I DIECI COMANDAMENTI - Il secondo comandamento: la bestemmia contro lo Spirito Santo
Tra le svariate forme di bestemmia, una merita particolare studio e attenzione, per l’estrema gravità delle sue conseguenze: la bestemmia contro lo Spirito Santo. A tal riguardo, Gesù ebbe a minacciare che questa peculiare tipologia di bestemmia non avrebbe trovato perdono presso il tribunale dell’Altissimo, come testualmente leggiamo nei Vangelo: “In verità vi dico: tutti i peccati saranno perdonati ai figli degli uomini e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo, non avrà perdono in eterno: sarà reo di colpa eterna – poiché dicevano: è posseduto da uno spirito immondo” (Mc 3,27-30). Il testo parallelo di san Matteo, in cui Gesù si difende dall’accusa di scacciare i demoni per opera del principe dei demoni, aggiunge qualche ulteriore piccolo particolare: “Perciò io vi dico: qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata. A chiunque parlerà male del figlio dell’uomo sarà perdonato; ma la bestemmia contro lo Spirito non gli sarà perdonata, né in questo secolo né in quello futuro” (Mt 12,31-32). Come spiegare queste parole? Forse c’è un limite alla misericordia di Dio? Non sappiamo forse dalla fede che essa è infinita? E allora perché questo peccato non troverebbe mai perdono?
Prima di rispondere a queste domande, cerchiamo di focalizzare la fattispecie. I due episodi evangelici che abbiamo citato individuano un peccato ben preciso: dare a Gesù dell’indemoniato e attribuire la sua azione esorcistica all’aiuto del demonio. Cosa significa assumere questo atteggiamento? Significa di fatto chiudersi ad ogni possibilità di salvezza, travisando e stravolgendo perfino l’evidenza dei fatti. Tutti infatti sanno che l’autorità sui demoni è segno certo di santità e di assistenza divina; attribuirla all’aiuto di altri demoni (cosa assurda e impensabile) è mostrare un cuore così chiuso e ostinato da divenire praticamente tetragono all’azione della grazia. Dunque si tratta di colpa imperdonabile non per difetto nella misericordia di Dio, ma per difetto nelle disposizioni dell’uomo: Dio perdona chiunque si pente delle proprie colpe e accoglie la salvezza da Lui offerta in Gesù Cristo nostro Signore.
A partire da questo episodio, la Chiesa (sulla scia del sempre immortale e magistrale insegnamento del Dottore Angelico san Tommaso d’Aquino) ha delineato e identificato sei tipologie di bestemmia contro lo Spirito Santo, che potremmo anche chiamare di “chiusura radicale e definitiva all’azione della grazia”: la disperazione della salvezza, la presunzione di salvarsi senza meriti, l’impugnazione della verità conosciuta, l’invidia della grazia altrui, l’ostinazione nel peccato e l’impenitenza finale. Prima di esaminarle nel dettaglio occorre fare un’ulteriore breve premessa, per ricordare la visione cattolica (oggi non sempre chiara!!) del processo della giustificazione del peccatore, ovvero, in parole più semplici, di come “funziona” il meccanismo con cui Dio salva una creatura. Premesso che l’uomo decaduto è radicalmente incapace di compiere alcuna azione utile alla salvezza e di “meritare” in senso stretto la grazia di Dio (non può né salvarsi, né convertirsi), lo Spirito Santo svolge una triplice azione: prende l’iniziativa “toccando” l’anima del peccatore e muovendo la sua volontà verso il bene; aiuta la volontà del peccatore nello sforzo di decidersi a lasciare il male per abbracciare il bene; in caso positivo (conversione), lo Spirito Santo prenderà stabile dimora nell’anima (“grazia santificante”) per aiutarla a compiere le opere sante e giuste necessarie per meritare la salvezza e per dare ad esse, tramite la carità infusa, causa di merito in senso stretto sia del premio della vita eterna che di grazie sempre più grandi per santificarsi in misura sempre maggiore. Dinanzi a tale azione, tuttavia, l’uomo non si trova come destinatario totalmente passivo, ma deve cooperare a tutti i livelli. Anzitutto prima della conversione, compiendo quel poco di bene naturale e umano che sa e può, usando bene la facoltà dell’intelligenza, seguendo i richiami gravi della propria coscienza. In questo modo non “merita” la grazia della conversione, ma si dispone ad ottenerla grazie ai meriti di Gesù Cristo e alle preghiere e penitenze dei giusti offerte a Dio per la conversione dei peccatori. Durante il processo di conversione, perché dinanzi al richiamo dello Spirito Santo, la volontà resta radicalmente libera: può accogliere la grazia o rifiutarla. Dopo la conversione: ogni giorno l’anima dovrà sforzarsi di cooperare con la grazia per compiere il bene e le opere sante necessarie per meritare la vita eterna. Da queste brevi note, ben si comprende perché la Chiesa, nel presentare la retta dottrina sulla giustificazione ha sempre parlato di “sinergia” (letteralmente: “lavoro insieme”) tra la Grazia e la libertà dell’uomo. Quali saranno dunque i peccati e le bestemmie contro lo Spirito Santo? Nient’altro che i difetti radicali e ostinati dalla parte della libertà dell’uomo, che rendono vana l’azione della Grazia.
Partendo dunque dai casi evangelici, ben si capisce come rifiutare di riconoscere in Gesù il Salvatore, nonostante l’evidenza dei miracoli e degli esorcismi, determina l’impossibilità radicale della prima conversione. Per questo Gesù insegna che “chi crede in Lui ed è battezzato sarà salvo, mentre chi non crede sarà condannato” (Mc 16,16). La Chiesa fa eco a questo insegnamento attraverso l’antico adagio “extra Ecclesiam nulla salus” (“fuori della Chiesa nessuna salvezza”). Espressione da intendere non come condanna assoluta e automatica di tutti coloro che sono fuori della Chiesa, ma come affermazione che chi, conoscendo Gesù Cristo, il Vangelo e la necessità di appartenere alla Chiesa per ottenere la salvezza, si chiude inesorabilmente ad essi (rifiutando in modo consapevole la grazia della conversione), si condanna senza appello all’eterna dannazione, avendo chiuso il cuore alla mano tesa da parte della misericordia di Dio. Vedremo come tutte le tipologie di bestemmia contro lo Spirito, si spiegano con questa assurda e colpevole forma di radicale chiusura del cuore umano agli aiuti offerti dalla grazia.
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Il più grave peccato contro lo Spirito Santo è senza dubbio la disperazione della salvezza, che ha annoverato, tra i suoi autori, due celebri personaggi biblici: Caino e Giuda Iscariota. Il primo, macchiatosi di omicidio volontario contro il giusto fratello Abele, mosso dalla passione dell’invidia, elevò il primo grande grido blasfemo: “troppo grande è il mio peccato per ottenere il perdono” (Gen 4,13). Ancora più grave fu la disperazione del più grande peccatore della storia dell’umanità (oggi, peraltro, tanto frettolosamente quanto oltraggiosamente giustificato o addirittura osannato da parte di qualcuno…), Giuda Iscariota. Egli, dopo aver osato ricevere la prima comunione durante l’ultima Cena (ed essere stato, in quella sede, ordinato sacerdote ed aver avuto Gesù ai suoi piedi nel gesto di ineffabile carità del lavarglieli), non ebbe remore di andare a vendere il figlio di Dio per trenta denari. I vangeli ci raccontano che a un certo punto egli si pentì della sua colpa, ma non del pentimento santo che muove a contrizione e spinge ad invocare la misericordia, bensì del superbo rimorso di chi sa di aver commesso un peccato gravissimo, ma non si perdona e non chiede perdono. I vangeli ci dicono che Giuda morì suicida e che Gesù pronunziò a suo riguardo le tremende parole: “sarebbe meglio per quell’uomo che non fosse mai nato” (Mc 14,21). Sia detto a questo punto tra parentesi che, rebus sic stantibus, risulta quanto meno difficile comprendere come sia possibile, dinanzi a tali parole di nostro Signore, limitarsi anche soltanto a ipotizzare una possibile non dannazione dell’apostolo fedifrago, traditore e suicida. In ogni caso questo peccato è gravissimo perché offende la misericordia di Dio che è realmente infinita, più grande di qualunque colpa dell’uomo e sempre pronta a riversarsi su di lui alle uniche condizioni che il peccatore, riconosciuta la colpa, la confessi con sincero pentimento, chiedendone perdono ed offrendosi, liberamente e volontariamente, alla dovuta espiazione e purificazione ad essa conseguente.
Specularmente opposta a questa, ma non meno grave, è la seconda fattispecie di bestemmia contro lo Spirito Santo, ovvero la presunzione di salvarsi senza meriti. Sbandierata orgogliosamente dagli eretici di ieri (gnostici, protestanti e quietisti in primis) e di oggi (buonisti e modernisti), si tratta di una vera e propria eresia oggi diffusissima, che serve a popolare l’Inferno di ignari buontemponi, pressapochisti e illusi. Questo peccato, infatti, presume disordinatamente della misericordia di Dio e presentandone una visione unilaterale e parziale giunge a dire che siccome Dio è buono qualunque cosa l’uomo faccia non andrà dannato e che sarebbe assurdo pensare che Dio, che è l’origine della Grazia (senza la quale l’uomo non può fare nulla di buono) premi per qualche opera che solo grazie a Lui sarebbe resa possibile. È inutile commentare amaramente come molti pulpiti di non poche Chiese pullulino di queste sciocchezze, sotto lo sguardo compiaciuto di sciagurati auditori. Certamente è vero che senza la grazia preveniente e coadiuvante l’uomo non può fare nulla di buono, ma è altrettanto vero che Dio ha voluto che il Paradiso fosse conseguito a prezzo di lacrime, sudore, sforzi e sangue, come Gesù non cessò di raccomandare nei Vangeli e che, proprio in virtù di questo, Egli concede un grado di gloria perfettamente e rigorosamente proporzionale ai meriti di ciascuno (come appare chiaramente, per esempio, dalle parabole dei talenti e delle mine). La giustizia di Dio, dunque, va considerata sempre come inscindibilmente connessa con la sua misericordia: per cui Egli usa una misericordia giusta (perdona sì, ma solo a chi è pentito e disposto all’espiazione) ed una giustizia misericordiosa (che retribuisce rigorosamente il bene fatto, fosse anche solo un bicchiere d’acqua dato per carità, mentre è clemente nel castigare e nel punire, esercitando un rigore sempre inferiore a quanto il peccato dell’uomo meriterebbe).
Altro gravissimo e brutto peccato contro lo Spirito è l’invidia della grazia altrui. A proposito dell’invidia un noto politico ebbe a dire che essa è un peccato che molti cristiani commettono, ma che ben pochi confessano, cosa che è pienamente confermata dall’esperienza di non pochi confessori. Questa fattispecie ha tuttavia, rispetto al generico vizio dell’invidia – consistente nel rallegrarsi del male e rattristarsi del bene altrui – la peculiarità di essere causata dalla santità del prossimo, percepita come un’accusa indiretta dei propri peccati personali e quindi scatenante la reazione dell’odio verso il giusto. Magistralmente descritta nel secondo capitolo del libro della Sapienza, essa ha avuto come protagonisti biblici, oltre al già menzionato Caino, l’empio re Saul (invidioso della grandezza e del valore di Davide) nonché i sacerdoti, scribi e farisei che vollero uccidere Gesù, mossi, a detta dei Vangeli, da questa orrida passione, come anche Pilato aveva compreso (cf Mt 27,18). La gravità di questo peccato è evidente: se Dio suscita un santo, lo fa anche (se non soprattutto) per mostrare col buon esempio delle sue virtù, la necessità della conversione e delle buone opere per essere accetti a Dio. Vedendo un santo lo si può (e, forse, lo si deve) “invidiare santamente”, nel senso che è possibile desiderare di essere come lui imitando le sue virtù (è proprio per questo, infatti, che Dio lo invia agli uomini); al contrario sdegnarsi contro di lui, colpevole solo di mettere in luce la verità e di denunciare le opere delle tenebre, significa chiudersi e rifiutare radicalmente una grande offerta di grazia elargita da Dio Padre, esponendosi così ad una serie di brutti peccati contro la carità del prossimo che vanno dal risolino ironico di compatimento al vero e proprio motteggio, dalle offese verbali all’accusa di follia, dalla persecuzione violenta al vero e proprio assassinio. Per quale colpa? L’unica che gli uomini empi non perdonano: quella di dire e “fare” la verità.
La quarta tipologia è l’impugnazione della verità conosciuta. Peccato, questo, gravissimo, perché toglie al peccatore una delle circostanze soggettive che sempre attenuano le colpe dei comuni mortali, ovvero l’ignoranza. Il grande dottore san Tommaso d’Aquino, al riguardo, afferma che, generalmente parlando, in ogni peccato c’è una certa ignoranza, perché quando l’uomo pecca non lo fa con l’intenzione espressa ed esplicita di fare del male o di farsi del male, ma sempre avendo di vista un bene particolare che vuole conseguire (anche se fuori dell’ordine voluto da Dio). Anche i peccati più orrendi, come per esempio l’omicidio, sottostanno a questa regola: si pensi a chi uccide per gelosia (mosso dall’amore per la sposa e dal desiderio di rimuovere il “male del suo rivale”), o si pensi anche all’orribile delitto dell’aborto (mosso dall’interesse egoistico di non affrontare i sacrifici e i travagli di una gravidanza e di una vita da far crescere). Si badi a comprendere bene quanto appena detto: le motivazioni che muovono al peccato sono semprefutili e basse e non tolgono né il gravissimo disordine degli atti né la tremenda responsabilità del peccatore davanti alla giustizia di Dio e, in alcuni casi, anche a quella degli uomini. Si vuole dire che, a differenza dei demoni, l’uomo non compie, ordinariamente, il male per il male, per il gusto di farlo, altrimenti diventerebbe realmente una sorta di demone incarnato (a dire il vero, peraltro, la storia non ci ha risparmiato qualche esempio di tale abbrutimento dell’uomo, che volendo fare il super-uomo ha incarnato il super-demone…). In più, alcune volte, a questa “ignoranza strutturale”, che meglio sarebbe chiamare “accecamento”, si può aggiungere l’ignoranza soggettiva della peccaminosità dei singoli atti. I confessori sanno benissimo che molte anime hanno commesso peccati anche gravissimi, senza rendersene minimamente conto. Tutte queste circostanze sono, paradossalmente, la causa anzi la condizione di possibilità della salvezza e della conversione dell’uomo, perché rendono il male che ha compiuto non così grave come quello dei demoni. È proprio la loro assenza, insegna l’Aquinate, infatti, a rendere i demoni inconvertibili: proprio perché, a differenza dell’uomo, un angelo, prima di peccare, sa e vede chiaramente l’intrinseca cattiveria dell’atto e tutte le sue nefaste conseguenze; per cui se, nonostante questa assoluta chiarezza mentale, pecca, la sua volontà si “attacca” in maniera così forte e radicale al male compiuto da divenirne inseparabile. Detto questo, la fattispecie che stiamo esaminando consiste nel peccato che un uomo commettesenza avere come scusanti l’ignoranza soggettiva della sua peccaminosità oppure l’ignoranza generica della sua malizia. Il caso classico è quello di un peccatore che si converte e riceve il perdono e torna a compiere, spudoratamente e infischiandosene della verità conosciuta, il male da cui per misericordia Dio lo aveva salvato. Al riguardo, suonano davvero tremende le parole che ebbe a pronunciare san Pietro in una delle sue lettere: “Se infatti, dopo aver fuggito le corruzioni del mondo per mezzo della conoscenza del Signore e salvatore Gesù Cristo, ne rimangono di nuovo invischiati e vinti, la loro ultima condizione è divenuta peggiore della prima. Meglio sarebbe stato per loro non aver conosciuto la via della giustizia, piuttosto che, dopo averla conosciuta, voltar le spalle al santo precetto che era stato loro dato. Si è verificato per essi il proverbio: Il cane è tornato al suo vomito e la scrofa lavata è tornata ad avvoltolarsi nel brago” (2Pt 2,20-22). In tale fattispecie, infatti, si calpesta non solo la Grazia, ma anche la verità ed il peccato commesso diventa simile a quello dei demoni. In questi casi, dopo una tale chiusura colpevole, un’ulteriore grazia da parte dell’Altissimo è davvero una rarità e per ottenerla occorrono innumerevoli preghiere, sforzi e sacrifici.
Veniamo ora a considerare l’ostinazione nel peccato, altro grave problema di non poche anime. Essa si verifica quando un peccatore abusa della misericordia di Dio scambiandola con debolezza e prendendola come scusa per continuare a peccare senza troppe preoccupazioni. È il classico caso di chi pensa che basta confessarsi e tutto finisce, Dio perdona sempre, tutto e senza condizioni. Ora, la misericordia di Dio è infinita, ma come sappiamo essa si riversa solo su chi è sinceramente pentito. Non deve mai diventare una sorta di acquiescenza o autorizzazione a peccare. Ciò è tanto vero che i dottori e i confessori illuminati, tra cui Sant’Alfonso Maria de’ Liguori e san Pio da Pietrelcina, erano molto severi con i peccatori recidivi: una assoluzione, due assoluzioni, ma già alla terza ricaduta, senza alcun miglioramento, l’assoluzione almeno la differivano, ammonendo i confessori che chi avesse assolto un tale penitente ostinato non sarebbe andato, a sua volta, esente da peccato mortale (stiano dunque molto attenti i confessori dalla manica troppo larga…). Dio ci perdona affinché ci convertiamo; la sua misericordia è l’ultima ancora di salvezza, non un segno di debolezza. Dio è senza dubbio un Padre misericordioso, ma occorre ricordare che è anche un giudice severo, come Gesù insegna nel Vangelo (per esempio nella parabola dei talenti). Per cui è bene non sfidarlo.
Infine, l’ultima fattispecie di questa brutta categoria di peccati: l’impenitenza finale. È dottrina comunemente insegnata dagli scrittori ecclesiastici (e confermata da numerosi santi e mistici) che la misericordia di Dio è talmente grande da “rincorrere” il peccatore fino all’ultimo istante, in cui il Signore, proprio in punto di morte, fa l’ultimo invito all’anima di pentirsi e accogliere la sua misericordia. Chiusa la porta a quest’ultimo richiamo, non resta che la dannazione. Si capisce con ciò, facilmente, come anche quest’ultimo caso rappresenti l’ennesima, definitiva autoesclusione dell’uomo dalla misericordia di Dio. Tuttavia si badi a non cadere in un nuovo abuso di questi gesti estremi di misericordia del Padre, sragionando con considerazioni di questo tipo: “Siccome Dio fa l’ultimo richiamo al peccatore in punto di morte, a che serve convertirsi e privarsi dei piaceri del peccato? Mi godrò la vita e poi mi pentirò in punto di morte!”. Anche questo ragionamento sarebbe un ulteriore gravissimo oltraggio alla misericordia di Dio, trasformando un suo gesto estremo di amore e clemenza in una sorta di permesso di peccare senza limiti per tutta la vita. Dimenticando che, come recita un noto adagio, “si muore come si è vissuti” e molto difficilmente un peccatore, colpevolmente incallito e impenitente, accoglierà l’ultimo appello della divina misericordia. Meglio “cercare il Signore mentre si fa trovare” (Is 55,6) e affrettarsi a spezzare i vincoli del male, ricordando che peccare non significa godere, ma cadere nella più atroce delle schiavitù, autocondannarsi alla tristezza, alla noia e alla depressione, rischiare di cadere nella più nera disperazione, temporale ed eterna.
Tra le svariate forme di bestemmia, una merita particolare studio e attenzione, per l’estrema gravità delle sue conseguenze: la bestemmia contro lo Spirito Santo. A tal riguardo, Gesù ebbe a minacciare che questa peculiare tipologia di bestemmia non avrebbe trovato perdono presso il tribunale dell’Altissimo, come testualmente leggiamo nei Vangelo: “In verità vi dico: tutti i peccati saranno perdonati ai figli degli uomini e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo, non avrà perdono in eterno: sarà reo di colpa eterna – poiché dicevano: è posseduto da uno spirito immondo” (Mc 3,27-30). Il testo parallelo di san Matteo, in cui Gesù si difende dall’accusa di scacciare i demoni per opera del principe dei demoni, aggiunge qualche ulteriore piccolo particolare: “Perciò io vi dico: qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata. A chiunque parlerà male del figlio dell’uomo sarà perdonato; ma la bestemmia contro lo Spirito non gli sarà perdonata, né in questo secolo né in quello futuro” (Mt 12,31-32). Come spiegare queste parole? Forse c’è un limite alla misericordia di Dio? Non sappiamo forse dalla fede che essa è infinita? E allora perché questo peccato non troverebbe mai perdono?
Prima di rispondere a queste domande, cerchiamo di focalizzare la fattispecie. I due episodi evangelici che abbiamo citato individuano un peccato ben preciso: dare a Gesù dell’indemoniato e attribuire la sua azione esorcistica all’aiuto del demonio. Cosa significa assumere questo atteggiamento? Significa di fatto chiudersi ad ogni possibilità di salvezza, travisando e stravolgendo perfino l’evidenza dei fatti. Tutti infatti sanno che l’autorità sui demoni è segno certo di santità e di assistenza divina; attribuirla all’aiuto di altri demoni (cosa assurda e impensabile) è mostrare un cuore così chiuso e ostinato da divenire praticamente tetragono all’azione della grazia. Dunque si tratta di colpa imperdonabile non per difetto nella misericordia di Dio, ma per difetto nelle disposizioni dell’uomo: Dio perdona chiunque si pente delle proprie colpe e accoglie la salvezza da Lui offerta in Gesù Cristo nostro Signore.
A partire da questo episodio, la Chiesa (sulla scia del sempre immortale e magistrale insegnamento del Dottore Angelico san Tommaso d’Aquino) ha delineato e identificato sei tipologie di bestemmia contro lo Spirito Santo, che potremmo anche chiamare di “chiusura radicale e definitiva all’azione della grazia”: la disperazione della salvezza, la presunzione di salvarsi senza meriti, l’impugnazione della verità conosciuta, l’invidia della grazia altrui, l’ostinazione nel peccato e l’impenitenza finale. Prima di esaminarle nel dettaglio occorre fare un’ulteriore breve premessa, per ricordare la visione cattolica (oggi non sempre chiara!!) del processo della giustificazione del peccatore, ovvero, in parole più semplici, di come “funziona” il meccanismo con cui Dio salva una creatura. Premesso che l’uomo decaduto è radicalmente incapace di compiere alcuna azione utile alla salvezza e di “meritare” in senso stretto la grazia di Dio (non può né salvarsi, né convertirsi), lo Spirito Santo svolge una triplice azione: prende l’iniziativa “toccando” l’anima del peccatore e muovendo la sua volontà verso il bene; aiuta la volontà del peccatore nello sforzo di decidersi a lasciare il male per abbracciare il bene; in caso positivo (conversione), lo Spirito Santo prenderà stabile dimora nell’anima (“grazia santificante”) per aiutarla a compiere le opere sante e giuste necessarie per meritare la salvezza e per dare ad esse, tramite la carità infusa, causa di merito in senso stretto sia del premio della vita eterna che di grazie sempre più grandi per santificarsi in misura sempre maggiore. Dinanzi a tale azione, tuttavia, l’uomo non si trova come destinatario totalmente passivo, ma deve cooperare a tutti i livelli. Anzitutto prima della conversione, compiendo quel poco di bene naturale e umano che sa e può, usando bene la facoltà dell’intelligenza, seguendo i richiami gravi della propria coscienza. In questo modo non “merita” la grazia della conversione, ma si dispone ad ottenerla grazie ai meriti di Gesù Cristo e alle preghiere e penitenze dei giusti offerte a Dio per la conversione dei peccatori. Durante il processo di conversione, perché dinanzi al richiamo dello Spirito Santo, la volontà resta radicalmente libera: può accogliere la grazia o rifiutarla. Dopo la conversione: ogni giorno l’anima dovrà sforzarsi di cooperare con la grazia per compiere il bene e le opere sante necessarie per meritare la vita eterna. Da queste brevi note, ben si comprende perché la Chiesa, nel presentare la retta dottrina sulla giustificazione ha sempre parlato di “sinergia” (letteralmente: “lavoro insieme”) tra la Grazia e la libertà dell’uomo. Quali saranno dunque i peccati e le bestemmie contro lo Spirito Santo? Nient’altro che i difetti radicali e ostinati dalla parte della libertà dell’uomo, che rendono vana l’azione della Grazia.
Partendo dunque dai casi evangelici, ben si capisce come rifiutare di riconoscere in Gesù il Salvatore, nonostante l’evidenza dei miracoli e degli esorcismi, determina l’impossibilità radicale della prima conversione. Per questo Gesù insegna che “chi crede in Lui ed è battezzato sarà salvo, mentre chi non crede sarà condannato” (Mc 16,16). La Chiesa fa eco a questo insegnamento attraverso l’antico adagio “extra Ecclesiam nulla salus” (“fuori della Chiesa nessuna salvezza”). Espressione da intendere non come condanna assoluta e automatica di tutti coloro che sono fuori della Chiesa, ma come affermazione che chi, conoscendo Gesù Cristo, il Vangelo e la necessità di appartenere alla Chiesa per ottenere la salvezza, si chiude inesorabilmente ad essi (rifiutando in modo consapevole la grazia della conversione), si condanna senza appello all’eterna dannazione, avendo chiuso il cuore alla mano tesa da parte della misericordia di Dio. Vedremo come tutte le tipologie di bestemmia contro lo Spirito, si spiegano con questa assurda e colpevole forma di radicale chiusura del cuore umano agli aiuti offerti dalla grazia.
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Il più grave peccato contro lo Spirito Santo è senza dubbio la disperazione della salvezza, che ha annoverato, tra i suoi autori, due celebri personaggi biblici: Caino e Giuda Iscariota. Il primo, macchiatosi di omicidio volontario contro il giusto fratello Abele, mosso dalla passione dell’invidia, elevò il primo grande grido blasfemo: “troppo grande è il mio peccato per ottenere il perdono” (Gen 4,13). Ancora più grave fu la disperazione del più grande peccatore della storia dell’umanità (oggi, peraltro, tanto frettolosamente quanto oltraggiosamente giustificato o addirittura osannato da parte di qualcuno…), Giuda Iscariota. Egli, dopo aver osato ricevere la prima comunione durante l’ultima Cena (ed essere stato, in quella sede, ordinato sacerdote ed aver avuto Gesù ai suoi piedi nel gesto di ineffabile carità del lavarglieli), non ebbe remore di andare a vendere il figlio di Dio per trenta denari. I vangeli ci raccontano che a un certo punto egli si pentì della sua colpa, ma non del pentimento santo che muove a contrizione e spinge ad invocare la misericordia, bensì del superbo rimorso di chi sa di aver commesso un peccato gravissimo, ma non si perdona e non chiede perdono. I vangeli ci dicono che Giuda morì suicida e che Gesù pronunziò a suo riguardo le tremende parole: “sarebbe meglio per quell’uomo che non fosse mai nato” (Mc 14,21). Sia detto a questo punto tra parentesi che, rebus sic stantibus, risulta quanto meno difficile comprendere come sia possibile, dinanzi a tali parole di nostro Signore, limitarsi anche soltanto a ipotizzare una possibile non dannazione dell’apostolo fedifrago, traditore e suicida. In ogni caso questo peccato è gravissimo perché offende la misericordia di Dio che è realmente infinita, più grande di qualunque colpa dell’uomo e sempre pronta a riversarsi su di lui alle uniche condizioni che il peccatore, riconosciuta la colpa, la confessi con sincero pentimento, chiedendone perdono ed offrendosi, liberamente e volontariamente, alla dovuta espiazione e purificazione ad essa conseguente.
Specularmente opposta a questa, ma non meno grave, è la seconda fattispecie di bestemmia contro lo Spirito Santo, ovvero la presunzione di salvarsi senza meriti. Sbandierata orgogliosamente dagli eretici di ieri (gnostici, protestanti e quietisti in primis) e di oggi (buonisti e modernisti), si tratta di una vera e propria eresia oggi diffusissima, che serve a popolare l’Inferno di ignari buontemponi, pressapochisti e illusi. Questo peccato, infatti, presume disordinatamente della misericordia di Dio e presentandone una visione unilaterale e parziale giunge a dire che siccome Dio è buono qualunque cosa l’uomo faccia non andrà dannato e che sarebbe assurdo pensare che Dio, che è l’origine della Grazia (senza la quale l’uomo non può fare nulla di buono) premi per qualche opera che solo grazie a Lui sarebbe resa possibile. È inutile commentare amaramente come molti pulpiti di non poche Chiese pullulino di queste sciocchezze, sotto lo sguardo compiaciuto di sciagurati auditori. Certamente è vero che senza la grazia preveniente e coadiuvante l’uomo non può fare nulla di buono, ma è altrettanto vero che Dio ha voluto che il Paradiso fosse conseguito a prezzo di lacrime, sudore, sforzi e sangue, come Gesù non cessò di raccomandare nei Vangeli e che, proprio in virtù di questo, Egli concede un grado di gloria perfettamente e rigorosamente proporzionale ai meriti di ciascuno (come appare chiaramente, per esempio, dalle parabole dei talenti e delle mine). La giustizia di Dio, dunque, va considerata sempre come inscindibilmente connessa con la sua misericordia: per cui Egli usa una misericordia giusta (perdona sì, ma solo a chi è pentito e disposto all’espiazione) ed una giustizia misericordiosa (che retribuisce rigorosamente il bene fatto, fosse anche solo un bicchiere d’acqua dato per carità, mentre è clemente nel castigare e nel punire, esercitando un rigore sempre inferiore a quanto il peccato dell’uomo meriterebbe).
Altro gravissimo e brutto peccato contro lo Spirito è l’invidia della grazia altrui. A proposito dell’invidia un noto politico ebbe a dire che essa è un peccato che molti cristiani commettono, ma che ben pochi confessano, cosa che è pienamente confermata dall’esperienza di non pochi confessori. Questa fattispecie ha tuttavia, rispetto al generico vizio dell’invidia – consistente nel rallegrarsi del male e rattristarsi del bene altrui – la peculiarità di essere causata dalla santità del prossimo, percepita come un’accusa indiretta dei propri peccati personali e quindi scatenante la reazione dell’odio verso il giusto. Magistralmente descritta nel secondo capitolo del libro della Sapienza, essa ha avuto come protagonisti biblici, oltre al già menzionato Caino, l’empio re Saul (invidioso della grandezza e del valore di Davide) nonché i sacerdoti, scribi e farisei che vollero uccidere Gesù, mossi, a detta dei Vangeli, da questa orrida passione, come anche Pilato aveva compreso (cf Mt 27,18). La gravità di questo peccato è evidente: se Dio suscita un santo, lo fa anche (se non soprattutto) per mostrare col buon esempio delle sue virtù, la necessità della conversione e delle buone opere per essere accetti a Dio. Vedendo un santo lo si può (e, forse, lo si deve) “invidiare santamente”, nel senso che è possibile desiderare di essere come lui imitando le sue virtù (è proprio per questo, infatti, che Dio lo invia agli uomini); al contrario sdegnarsi contro di lui, colpevole solo di mettere in luce la verità e di denunciare le opere delle tenebre, significa chiudersi e rifiutare radicalmente una grande offerta di grazia elargita da Dio Padre, esponendosi così ad una serie di brutti peccati contro la carità del prossimo che vanno dal risolino ironico di compatimento al vero e proprio motteggio, dalle offese verbali all’accusa di follia, dalla persecuzione violenta al vero e proprio assassinio. Per quale colpa? L’unica che gli uomini empi non perdonano: quella di dire e “fare” la verità.
La quarta tipologia è l’impugnazione della verità conosciuta. Peccato, questo, gravissimo, perché toglie al peccatore una delle circostanze soggettive che sempre attenuano le colpe dei comuni mortali, ovvero l’ignoranza. Il grande dottore san Tommaso d’Aquino, al riguardo, afferma che, generalmente parlando, in ogni peccato c’è una certa ignoranza, perché quando l’uomo pecca non lo fa con l’intenzione espressa ed esplicita di fare del male o di farsi del male, ma sempre avendo di vista un bene particolare che vuole conseguire (anche se fuori dell’ordine voluto da Dio). Anche i peccati più orrendi, come per esempio l’omicidio, sottostanno a questa regola: si pensi a chi uccide per gelosia (mosso dall’amore per la sposa e dal desiderio di rimuovere il “male del suo rivale”), o si pensi anche all’orribile delitto dell’aborto (mosso dall’interesse egoistico di non affrontare i sacrifici e i travagli di una gravidanza e di una vita da far crescere). Si badi a comprendere bene quanto appena detto: le motivazioni che muovono al peccato sono semprefutili e basse e non tolgono né il gravissimo disordine degli atti né la tremenda responsabilità del peccatore davanti alla giustizia di Dio e, in alcuni casi, anche a quella degli uomini. Si vuole dire che, a differenza dei demoni, l’uomo non compie, ordinariamente, il male per il male, per il gusto di farlo, altrimenti diventerebbe realmente una sorta di demone incarnato (a dire il vero, peraltro, la storia non ci ha risparmiato qualche esempio di tale abbrutimento dell’uomo, che volendo fare il super-uomo ha incarnato il super-demone…). In più, alcune volte, a questa “ignoranza strutturale”, che meglio sarebbe chiamare “accecamento”, si può aggiungere l’ignoranza soggettiva della peccaminosità dei singoli atti. I confessori sanno benissimo che molte anime hanno commesso peccati anche gravissimi, senza rendersene minimamente conto. Tutte queste circostanze sono, paradossalmente, la causa anzi la condizione di possibilità della salvezza e della conversione dell’uomo, perché rendono il male che ha compiuto non così grave come quello dei demoni. È proprio la loro assenza, insegna l’Aquinate, infatti, a rendere i demoni inconvertibili: proprio perché, a differenza dell’uomo, un angelo, prima di peccare, sa e vede chiaramente l’intrinseca cattiveria dell’atto e tutte le sue nefaste conseguenze; per cui se, nonostante questa assoluta chiarezza mentale, pecca, la sua volontà si “attacca” in maniera così forte e radicale al male compiuto da divenirne inseparabile. Detto questo, la fattispecie che stiamo esaminando consiste nel peccato che un uomo commettesenza avere come scusanti l’ignoranza soggettiva della sua peccaminosità oppure l’ignoranza generica della sua malizia. Il caso classico è quello di un peccatore che si converte e riceve il perdono e torna a compiere, spudoratamente e infischiandosene della verità conosciuta, il male da cui per misericordia Dio lo aveva salvato. Al riguardo, suonano davvero tremende le parole che ebbe a pronunciare san Pietro in una delle sue lettere: “Se infatti, dopo aver fuggito le corruzioni del mondo per mezzo della conoscenza del Signore e salvatore Gesù Cristo, ne rimangono di nuovo invischiati e vinti, la loro ultima condizione è divenuta peggiore della prima. Meglio sarebbe stato per loro non aver conosciuto la via della giustizia, piuttosto che, dopo averla conosciuta, voltar le spalle al santo precetto che era stato loro dato. Si è verificato per essi il proverbio: Il cane è tornato al suo vomito e la scrofa lavata è tornata ad avvoltolarsi nel brago” (2Pt 2,20-22). In tale fattispecie, infatti, si calpesta non solo la Grazia, ma anche la verità ed il peccato commesso diventa simile a quello dei demoni. In questi casi, dopo una tale chiusura colpevole, un’ulteriore grazia da parte dell’Altissimo è davvero una rarità e per ottenerla occorrono innumerevoli preghiere, sforzi e sacrifici.
Veniamo ora a considerare l’ostinazione nel peccato, altro grave problema di non poche anime. Essa si verifica quando un peccatore abusa della misericordia di Dio scambiandola con debolezza e prendendola come scusa per continuare a peccare senza troppe preoccupazioni. È il classico caso di chi pensa che basta confessarsi e tutto finisce, Dio perdona sempre, tutto e senza condizioni. Ora, la misericordia di Dio è infinita, ma come sappiamo essa si riversa solo su chi è sinceramente pentito. Non deve mai diventare una sorta di acquiescenza o autorizzazione a peccare. Ciò è tanto vero che i dottori e i confessori illuminati, tra cui Sant’Alfonso Maria de’ Liguori e san Pio da Pietrelcina, erano molto severi con i peccatori recidivi: una assoluzione, due assoluzioni, ma già alla terza ricaduta, senza alcun miglioramento, l’assoluzione almeno la differivano, ammonendo i confessori che chi avesse assolto un tale penitente ostinato non sarebbe andato, a sua volta, esente da peccato mortale (stiano dunque molto attenti i confessori dalla manica troppo larga…). Dio ci perdona affinché ci convertiamo; la sua misericordia è l’ultima ancora di salvezza, non un segno di debolezza. Dio è senza dubbio un Padre misericordioso, ma occorre ricordare che è anche un giudice severo, come Gesù insegna nel Vangelo (per esempio nella parabola dei talenti). Per cui è bene non sfidarlo.
Infine, l’ultima fattispecie di questa brutta categoria di peccati: l’impenitenza finale. È dottrina comunemente insegnata dagli scrittori ecclesiastici (e confermata da numerosi santi e mistici) che la misericordia di Dio è talmente grande da “rincorrere” il peccatore fino all’ultimo istante, in cui il Signore, proprio in punto di morte, fa l’ultimo invito all’anima di pentirsi e accogliere la sua misericordia. Chiusa la porta a quest’ultimo richiamo, non resta che la dannazione. Si capisce con ciò, facilmente, come anche quest’ultimo caso rappresenti l’ennesima, definitiva autoesclusione dell’uomo dalla misericordia di Dio. Tuttavia si badi a non cadere in un nuovo abuso di questi gesti estremi di misericordia del Padre, sragionando con considerazioni di questo tipo: “Siccome Dio fa l’ultimo richiamo al peccatore in punto di morte, a che serve convertirsi e privarsi dei piaceri del peccato? Mi godrò la vita e poi mi pentirò in punto di morte!”. Anche questo ragionamento sarebbe un ulteriore gravissimo oltraggio alla misericordia di Dio, trasformando un suo gesto estremo di amore e clemenza in una sorta di permesso di peccare senza limiti per tutta la vita. Dimenticando che, come recita un noto adagio, “si muore come si è vissuti” e molto difficilmente un peccatore, colpevolmente incallito e impenitente, accoglierà l’ultimo appello della divina misericordia. Meglio “cercare il Signore mentre si fa trovare” (Is 55,6) e affrettarsi a spezzare i vincoli del male, ricordando che peccare non significa godere, ma cadere nella più atroce delle schiavitù, autocondannarsi alla tristezza, alla noia e alla depressione, rischiare di cadere nella più nera disperazione, temporale ed eterna.