I CINQUE PRECETTI GENERALI DELLA CHIESA
TERZO PRECETTO DELLA CHIESA: SANTIFICARE I GIORNI DI PENITENZA CON DIGIUNO E ASTINENZA
NON MANGIARE LA CARNE IL VENERDI E DIGIUNARE NEI GIORNI PRESCRITTI
L'attuale disciplina penitenziale della Chiesa
Il terzo precetto generale della Chiesa disciplina la santificazione canonica dei giorni di digiuno e di penitenza: “non mangiare la carne nel venerdì e negli altri giorni di astinenza e digiunare nei giorni prescritti”. Come si evince agevolmente dalla lettera del testo, si tratta delle due opere penitenziali del digiuno e dell’astinenza, la cui prassi, già ampiamente attestata sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento e raccomandata esplicitamente da Gesù, è universalmente attestata fin dai primordi del cristianesimo. La disciplina dei giorni penitenziali è andata variamente a comporsi lungo il corso della storia, conoscendo dei momenti caratterizzati da estrema severità alternati a regimi molto mitigati, quale è quello attualmente in vigore.
Prima di entrare nel merito e nel concreto della trattazione ci sembra opportuno far riferimento ad un importante documento del Magistero, la Costituzione apostolica “Paenitemini” di Papa Paolo VI, che individua i fondamenti dogmatici e scritturistici del dovere, per ogni cristiano, di “fare penitenza”. Vorremmo, in questa prima parte della trattazione relativa a questo precetto, citare i punti salienti della prima parte della Costituzione relativa ai fondamenti della penitenza, riservandocene il commento per le puntate successive. In un secondo momento citeremo i passaggi della seconda parte, dove il santo padre dà le disposizioni normative tuttora vincolanti nell’attuale disciplina ecclesiastica. I corsivi delle citazioni sono stati apposti dal sottoscritto.
Il Pontefice si preoccupa anzitutto di evidenziare l’origine biblica e veterotestamentaria del digiuno e delle opere di penitenza: “Nell’Antico Testamento si rivela con sempre maggiore ricchezza il senso religioso della penitenza. Anche se ad essa l’uomo ricorre per lo più dopo il peccato per placare l’ira divina, o in occasione di gravi calamità, o nell’imminenza di particolari pericoli, o comunque allo scopo di ottenere benefici dal Signore, possiamo tuttavia costatare come l’opera penitenziale esterna sia accompagnata da un atteggiamento interiore di «conversione», di condanna cioè e di distacco dal peccato e di tensione verso Dio. Ci si priva del cibo e ci si spoglia dei propri beni - il digiuno è generalmente accompagnato non solo dalla preghiera, ma anche dall’elemosina, - anche dopo che il peccato è stato perdonato, anche indipendentemente dalla domanda di grazie; si digiuna e si usa il cilicio per affliggere «la propria anima» (cf Lv 16,31), per umiliarsi al cospetto del proprio Dio (cf Dn 10,12), per volgere la faccia verso Iahvè, per disporsi con più facilità alla preghiera, per comprendere più intimamente le cose divine, per prepararsi all’incontro con Dio. La penitenza è quindi, già nell’Antico Testamento, un atto religioso, personale, che ha come termine l’amore e l’abbandono nel Signore: digiunare per Dio, non per se stessi”.
Più avanti il santo Padre mostra come Gesù in persona visse e insegnò la penitenza: “Cristo, che sempre nella sua vita fece ciò che insegnò, prima di iniziare il suo ministero, passò quaranta giorni e quaranta notti nella preghiera e nel digiuno, e inaugurò la sua missione pubblica col lieto messaggio: «Il regno di Dio è vicino», cui tosto aggiunse il comando: «Ravvedetevi e credete nel Vangelo» […]. L’invito del Figlio alla «metánoia» diviene più indeclinabile in quanto egli non soltanto la predica, ma offre anche esempio di penitenza. Cristo infatti è il modello supremo dei penitenti: ha voluto subire la pena per i peccati non suoi, ma degli altri”.
Dopo aver evidenziato la pratica e l’insegnamento del Maestro, ne spiega come la Chiesa sua sposa abbia recepito e vissuto tale importante aspetto della vita cristiana: “Dinanzi a Cristo, l’uomo è illuminato da una luce nuova, e per conseguenza riconosce sia la santità di Dio sia la malizia del peccato; attraverso la parola di Cristo gli viene trasmesso il messaggio che invita alla conversione e concede il perdono dei peccati, doni questi che egli pienamente consegue nel Battesimo. Tale sacramento, infatti, lo configura alla Passione, alla Morte e alla Risurrezione del Signore, e sotto il sigillo di questo mistero pone tutta la vita futura del battezzato.Seguendo perciò il divino Maestro, ogni cristiano deve rinnegare se stesso, prendere la propria croce, partecipare ai patimenti di Cristo; trasformato in tal modo in una immagine della sua morte, egli è reso capace di meritare la gloria della risurrezione. Seguendo inoltre il Maestro, dovrà non più vivere per se stesso, ma per colui che lo amò e diede se stesso per lui, e dovrà anche vivere per i fratelli, dando compimento «nella sua carne a ciò che manca alle tribolazioni di Cristo... a favore del suo corpo che è la Chiesa» (cf Col 1,24)”.
Davvero magistrale è, infine, la sintetica spiegazione dei fondamenti dogmatici, antropologici e morali del dovere per il cristiano di fare penitenza: “Il carattere preminentemente interiore e religioso della penitenza, e i nuovi mirabili aspetti che in Cristo e nella Chiesa essa assume, non escludono né attenuano in alcun modo la pratica esterna di tale virtù, anzi ne richiamano con particolare urgenza la necessità e spingono la Chiesa, attenta sempre ai segni dei tempi, a cercare, oltre l’astinenza e il digiuno, espressioni nuove, più atte a realizzare, secondo l’indole delle diverse epoche, il fine stesso della penitenza. La vera penitenza però non può prescindere, in nessun tempo, da una ascesi anche fisica: tutto il nostro essere, infatti, anima e corpo, anzi tutta la natura, anche gli animali senza ragione, come ricorda spesso la Sacra Scrittura, deve partecipare attivamente a questo atto religioso con cui la creatura riconosce la santità e maestà divina. La necessità poi della mortificazione del corpo appare chiaramente se si considera la fragilità della nostra natura, nella quale, dopo il peccato di Adamo, la carne e lo spirito hanno desideri contrari tra loro. Tale esercizio di mortificazione del corpo, ben lontano da ogni forma di stoicismo, non implica una condanna della carne, che il Figlio di Dio si è degnato di assumere; anzi, la mortificazione mira alla «liberazione» dell’uomo, che spesso si trova, a motivo della concupiscenza, quasi incatenato dalla parte sensitiva del proprio essere; attraverso il «digiuno corporale» l’uomo riacquista vigore e «la ferita inferta alla dignità della nostra natura dall’intemperanza, viene curata dalla medicina di una salutare astinenza» (Messale Romano di S. Pio V, Colletta della feria V dopo la I domenica di Passione)”.
**** **** ****
I fondamenti dogmatici, ascetici e spirituali della penitenza cristiana, oggi ahimé, SONO non di rado trascurati quando non proprio dimenticati o addirittura contestati. Processo questo che iniziò, disgraziatamente, in concomitanza con la celebrazione e la conclusione del Concilio Vaticano II, non certo per colpa o a causa di inesistenti “nuove dottrine” formulate in merito dal Concilio, ma per quella malaugurata tendenza ad attribuire al Concilio cose che non ha mai detto in nome di un’ermeneutica della “discontinuità” contro cui ha dovuto lottare strenuamente il papa emerito Benedetto XVI. In questo senso assai significativa è la data di promulgazione della Costituzione: 17 Febbraio del 1966, solo pochi mesi dopo la chiusura del Concilio.
Contro i novelli propugnatori dell’antico errore luterano del “sola Scriptura”, il pontefice si preoccupò subito di evidenziare i fondamenti biblici della penitenza. Digiuno, preghiera e elemosina sono ampiamente attestati e praticati sin dall’Antico Testamento con queste motivazioni: placare l’ira divina dopo il peccato, ottenere grazie e benefici dal Signore, accompagnare con gesti penitenziali esteriori il cammino interiore di rinuncia e distacco dal peccato, disporre l’anima ad una più profonda intimità e unione con Dio. Nell’Antico Testamento sono attestate le pratiche penitenziali di indossare il cilicio (cf Gen 37,34; 2Mac 3,19; Gl 1,13) di coprirsi il capo di cenere (cf Gdt 9,1; Est 4,1; Lam 2,13), di dormire per terra (Sal 131,3) e di indossare come veste un sacco (cf Ne 9,1; Is 37,). Né più né meno di ciò che fece san Francesco (e tanti santi hanno fatto e fanno prima e dopo di lui).
Nostro Signore Gesù Cristo fu il penitente per antonomasia (“il modello supremo dei penitenti”): oltre all’umiltà, il lavoro e il nascondimento obbediente e sottomesso dei trent’anni di vita a Nazareth, abbiamo l’inizio della vita pubblica inaugurato dal grande digiuno di 40 giorni, la sua predicazione esplicita sulle opere penitenziali e sul digiuno in particolare (cf Mt 6,16 ss; Lc 5,33 ss), ma soprattutto le pene acerbissime della passione a cui si sottopose come vittima di espiazione per i peccati del mondo intero (cf 1Gv 2,2).
I discepoli di Gesù hanno ben compreso questo esempio e si sono, da sempre, uniti al mistero della passione di Gesù infliggendosi penitenze e mortificazioni volontarie (si legga l’elenco delle penitenze compiute da san Paolo in 2 Cor 11,24-27, dove l’Apostolo parla, tra l’altro, di “veglie senza numero e frequenti digiuni”), sia per le motivazioni già note nell’Antico Testamento, sia per le due “nuove” motivazioni tipicamente neotestamentarie: anzitutto l’imitazione di Cristo e inoltre, secondo le parole di san Paolo, “completare nella propria carne quello che manca ai patimenti di Cristo in favore del suo corpo che è la Chiesa” (cf Col 1,24). Un motivo, quest’ultimo, assolutamente inedito, che richiama la novità del digiuno cristiano annunziata da Gesù (cf Mt 9,14-17) e che consiste nell’offrirsi, insieme al Maestro, non solo in penitenza per i peccati propri ma per espiare i peccati altrui, contribuendo alla conversione dei peccatori e alla riparazione dei debiti contratti dall’umanità peccatrice con la divina giustizia. È questo il “vino nuovo in otri nuovi?”, ovvero lo spirito nuovo con cui gli uomini nuovi (i cristiani rinati da acqua e da spirito) compiono le opere penitenziali? A parere di chi scrive sembrerebbe proprio di sì.
Dal punto di vista prettamente ascetico–dogmatico, tuttavia, insieme a tutte queste nobilissime e altissime finalità della penitenza, ce n’è una, radicata nella visione antropologica cristiana dell’uomo, che fa comprendere come la penitenza sia non solo utile e raccomandabile ma assolutamente necessaria: la condizione decaduta dell’uomo a causa della colpa d’origine, che ha ferito la natura umana inclinandola inesorabilmente e costantemente verso il male e il basso, ferita che nemmeno il sacramento del Battesimo chiude e rimargina e che rimane aperta e infetta fino a quando l’uomo vive la vita terrena. Questa tendenza “al basso” comporta un’inclinazione naturale verso i piaceri dei sensi, alcuni dei quali sono leciti e altri illeciti. Dinanzi ad essi l’uomo si trova in situazione di estrema debolezza, per cui facilmente cade nel godimento dei piaceri illeciti (si pensi ai piaceri venerei al di fuori del matrimonio) e altrettanto facilmente supera la misura e la moderazione in quelli leciti (si pensi ai piaceri della tavola e al vizio capitale della gola). La mortificazione e la penitenza, in questo senso, svolgono il compito di fortificare la volontà e abituare la persona ad abbracciare la croce, in modo tale che possa essere più forte e risoluta nel combattimento spirituale che bisogna affrontare contro i nemici dell’anima (anzitutto la carne, poi il mondo e il demonio). La “carne”, infatti, non va identificata “sic et simpliciter” con il corpo, ma nella teologia paolina esprime esattamente la debolezza dell’uomo nel tendere con estrema facilità verso le forme più basse di piacere, alcune delle quali sono sempre e comunque illecite e costituiscono materia grave (si pensi, per esempio, a tutto il vastissimo campo dell’impurità) e che vanno represse e dominate a qualunque costo. Nessuno che non abbia fatto un buon allenamento, può vincere queste battaglie.
Guai, dunque, guai e ancora guai a chi si azzarda ad insegnare diversamente da queste sacrosante verità, inoppugnabili dal punto di vista dogmatico e ascetico, biblicamente fondate e insegnate e praticate dall’ininterrotta bimillenaria tradizione della Chiesa. Oggi da qualche parte si osa cianciare dell’inutilità o addirittura della peccaminosità della pratica della penitenza, specialmente corporale, sulla base dello specioso pretesto (di per sé, per la verità, non sbagliato) che anche il corpo sarebbe da rispettare e trattare bene in quanto creato da Dio e che Gesù Cristo avrebbe già fatto abbastanza penitenza per noi, così che farla sarebbe quasi offenderlo o dubitare dell’efficacia della sua passione. Si badi alla sottile astuzia che sta dietro questi ragionamenti tendenziosi, che si confuta solo con le argomentazioni da noi appena evidenziate, a commento di quanto insegnato, quanto mai opportunamente, da Papa Paolo VI. Si ricordino i moniti continui della Signora del cielo, che invita da due secoli gli uomini alla preghiera e alla penitenza, con crescente premura e insistenza. Ognuno è libero di scegliere da che parte stare: con la Chiesa e la Madonna o con qualche sciagurato uomo di Chiesa che insegna dottrine di uomini, trasformandosi in “maestro del nulla”. Sapendo che di questa, come di tutte le scelte morali, si dovrà rispondere al Signore; e che sbagliare in questa materia comporta gravissime conseguenze. In questa e nell’altra vita.
TERZO PRECETTO DELLA CHIESA: SANTIFICARE I GIORNI DI PENITENZA CON DIGIUNO E ASTINENZA
NON MANGIARE LA CARNE IL VENERDI E DIGIUNARE NEI GIORNI PRESCRITTI
L'attuale disciplina penitenziale della Chiesa
Il terzo precetto generale della Chiesa disciplina la santificazione canonica dei giorni di digiuno e di penitenza: “non mangiare la carne nel venerdì e negli altri giorni di astinenza e digiunare nei giorni prescritti”. Come si evince agevolmente dalla lettera del testo, si tratta delle due opere penitenziali del digiuno e dell’astinenza, la cui prassi, già ampiamente attestata sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento e raccomandata esplicitamente da Gesù, è universalmente attestata fin dai primordi del cristianesimo. La disciplina dei giorni penitenziali è andata variamente a comporsi lungo il corso della storia, conoscendo dei momenti caratterizzati da estrema severità alternati a regimi molto mitigati, quale è quello attualmente in vigore.
Prima di entrare nel merito e nel concreto della trattazione ci sembra opportuno far riferimento ad un importante documento del Magistero, la Costituzione apostolica “Paenitemini” di Papa Paolo VI, che individua i fondamenti dogmatici e scritturistici del dovere, per ogni cristiano, di “fare penitenza”. Vorremmo, in questa prima parte della trattazione relativa a questo precetto, citare i punti salienti della prima parte della Costituzione relativa ai fondamenti della penitenza, riservandocene il commento per le puntate successive. In un secondo momento citeremo i passaggi della seconda parte, dove il santo padre dà le disposizioni normative tuttora vincolanti nell’attuale disciplina ecclesiastica. I corsivi delle citazioni sono stati apposti dal sottoscritto.
Il Pontefice si preoccupa anzitutto di evidenziare l’origine biblica e veterotestamentaria del digiuno e delle opere di penitenza: “Nell’Antico Testamento si rivela con sempre maggiore ricchezza il senso religioso della penitenza. Anche se ad essa l’uomo ricorre per lo più dopo il peccato per placare l’ira divina, o in occasione di gravi calamità, o nell’imminenza di particolari pericoli, o comunque allo scopo di ottenere benefici dal Signore, possiamo tuttavia costatare come l’opera penitenziale esterna sia accompagnata da un atteggiamento interiore di «conversione», di condanna cioè e di distacco dal peccato e di tensione verso Dio. Ci si priva del cibo e ci si spoglia dei propri beni - il digiuno è generalmente accompagnato non solo dalla preghiera, ma anche dall’elemosina, - anche dopo che il peccato è stato perdonato, anche indipendentemente dalla domanda di grazie; si digiuna e si usa il cilicio per affliggere «la propria anima» (cf Lv 16,31), per umiliarsi al cospetto del proprio Dio (cf Dn 10,12), per volgere la faccia verso Iahvè, per disporsi con più facilità alla preghiera, per comprendere più intimamente le cose divine, per prepararsi all’incontro con Dio. La penitenza è quindi, già nell’Antico Testamento, un atto religioso, personale, che ha come termine l’amore e l’abbandono nel Signore: digiunare per Dio, non per se stessi”.
Più avanti il santo Padre mostra come Gesù in persona visse e insegnò la penitenza: “Cristo, che sempre nella sua vita fece ciò che insegnò, prima di iniziare il suo ministero, passò quaranta giorni e quaranta notti nella preghiera e nel digiuno, e inaugurò la sua missione pubblica col lieto messaggio: «Il regno di Dio è vicino», cui tosto aggiunse il comando: «Ravvedetevi e credete nel Vangelo» […]. L’invito del Figlio alla «metánoia» diviene più indeclinabile in quanto egli non soltanto la predica, ma offre anche esempio di penitenza. Cristo infatti è il modello supremo dei penitenti: ha voluto subire la pena per i peccati non suoi, ma degli altri”.
Dopo aver evidenziato la pratica e l’insegnamento del Maestro, ne spiega come la Chiesa sua sposa abbia recepito e vissuto tale importante aspetto della vita cristiana: “Dinanzi a Cristo, l’uomo è illuminato da una luce nuova, e per conseguenza riconosce sia la santità di Dio sia la malizia del peccato; attraverso la parola di Cristo gli viene trasmesso il messaggio che invita alla conversione e concede il perdono dei peccati, doni questi che egli pienamente consegue nel Battesimo. Tale sacramento, infatti, lo configura alla Passione, alla Morte e alla Risurrezione del Signore, e sotto il sigillo di questo mistero pone tutta la vita futura del battezzato.Seguendo perciò il divino Maestro, ogni cristiano deve rinnegare se stesso, prendere la propria croce, partecipare ai patimenti di Cristo; trasformato in tal modo in una immagine della sua morte, egli è reso capace di meritare la gloria della risurrezione. Seguendo inoltre il Maestro, dovrà non più vivere per se stesso, ma per colui che lo amò e diede se stesso per lui, e dovrà anche vivere per i fratelli, dando compimento «nella sua carne a ciò che manca alle tribolazioni di Cristo... a favore del suo corpo che è la Chiesa» (cf Col 1,24)”.
Davvero magistrale è, infine, la sintetica spiegazione dei fondamenti dogmatici, antropologici e morali del dovere per il cristiano di fare penitenza: “Il carattere preminentemente interiore e religioso della penitenza, e i nuovi mirabili aspetti che in Cristo e nella Chiesa essa assume, non escludono né attenuano in alcun modo la pratica esterna di tale virtù, anzi ne richiamano con particolare urgenza la necessità e spingono la Chiesa, attenta sempre ai segni dei tempi, a cercare, oltre l’astinenza e il digiuno, espressioni nuove, più atte a realizzare, secondo l’indole delle diverse epoche, il fine stesso della penitenza. La vera penitenza però non può prescindere, in nessun tempo, da una ascesi anche fisica: tutto il nostro essere, infatti, anima e corpo, anzi tutta la natura, anche gli animali senza ragione, come ricorda spesso la Sacra Scrittura, deve partecipare attivamente a questo atto religioso con cui la creatura riconosce la santità e maestà divina. La necessità poi della mortificazione del corpo appare chiaramente se si considera la fragilità della nostra natura, nella quale, dopo il peccato di Adamo, la carne e lo spirito hanno desideri contrari tra loro. Tale esercizio di mortificazione del corpo, ben lontano da ogni forma di stoicismo, non implica una condanna della carne, che il Figlio di Dio si è degnato di assumere; anzi, la mortificazione mira alla «liberazione» dell’uomo, che spesso si trova, a motivo della concupiscenza, quasi incatenato dalla parte sensitiva del proprio essere; attraverso il «digiuno corporale» l’uomo riacquista vigore e «la ferita inferta alla dignità della nostra natura dall’intemperanza, viene curata dalla medicina di una salutare astinenza» (Messale Romano di S. Pio V, Colletta della feria V dopo la I domenica di Passione)”.
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I fondamenti dogmatici, ascetici e spirituali della penitenza cristiana, oggi ahimé, SONO non di rado trascurati quando non proprio dimenticati o addirittura contestati. Processo questo che iniziò, disgraziatamente, in concomitanza con la celebrazione e la conclusione del Concilio Vaticano II, non certo per colpa o a causa di inesistenti “nuove dottrine” formulate in merito dal Concilio, ma per quella malaugurata tendenza ad attribuire al Concilio cose che non ha mai detto in nome di un’ermeneutica della “discontinuità” contro cui ha dovuto lottare strenuamente il papa emerito Benedetto XVI. In questo senso assai significativa è la data di promulgazione della Costituzione: 17 Febbraio del 1966, solo pochi mesi dopo la chiusura del Concilio.
Contro i novelli propugnatori dell’antico errore luterano del “sola Scriptura”, il pontefice si preoccupò subito di evidenziare i fondamenti biblici della penitenza. Digiuno, preghiera e elemosina sono ampiamente attestati e praticati sin dall’Antico Testamento con queste motivazioni: placare l’ira divina dopo il peccato, ottenere grazie e benefici dal Signore, accompagnare con gesti penitenziali esteriori il cammino interiore di rinuncia e distacco dal peccato, disporre l’anima ad una più profonda intimità e unione con Dio. Nell’Antico Testamento sono attestate le pratiche penitenziali di indossare il cilicio (cf Gen 37,34; 2Mac 3,19; Gl 1,13) di coprirsi il capo di cenere (cf Gdt 9,1; Est 4,1; Lam 2,13), di dormire per terra (Sal 131,3) e di indossare come veste un sacco (cf Ne 9,1; Is 37,). Né più né meno di ciò che fece san Francesco (e tanti santi hanno fatto e fanno prima e dopo di lui).
Nostro Signore Gesù Cristo fu il penitente per antonomasia (“il modello supremo dei penitenti”): oltre all’umiltà, il lavoro e il nascondimento obbediente e sottomesso dei trent’anni di vita a Nazareth, abbiamo l’inizio della vita pubblica inaugurato dal grande digiuno di 40 giorni, la sua predicazione esplicita sulle opere penitenziali e sul digiuno in particolare (cf Mt 6,16 ss; Lc 5,33 ss), ma soprattutto le pene acerbissime della passione a cui si sottopose come vittima di espiazione per i peccati del mondo intero (cf 1Gv 2,2).
I discepoli di Gesù hanno ben compreso questo esempio e si sono, da sempre, uniti al mistero della passione di Gesù infliggendosi penitenze e mortificazioni volontarie (si legga l’elenco delle penitenze compiute da san Paolo in 2 Cor 11,24-27, dove l’Apostolo parla, tra l’altro, di “veglie senza numero e frequenti digiuni”), sia per le motivazioni già note nell’Antico Testamento, sia per le due “nuove” motivazioni tipicamente neotestamentarie: anzitutto l’imitazione di Cristo e inoltre, secondo le parole di san Paolo, “completare nella propria carne quello che manca ai patimenti di Cristo in favore del suo corpo che è la Chiesa” (cf Col 1,24). Un motivo, quest’ultimo, assolutamente inedito, che richiama la novità del digiuno cristiano annunziata da Gesù (cf Mt 9,14-17) e che consiste nell’offrirsi, insieme al Maestro, non solo in penitenza per i peccati propri ma per espiare i peccati altrui, contribuendo alla conversione dei peccatori e alla riparazione dei debiti contratti dall’umanità peccatrice con la divina giustizia. È questo il “vino nuovo in otri nuovi?”, ovvero lo spirito nuovo con cui gli uomini nuovi (i cristiani rinati da acqua e da spirito) compiono le opere penitenziali? A parere di chi scrive sembrerebbe proprio di sì.
Dal punto di vista prettamente ascetico–dogmatico, tuttavia, insieme a tutte queste nobilissime e altissime finalità della penitenza, ce n’è una, radicata nella visione antropologica cristiana dell’uomo, che fa comprendere come la penitenza sia non solo utile e raccomandabile ma assolutamente necessaria: la condizione decaduta dell’uomo a causa della colpa d’origine, che ha ferito la natura umana inclinandola inesorabilmente e costantemente verso il male e il basso, ferita che nemmeno il sacramento del Battesimo chiude e rimargina e che rimane aperta e infetta fino a quando l’uomo vive la vita terrena. Questa tendenza “al basso” comporta un’inclinazione naturale verso i piaceri dei sensi, alcuni dei quali sono leciti e altri illeciti. Dinanzi ad essi l’uomo si trova in situazione di estrema debolezza, per cui facilmente cade nel godimento dei piaceri illeciti (si pensi ai piaceri venerei al di fuori del matrimonio) e altrettanto facilmente supera la misura e la moderazione in quelli leciti (si pensi ai piaceri della tavola e al vizio capitale della gola). La mortificazione e la penitenza, in questo senso, svolgono il compito di fortificare la volontà e abituare la persona ad abbracciare la croce, in modo tale che possa essere più forte e risoluta nel combattimento spirituale che bisogna affrontare contro i nemici dell’anima (anzitutto la carne, poi il mondo e il demonio). La “carne”, infatti, non va identificata “sic et simpliciter” con il corpo, ma nella teologia paolina esprime esattamente la debolezza dell’uomo nel tendere con estrema facilità verso le forme più basse di piacere, alcune delle quali sono sempre e comunque illecite e costituiscono materia grave (si pensi, per esempio, a tutto il vastissimo campo dell’impurità) e che vanno represse e dominate a qualunque costo. Nessuno che non abbia fatto un buon allenamento, può vincere queste battaglie.
Guai, dunque, guai e ancora guai a chi si azzarda ad insegnare diversamente da queste sacrosante verità, inoppugnabili dal punto di vista dogmatico e ascetico, biblicamente fondate e insegnate e praticate dall’ininterrotta bimillenaria tradizione della Chiesa. Oggi da qualche parte si osa cianciare dell’inutilità o addirittura della peccaminosità della pratica della penitenza, specialmente corporale, sulla base dello specioso pretesto (di per sé, per la verità, non sbagliato) che anche il corpo sarebbe da rispettare e trattare bene in quanto creato da Dio e che Gesù Cristo avrebbe già fatto abbastanza penitenza per noi, così che farla sarebbe quasi offenderlo o dubitare dell’efficacia della sua passione. Si badi alla sottile astuzia che sta dietro questi ragionamenti tendenziosi, che si confuta solo con le argomentazioni da noi appena evidenziate, a commento di quanto insegnato, quanto mai opportunamente, da Papa Paolo VI. Si ricordino i moniti continui della Signora del cielo, che invita da due secoli gli uomini alla preghiera e alla penitenza, con crescente premura e insistenza. Ognuno è libero di scegliere da che parte stare: con la Chiesa e la Madonna o con qualche sciagurato uomo di Chiesa che insegna dottrine di uomini, trasformandosi in “maestro del nulla”. Sapendo che di questa, come di tutte le scelte morali, si dovrà rispondere al Signore; e che sbagliare in questa materia comporta gravissime conseguenze. In questa e nell’altra vita.