di donne incapaci di affrontare come protagonisti la sfida della vita e di compiere, in piena autonomia e indipendenza, le scelte che ritengono giuste.

Per la verità questa prometeica pretesa ha origini ancora più antiche del delirio rivoluzionario e giacobino, figlio dell’illuminismo, di due secoli orsono. In tempi assai più lontani, un oscuro sibilo era stato sussurrato nell’orecchio del primo uomo e della prima donna, sollecitandoli ad emanciparsi dal giogo dell’Altissimo, con la pretesa (ridicola) di conoscere da se stessi (e quindi autonomamente scegliere) il bene e il male.
Se tutto questo fosse vero, dovremmo, oggi più che mai, vedere persone felici, sorridenti, serene, contente di vivere, realizzate, solari, pacifiche. Lo spettacolo che, tuttavia, sembra sovente presentarsi dinanzi ai nostri occhi è di ben altro tenore: persone tristi e depresse (le statistiche italiane sulla depressione riportano percentuali da capogiro), arrabbiate, sempre scontente, sempre inquiete, affette dalle terribili malattie della “lamentosi” e della “criticosi” (morbi pestiferi, cronici e molto contagiosi), insoddisfatte, sempre in cerca di una realizzazione tanto perseguita quanto mai raggiunta.

Il parere di chi scrive è che, agli uomini del nostro tempo, qualcuno (forse lo stesso che sibilò le primitive menzogne ai nostri Progenitori, chissà…) abbia fatto un colossale lavaggio di cervello, i cui effetti sono stati una sorta di inebetimento collettivo e di cumulo di idee assurde e strampalate che rendono l’uomo contemporaneo - per certi aspetti pur tanto evoluto, intelligente e progredito – stolto, cieco ed incapace, come si legge nel libro del profeta Giona (4,11), perfino di “distinguere la destra dalla sinistra” (salvo che nel campo politico, almeno fino a qualche tempo fa…).

Quando ci si pone dinanzi al tema della Legge di Dio, infatti, bisogna porsi alcune semplici domande previe: 1) Se Dio esiste o non esiste, dato che si parla di una legge attribuita a Lui; 2) Ammesso che Dio esiste (ma in Italia oltre il 90% dichiara ancora di credere in Dio…), se questo Dio è buono o cattivo; 3) Ammesso che Dio sia buono (di un dio cattivo nessuno saprebbe cosa farsene), quale “interesse” ne verrebbe a Lui personalmente dal fatto che la sua Legge sia osservata o no. In altre parole: cosa può cambiare nella vita di Dio se tu, caro lettore, osservi o non osservi la sua legge? Pensi forse che la grandezza, l’eterna felicità e la potenza infinita di Dio possano essere toccate, alterate, inficiate dal gesto di una povera creatura mortale e limitata? 4) Ammesso che l’inosservanza della Legge di Dio non cambi nulla a Lui e alla sua vita, bisogna chiedersi se forse fa cambiare qualcosa alla nostra vita. 5) Ammesso quest’ultimo punto, bisogna concludere che Dio ha dato una Legge buona per farci buoni e che in questa bontà consiste il segreto della nostra felicità. Allontanarsi dalla legge di Dio non è recare del male a lui, ma farlo a noi e intorno a noi.
La Sacra Scrittura è piena di riferimenti in questo senso. Si meditino, a titolo esemplificativo, anzitutto queste parole del libro del Deuteronomio (30,15ss): “ Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva e ti moltiplichi e il Signore tuo Dio ti benedica nel paese che tu stai per entrare a prendere in possesso. Prendo oggi a testimoni contro di voi il cielo e la terra: io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui, poiché è lui la tua vita e la tua longevità”.

Si pensi alla seconda parte dello splendido Salmo 18: “La legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima…Gli ordini del Signore sono giusti, fanno gioire il cuore…Per chi li osserva è grande il profitto”. Si pensi infine alle parole che Gesù in persona rivolge al giovane ricco, rispondendo alla sua “domanda delle domande” circa cosa avrebbe dovuto fare per avere la vita eterna (ovvero quale è il segreto, la via per ottenere la felicità): “Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti” (Mt 19,17).

In realtà, dunque, la legge del Signore, lungi dall’essere una mortificazione o un’oppressione per l’uomo e la sua libertà, lungi dall’essere un impedimento alla sua realizzazione o alla sua felicità, è in realtà il cammino obbligato per trovarla. Dio, nella sua Legge, ha dunque rivelato all’uomo il segreto della felicità; è un segreto “ri-velato”, nel senso che viene svelato e poi di nuovo coperto, onde non è evidente che essa sia un cammino di vita; è una sorta di tesoro nascosto, perché, apparentemente, molti dei precetti di Dio sembrerebbero gravosi e onerosi, ma appena li si cominciano a gustare e praticare, dai frutti di gioia, pace e serenità che producono, si capisce ben presto che costituiscono l’unico sentiero da percorrere per trovare ciò che ogni uomo (insegnava già il buon Aristotele) cerca (la felicità) ma ben pochi trovano.

Cominciamo dunque il nostro itinerario alla riscoperta della Legge di Dio sotto la bandiera e l’accompagnamento delle parole di un altro meraviglioso salmo, che, rivolgendosi a Dio, recita come auspicio fiducioso e sicuro: “mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra” (Sal 18,5). Colei che è stata la Perfetta Obbediente e che, Sola, ha compiuto perfettamente tutti i voleri dell’Altissimo (e per questo poteva giubilare nel Magnificat cantando: “il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore e tutte le generazioni mi chiameranno beata”), ci prenda per mano e, superate le nostre titubanze e cecità, figlie di questo brutto e stolto mondo contemporaneo, ci renda persuasi che solo nella conoscenza ed osservanza dei voleri dell’Altissimo è depositato il segreto della nostra felicità non solo eterna (“Dio poi ci ricompenserà”…) ma anche terrena, grazie alla gioia e nella pace che tutti i figli fedeli dell’Altissimo già fin d’ora pregustano.
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i 10 comandamenti : il decalogo

25/4/2014

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