I DIECI COMANDAMENTI - SETTIMO COMANDAMENTO: Non rubare
INTRODUZIONE
Il settimo comandamento è ordinato alla retta amministrazione del denaro e dei beni materiali ricevuti in dono da Dio. Come afferma il grande san Tommaso d’Aquino, ogni precetto della legge di Dio tutela qualche bene prezioso per l’uomo: i primi tre hanno come oggetto il bene sommo, ovvero Dio; il quarto il bene della famiglia; il quinto il bene della vita; il sesto la santità del corpo; il settimo i beni materiali; l’ottavo il bene morale dell’onore e della veracità, come vedremo. Si tratta di un comandamento molto importante, che coinvolge tante questioni delicate: il problema della proprietà privata, la destinazione universale dei beni, la virtù cardinale della giustizia, i rapporti con lo Stato in ordine alla tassazione, etc. Di tutti questi argomenti si occupa la dottrina sociale della Chiesa, una branca del Magistero che ha assunto una sua configurazione propria e autonoma da quando il grande Pontefice Leone XIII con l’enciclica Rerum Novarum (1891) ebbe modo di trattare, nel merito e nei particolari, le nuove problematiche suscitate dalla rivoluzione industriale e dalla questione operaia, che era stata monopolizzata e strumentalizzata dal movimento comunista.
Prima di entrare nel merito e nel dettaglio del settimo comandamento occorre operare, come del resto abbiamo fatto anche per gli altri comandamenti, delle precisazioni e delle considerazioni introduttorie di importanza capitale, per focalizzare alcuni punti chiave dell’insegnamento di Dio, trasmesso dalla Chiesa, sui beni temporali e il loro uso.
Anzitutto occorre dire, con chiarezza e forza, che i beni temporali sono “beni”, non mali. Non si tratta di una ovvia e inutile tautologia; non è infatti infrequente incontrare, anche in non pochi ambienti ecclesiali, chi pensa che la ricchezza sia sempre in qualche modo o in qualche forma qualcosa di negativo, da fuggire come invisa a Dio o come necessariamente foriera o apportatrice di corruzione, malaffare o disonestà. Le ricchezze (e con ciò si intende il denaro e i beni materiali) di per sé sono doni di Dio che devono servire al giusto ed equo soddisfacimento dei bisogni materiali propri e altrui. Nulla di più e nulla di meno. Se è vero infatti che non si deve vivere per i soldi, non è tuttavia meno vero che senza soldi non si vive… La Chiesa, in questo senso, ha condannato reiteratamente nel corso della storia l’eresia del pauperismo, sempre in qualche modo latente e strisciante, la quale affermava, appunto, che le ricchezze sono un male di per sé e che quindi chiunque non avesse abbracciato la povertà volontaria avrebbe, ipso facto, commesso peccato. Si badi che al tempo dei grandi movimenti mendicanti medievali, solo francescani, domenicani e carmelitani sfuggirono alla condanna ecclesiale, mentre molti altri (tra cui Valdesi, Albigesi e Catari, solo per fare qualche nome) incorsero in questo fatale errore. Gesù nel Vangelo (si pensi soprattutto agli episodi del giovane ricco, del ricco Epulone e del ricco stolto che pensa ad ammassare i beni superflui e non sa di morire la notte seguente) ammonisce solo dal pericolo che le ricchezze rappresentano per chi non sa farne un uso benedetto da Dio, ma non condanna la ricchezza in se stessa. Si ricordi, tra l’altro, che il suo migliore amico era Lazzaro, figlio di Teofilo che era il governatore della Siria e pertanto certamente non appartenente alla categoria dei poveracci o nullatenenti…
Il secondo punto da evidenziare è che la proprietà privata è lecita e corrisponde ai disegni di Dio sulla destinazione dei beni. In questo senso bisogna guardarsi e stare sempre e con rinnovata attenzione alla larga dal gravissimo errore dei comunisti, che, insieme ad altre scellerate idee (in primis quella dell’ateismo), ritenevano la proprietà privata come un male gravissimo da abolire definitivamente nell’utopica società socialista (con l’unico effetto, come l’esperienza dell’Unione Sovietica ha dimostrato, di andare a ingrossare il patrimonio dei vertici e dei membri più influenti del partito attraverso i vari espropri proletari…). Si legge al riguardo nel Catechismo della Chiesa Cattolica: “L'appropriazione dei beni è legittima al fine di garantire la libertà e la dignità delle persone, di aiutare ciascuno a soddisfare i propri bisogni fondamentali e i bisogni di coloro di cui ha la responsabilità. Tale appropriazione deve consentire che si manifesti una naturale solidarietà tra gli uomini” (CCC 2402).
Il terzo ed ultimo punto è la destinazione universale dei beni. Dio, infatti, crea e distribuisce beni e ricchezze non certo perché siano appannaggio di pochi eletti per i loro egoistici bisogni e interessi. In questo senso l’uomo ricco deve considerarsi (e tale è realmente) una sorta di “amministratore delegato” della divina Provvidenza: quello che ha ricevuto in sovrappiù deve essere da lui, liberamente e gioiosamente (e non tramite forzati espropri proletari…), amministrato per sovvenire i bisogni e le necessità di chi è privo del necessario. Vedremo a suo tempo che è proprio questo principio morale a rendere legittima la tassazione (purché sia equa!!!) da parte degli Stati, in base a cui si prelevano parte dei beni dei cittadini per redistribuire equamente e per fini buoni redditi e ricchezze. Torneremo su questo punto a suo tempo. È bene evidenziare anche quest’ultimo principio con una nuova citazione del Catechismo della Chiesa cattolica che, al riguardo, è quanto mai chiaro ed eloquente: “Il diritto alla proprietà privata, acquisita o ricevuta in giusto modo, non elimina l'originaria donazione della terra all'insieme dell'umanità. La destinazione universale dei beni rimane primaria, anche se la promozione del bene comune esige il rispetto della proprietà privata, del diritto ad essa e del suo esercizio. ‘L'uomo, usando dei beni creati, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede, non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui, ma anche agli altri’ [GS 69]. La proprietà di un bene fa di colui che lo possiede un amministratore della Provvidenza, per farlo fruttificare e spartirne i frutti con gli altri, e, in primo luogo, con i propri congiunti” (CCC 2403-2404).
I due peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio:
oppressione dei poveri e frode del giusto salario agli operai
Il settimo comandamento tutela, come abbiamo visto, la legittima proprietà dei beni materiali e impone la giustizia e l’onestà nell’uso del denaro, che, come dice san Paolo, quando diventa occasione di avarizia, diventa la “radice di tutti i mali” (1Tim 6,10). Vediamo come si contravviene a questo comandamento cominciando dai peccati in assoluto più gravi.
Ben due delle quattro specie dei peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio sono oggetto del settimo comandamento. Si tratta della mancata corresponsione della giusta mercede (o del giusto salario) agli operai e dell’oppressione dei poveri. Con la prima fattispecie si intende anzitutto lo sfruttamento della manodopera altrui, sottopagando chi si guadagna il pane con il sudore della fronte. Questa eventualità, negli attuali ordinamenti giuridici dove, grazie a Dio, è ampiamente diffusa la contrattazione collettiva e la tutela sindacale, è generalmente riscontrabile nell’ambito del cosiddetto “lavoro in nero”. Ora, prescindendo momentaneamente dall’ordinaria illiceità di questa prassi, si deve comunque affermare che il datore di lavoro di un operaio “a nero”, davanti a Dio ha esattamente gli stessi e identici obblighi che avrebbe nei confronti di un lavoratore regolarmente assunto: giusta retribuzione, riposo settimanale, orario di lavoro umano, ferie, permessi, malattia, etc. Qualora mancasse a uno solo di questi obblighi, abusando del fatto che il malcapitato lavoratore, privo di contratto, non potrebbe agire legalmente per la tutela dei suoi diritti, potrebbe forse farla franca davanti alla giustizia umana, ma sappia che dovrà rendere rigoroso conto a quella divina. Al riguardo san Giacomo apostolo ammonisce con toni severi: “Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida; e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti” (Gc 5,4). Similmente rientra in questa tipologia la pessima prassi, purtroppo non poco diffusa, di non pagare gli operai per tempo, ovvero, a seconda degli accordi contrattuali (anche non scritti…), alla fine o agli inizi del mese. Anche questa ipotesi non ricorre, ordinariamente, nei settori della grande industria o imprenditoria, ma in tutta quella serie (numerosissima) di piccole attività imprenditoriali o commerciali dove è minore il controllo e la pressione sindacale. Il libro del Levitico, contro questo pessimo modo di procedere, tuona: “il salario del bracciante al tuo servizio non resti la notte presso di te fino al mattino dopo” (Lv 19,13). Guai dunque a chi abusa di questo e toglie di bocca il giusto salario a chi per sopravvivere ha bisogno dello stipendio frutto del suo onesto lavoro. Vorrei aggiungere, data l’analogia, una parola sul costume assai biasimevole di ritardare e dilazionare i pagamenti dinanzi a beni o servizi ricevuti. Ritengo personalmente tale comportamento assai grave, in quanto, di fatto, si tratta di usare come una sorta di “banca” (a costo zero…) persone che hanno impiegato mezzi e lavoro per fornire beni e servizi. Se il salario del bracciante non deve restare presso la casa del padrone fino all’alba del giorno dopo, è evidente che nemmeno il corrispettivo di beni e servizi ricevuti può essere arbitrariamente trattenuto nel caso di lavori eseguiti, collaudati e consegnati. Ho conosciuto aziende che hanno rischiato di fallire e di chiudere i battenti per commesse di lavori eseguiti e consegnati (su cui ordinariamente si deve tra l’altro pagare l’I.V.A. al momento dell’emissione della fattura e non a pagamento percepito…), che sono stati pagati con un ritardo di mesi e talora anche di anni… Agire in questo modo non è forse rubare? Si potrebbe obiettare: forse non aveva i soldi per pagare. Allora o si evita di chiedere il lavoro oppure si chiede un prestito alle banche, accollandosene gli oneri e non facendola pagare, come “banca forzata”, a chi ha lavorato… Purtroppo questi comportamenti, tanto disinvoltamente abbracciati da più di qualcuno (tant’è vero che c’è anche l’aforisma ironico: “per morire e per pagare c’è sempre tempo”…), sono oltremodo diffusi. Ma costituiscono gravi peccati contro questo comandamento e sono certo che saranno severamente trattati dalla divina giustizia. L’altro peccato che grida vendetta al cospetto di Dio è l’oppressione dei poveri. Si tratta di tutte quelle situazioni in cui chi è nell’abbondanza pone in essere comportamenti atti ad angariare, sfruttare, o opprimere chi è privo del necessario, abusando e approfittando della condizione di bisogno e indigenza del povero. Anche in questo caso, l’attuale legislazione giuslavoristica e le tutele garantite ai lavoratori salariati dall’azione sindacale pongono un argine non indifferente al dilagare dell’iniquità che altrimenti, come la storia ha ampiamente dimostrato, non tarderebbe ad apparire e manifestarsi. Rimangono tuttavia, anche in questo caso, le aree del “sommerso”, dove possono ingenerarsi situazioni di abuso oppressivo, tipo l’approfittarsi della situazione di indigenza o di bisogno di qualcuno per costringerlo a prestazioni sottopagate oppure somministrandogli beni o servizi a costi che non può permettersi. Qui per la verità massima attenzione devono porla anche legislatori e governanti dal momento che, purtroppo, specie nell’attuale congiuntura economica, sono numerose le persone ad aggirarsi nei pressi o al di sotto della soglia di povertà, forse anche in forza di qualche incauto provvedimento legislativo. Le norme dello Stato non devono mai essere cieche, ma tenere conto di queste situazioni che, come ogni sacerdote in cura di anime sa, in alcuni casi rasentano il limite della disperazione e non devono per nessun motivo essere onerate di pesi e carichi che non possono e non debbono sostenere .
I poveri, lungi dall’essere oppressi, devono essere oggetto di attenzione particolare non solo da parte della Chiesa (che sempre, sull’esempio del suo Signore, ha avuto per essi una cura speciale e un occhio di profondo riguardo), ma anche da parte delle autorità civili e di tutti coloro che, per aver avuto in sorte una maggiore disponibilità di beni materiali, non per questo possono abusarne ma anzi, come abbiamo accennato nella precedente puntata e come vedremo meglio in seguito, sono tenuti a supplire con la loro abbondanza all’altrui indigenza. La Sacra Scrittura, il profeta Amos in particolare (si vedano soprattutto i capitoli 4 e 8), è particolarmente severa con chi opprime i poveri. E’ vero che purtroppo, in alcuni settori della Chiesa e soprattutto da alcune correnti teologiche relativamente recenti, questo tema è stato ipertrofizzato come se unico compito della Chiesa fosse quello di “servire” i poveri o “rivendicare” (anche con mezzi non sempre evangelicamente corretti…) i loro diritti. Ma, respinte fermamente tali esacerbazioni unilateralistiche e al limite dell’eterodossia, resta il fatto che i poveri sono nel cuore di Dio e chi li opprime, li vessa, li sfrutta o li maltratta dovrà vedersela (anche su questa terra) con i rigori della Sua divina giustizia.
INTRODUZIONE
Il settimo comandamento è ordinato alla retta amministrazione del denaro e dei beni materiali ricevuti in dono da Dio. Come afferma il grande san Tommaso d’Aquino, ogni precetto della legge di Dio tutela qualche bene prezioso per l’uomo: i primi tre hanno come oggetto il bene sommo, ovvero Dio; il quarto il bene della famiglia; il quinto il bene della vita; il sesto la santità del corpo; il settimo i beni materiali; l’ottavo il bene morale dell’onore e della veracità, come vedremo. Si tratta di un comandamento molto importante, che coinvolge tante questioni delicate: il problema della proprietà privata, la destinazione universale dei beni, la virtù cardinale della giustizia, i rapporti con lo Stato in ordine alla tassazione, etc. Di tutti questi argomenti si occupa la dottrina sociale della Chiesa, una branca del Magistero che ha assunto una sua configurazione propria e autonoma da quando il grande Pontefice Leone XIII con l’enciclica Rerum Novarum (1891) ebbe modo di trattare, nel merito e nei particolari, le nuove problematiche suscitate dalla rivoluzione industriale e dalla questione operaia, che era stata monopolizzata e strumentalizzata dal movimento comunista.
Prima di entrare nel merito e nel dettaglio del settimo comandamento occorre operare, come del resto abbiamo fatto anche per gli altri comandamenti, delle precisazioni e delle considerazioni introduttorie di importanza capitale, per focalizzare alcuni punti chiave dell’insegnamento di Dio, trasmesso dalla Chiesa, sui beni temporali e il loro uso.
Anzitutto occorre dire, con chiarezza e forza, che i beni temporali sono “beni”, non mali. Non si tratta di una ovvia e inutile tautologia; non è infatti infrequente incontrare, anche in non pochi ambienti ecclesiali, chi pensa che la ricchezza sia sempre in qualche modo o in qualche forma qualcosa di negativo, da fuggire come invisa a Dio o come necessariamente foriera o apportatrice di corruzione, malaffare o disonestà. Le ricchezze (e con ciò si intende il denaro e i beni materiali) di per sé sono doni di Dio che devono servire al giusto ed equo soddisfacimento dei bisogni materiali propri e altrui. Nulla di più e nulla di meno. Se è vero infatti che non si deve vivere per i soldi, non è tuttavia meno vero che senza soldi non si vive… La Chiesa, in questo senso, ha condannato reiteratamente nel corso della storia l’eresia del pauperismo, sempre in qualche modo latente e strisciante, la quale affermava, appunto, che le ricchezze sono un male di per sé e che quindi chiunque non avesse abbracciato la povertà volontaria avrebbe, ipso facto, commesso peccato. Si badi che al tempo dei grandi movimenti mendicanti medievali, solo francescani, domenicani e carmelitani sfuggirono alla condanna ecclesiale, mentre molti altri (tra cui Valdesi, Albigesi e Catari, solo per fare qualche nome) incorsero in questo fatale errore. Gesù nel Vangelo (si pensi soprattutto agli episodi del giovane ricco, del ricco Epulone e del ricco stolto che pensa ad ammassare i beni superflui e non sa di morire la notte seguente) ammonisce solo dal pericolo che le ricchezze rappresentano per chi non sa farne un uso benedetto da Dio, ma non condanna la ricchezza in se stessa. Si ricordi, tra l’altro, che il suo migliore amico era Lazzaro, figlio di Teofilo che era il governatore della Siria e pertanto certamente non appartenente alla categoria dei poveracci o nullatenenti…
Il secondo punto da evidenziare è che la proprietà privata è lecita e corrisponde ai disegni di Dio sulla destinazione dei beni. In questo senso bisogna guardarsi e stare sempre e con rinnovata attenzione alla larga dal gravissimo errore dei comunisti, che, insieme ad altre scellerate idee (in primis quella dell’ateismo), ritenevano la proprietà privata come un male gravissimo da abolire definitivamente nell’utopica società socialista (con l’unico effetto, come l’esperienza dell’Unione Sovietica ha dimostrato, di andare a ingrossare il patrimonio dei vertici e dei membri più influenti del partito attraverso i vari espropri proletari…). Si legge al riguardo nel Catechismo della Chiesa Cattolica: “L'appropriazione dei beni è legittima al fine di garantire la libertà e la dignità delle persone, di aiutare ciascuno a soddisfare i propri bisogni fondamentali e i bisogni di coloro di cui ha la responsabilità. Tale appropriazione deve consentire che si manifesti una naturale solidarietà tra gli uomini” (CCC 2402).
Il terzo ed ultimo punto è la destinazione universale dei beni. Dio, infatti, crea e distribuisce beni e ricchezze non certo perché siano appannaggio di pochi eletti per i loro egoistici bisogni e interessi. In questo senso l’uomo ricco deve considerarsi (e tale è realmente) una sorta di “amministratore delegato” della divina Provvidenza: quello che ha ricevuto in sovrappiù deve essere da lui, liberamente e gioiosamente (e non tramite forzati espropri proletari…), amministrato per sovvenire i bisogni e le necessità di chi è privo del necessario. Vedremo a suo tempo che è proprio questo principio morale a rendere legittima la tassazione (purché sia equa!!!) da parte degli Stati, in base a cui si prelevano parte dei beni dei cittadini per redistribuire equamente e per fini buoni redditi e ricchezze. Torneremo su questo punto a suo tempo. È bene evidenziare anche quest’ultimo principio con una nuova citazione del Catechismo della Chiesa cattolica che, al riguardo, è quanto mai chiaro ed eloquente: “Il diritto alla proprietà privata, acquisita o ricevuta in giusto modo, non elimina l'originaria donazione della terra all'insieme dell'umanità. La destinazione universale dei beni rimane primaria, anche se la promozione del bene comune esige il rispetto della proprietà privata, del diritto ad essa e del suo esercizio. ‘L'uomo, usando dei beni creati, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede, non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui, ma anche agli altri’ [GS 69]. La proprietà di un bene fa di colui che lo possiede un amministratore della Provvidenza, per farlo fruttificare e spartirne i frutti con gli altri, e, in primo luogo, con i propri congiunti” (CCC 2403-2404).
I due peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio:
oppressione dei poveri e frode del giusto salario agli operai
Il settimo comandamento tutela, come abbiamo visto, la legittima proprietà dei beni materiali e impone la giustizia e l’onestà nell’uso del denaro, che, come dice san Paolo, quando diventa occasione di avarizia, diventa la “radice di tutti i mali” (1Tim 6,10). Vediamo come si contravviene a questo comandamento cominciando dai peccati in assoluto più gravi.
Ben due delle quattro specie dei peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio sono oggetto del settimo comandamento. Si tratta della mancata corresponsione della giusta mercede (o del giusto salario) agli operai e dell’oppressione dei poveri. Con la prima fattispecie si intende anzitutto lo sfruttamento della manodopera altrui, sottopagando chi si guadagna il pane con il sudore della fronte. Questa eventualità, negli attuali ordinamenti giuridici dove, grazie a Dio, è ampiamente diffusa la contrattazione collettiva e la tutela sindacale, è generalmente riscontrabile nell’ambito del cosiddetto “lavoro in nero”. Ora, prescindendo momentaneamente dall’ordinaria illiceità di questa prassi, si deve comunque affermare che il datore di lavoro di un operaio “a nero”, davanti a Dio ha esattamente gli stessi e identici obblighi che avrebbe nei confronti di un lavoratore regolarmente assunto: giusta retribuzione, riposo settimanale, orario di lavoro umano, ferie, permessi, malattia, etc. Qualora mancasse a uno solo di questi obblighi, abusando del fatto che il malcapitato lavoratore, privo di contratto, non potrebbe agire legalmente per la tutela dei suoi diritti, potrebbe forse farla franca davanti alla giustizia umana, ma sappia che dovrà rendere rigoroso conto a quella divina. Al riguardo san Giacomo apostolo ammonisce con toni severi: “Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida; e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti” (Gc 5,4). Similmente rientra in questa tipologia la pessima prassi, purtroppo non poco diffusa, di non pagare gli operai per tempo, ovvero, a seconda degli accordi contrattuali (anche non scritti…), alla fine o agli inizi del mese. Anche questa ipotesi non ricorre, ordinariamente, nei settori della grande industria o imprenditoria, ma in tutta quella serie (numerosissima) di piccole attività imprenditoriali o commerciali dove è minore il controllo e la pressione sindacale. Il libro del Levitico, contro questo pessimo modo di procedere, tuona: “il salario del bracciante al tuo servizio non resti la notte presso di te fino al mattino dopo” (Lv 19,13). Guai dunque a chi abusa di questo e toglie di bocca il giusto salario a chi per sopravvivere ha bisogno dello stipendio frutto del suo onesto lavoro. Vorrei aggiungere, data l’analogia, una parola sul costume assai biasimevole di ritardare e dilazionare i pagamenti dinanzi a beni o servizi ricevuti. Ritengo personalmente tale comportamento assai grave, in quanto, di fatto, si tratta di usare come una sorta di “banca” (a costo zero…) persone che hanno impiegato mezzi e lavoro per fornire beni e servizi. Se il salario del bracciante non deve restare presso la casa del padrone fino all’alba del giorno dopo, è evidente che nemmeno il corrispettivo di beni e servizi ricevuti può essere arbitrariamente trattenuto nel caso di lavori eseguiti, collaudati e consegnati. Ho conosciuto aziende che hanno rischiato di fallire e di chiudere i battenti per commesse di lavori eseguiti e consegnati (su cui ordinariamente si deve tra l’altro pagare l’I.V.A. al momento dell’emissione della fattura e non a pagamento percepito…), che sono stati pagati con un ritardo di mesi e talora anche di anni… Agire in questo modo non è forse rubare? Si potrebbe obiettare: forse non aveva i soldi per pagare. Allora o si evita di chiedere il lavoro oppure si chiede un prestito alle banche, accollandosene gli oneri e non facendola pagare, come “banca forzata”, a chi ha lavorato… Purtroppo questi comportamenti, tanto disinvoltamente abbracciati da più di qualcuno (tant’è vero che c’è anche l’aforisma ironico: “per morire e per pagare c’è sempre tempo”…), sono oltremodo diffusi. Ma costituiscono gravi peccati contro questo comandamento e sono certo che saranno severamente trattati dalla divina giustizia. L’altro peccato che grida vendetta al cospetto di Dio è l’oppressione dei poveri. Si tratta di tutte quelle situazioni in cui chi è nell’abbondanza pone in essere comportamenti atti ad angariare, sfruttare, o opprimere chi è privo del necessario, abusando e approfittando della condizione di bisogno e indigenza del povero. Anche in questo caso, l’attuale legislazione giuslavoristica e le tutele garantite ai lavoratori salariati dall’azione sindacale pongono un argine non indifferente al dilagare dell’iniquità che altrimenti, come la storia ha ampiamente dimostrato, non tarderebbe ad apparire e manifestarsi. Rimangono tuttavia, anche in questo caso, le aree del “sommerso”, dove possono ingenerarsi situazioni di abuso oppressivo, tipo l’approfittarsi della situazione di indigenza o di bisogno di qualcuno per costringerlo a prestazioni sottopagate oppure somministrandogli beni o servizi a costi che non può permettersi. Qui per la verità massima attenzione devono porla anche legislatori e governanti dal momento che, purtroppo, specie nell’attuale congiuntura economica, sono numerose le persone ad aggirarsi nei pressi o al di sotto della soglia di povertà, forse anche in forza di qualche incauto provvedimento legislativo. Le norme dello Stato non devono mai essere cieche, ma tenere conto di queste situazioni che, come ogni sacerdote in cura di anime sa, in alcuni casi rasentano il limite della disperazione e non devono per nessun motivo essere onerate di pesi e carichi che non possono e non debbono sostenere .
I poveri, lungi dall’essere oppressi, devono essere oggetto di attenzione particolare non solo da parte della Chiesa (che sempre, sull’esempio del suo Signore, ha avuto per essi una cura speciale e un occhio di profondo riguardo), ma anche da parte delle autorità civili e di tutti coloro che, per aver avuto in sorte una maggiore disponibilità di beni materiali, non per questo possono abusarne ma anzi, come abbiamo accennato nella precedente puntata e come vedremo meglio in seguito, sono tenuti a supplire con la loro abbondanza all’altrui indigenza. La Sacra Scrittura, il profeta Amos in particolare (si vedano soprattutto i capitoli 4 e 8), è particolarmente severa con chi opprime i poveri. E’ vero che purtroppo, in alcuni settori della Chiesa e soprattutto da alcune correnti teologiche relativamente recenti, questo tema è stato ipertrofizzato come se unico compito della Chiesa fosse quello di “servire” i poveri o “rivendicare” (anche con mezzi non sempre evangelicamente corretti…) i loro diritti. Ma, respinte fermamente tali esacerbazioni unilateralistiche e al limite dell’eterodossia, resta il fatto che i poveri sono nel cuore di Dio e chi li opprime, li vessa, li sfrutta o li maltratta dovrà vedersela (anche su questa terra) con i rigori della Sua divina giustizia.