I CINQUE PRECETTI GENERALI DELLA CHIESA
QUARTO PRECETTO: SOVVENIRE ALLE NECESSITÀ DELLA CHIESA SECONDO LE PROPRIE POSSIBILITÀ
Il quarto precetto generale della Chiesa regola il dovere di tutti i fedeli di partecipare, in modo proporzionato alle proprie possibilità, alle necessità materiali della Chiesa, affinché essa possa svolgere la sua missione evangelizzatrice, missionaria, pastorale e caritativa nel mondo. L’argomento è di quelli scottanti e anche su questo c’è tanto pressappochismo unito a scarsissima formazione (e informazione) da parte di non pochi fedeli. Peraltro alcune “leggende nere” collegate a recenti fatti di cronaca, contribuiscono ulteriormente a creare confusione e disinformazione su questo argomento.
Diciamo subito, per sgombrare immediatamente il campo da possibili equivoci, che il messaggio cristiano non ha assolutamente nulla a che fare né con il comunismo né con il pauperismo. La proprietà privata è lecita e conforme al disegno di Dio, non altera il principio della destinazione universale dei beni, la povertà evangelica è un consiglio e non un obbligo da vivere effettivamente da parte di tutti, e non è affatto vera l’equazione ricchi = peccatori incalliti, praticamente dannati e poveri = giusti sfruttati e perseguitati, sicuri abitatori futuri del cielo. Il migliore amico di Gesù, Lazzaro, figlio del governatore della Siria Teofilo, non era certo un poveraccio (anzi!) e le eresie nate nel corso della bimillenaria storia della Chiesa da un’esasperazione rigida e apodittica della povertà evangelica non si possono contare. La Chiesa ha sempre insegnato che i beni, anche materiali (compresi i soldi), sono “beni”, certamente temporali e da doversi impiegare al servizio del bene (cosa tutt’altro che scontata), ma pur sempre “beni”. Certamente, a causa della condizione decaduta dell’uomo, l’avidità di beni e di denaro, la tendenza all’accumulo egoistico di essi con totale chiusura del cuore alle necessità del prossimo, rappresentano un pericolo assai reale, come insegna l’episodio evangelico del giovane ricco con il conseguente insegnamento di Gesù circa i pericoli delle ricchezze (cf Mt 19,16-30 e paralleli) e l’analogo episodio dell’anonimo ricco epulone, condannato all’Inferno per la sua totale chiusura di cuore alle necessità del povero derelitto Lazzaro (Lc 16,19-31). Ma su questa, come su altre materie, il fedele cristiano deve formarsi e imparare, anche grazie all’ascesi e alla mortificazione, un uso buono e santo del denaro e dei beni materiali, consapevole del fatto che, se non sono certamente i principali e i più grandi, sono al tempo stesso indispensabili per sovvenire alle necessità e agli impegni della vita in questo mondo. Uso santo che consiste nel trattenere per sé e per la propria famiglia tutto ciò che è necessario ad una vita decorosa e dignitosa, senza indulgere a lussi gratuiti o esagerati, riservando il sovrappiù alle due destinazioni da sempre praticate e raccomandate dai maestri di spirito: le necessità dei poveri e i bisogni della Chiesa.
Il Nuovo Testamento ci fornisce numerosi esempi di questa primitiva presa di coscienza ecclesiale dell’importanza di quest’argomento e di come la carità, necessariamente, dovesse abbracciare anche queste dimensioni “concrete e terrene” dell’esistenza umana. I primi sette diaconi furono, infatti, istituiti per il “servizio delle mense” (cf Atti degli Apostoli, cap. 6), ovvero quella prima embrionale forma di carità con cui la Chiesa, attraverso le risorse di tutti i fedeli, sopperiva alla condizione di indigenza o miseria di alcuni suoi membri. Un fenomeno, questo, non solo circoscritto a livello locale (la Chiesa di Gerusalemme), ma praticato anche a livello “inter-ecclesiale”, come forma di solidarietà con cui le Chiese più ricche sovvenivano alle necessità delle comunità più povere. La famosa “colletta” organizzata da san Paolo a Corinto per una chiesa sorella, ne è solo uno tra i tanti esempi emblematici attestati dalle fonti (Cf Seconda lettera ai Corinzi, capitoli 8 e 9). Sono, inoltre, note e attestate dal secondo capitolo degli Atti degli apostoli alcune consuetudini sorte spontaneamente nella comunità primitiva di Gerusalemme, quali quella di tenere alcune cose in comune o di vendere alcuni beni per condividere il ricavato con chi era privo del necessario. Infine san Paolo ricorda ai Corinzi come le spese per il suo sostentamento durante la missione nella loro comunità furono sostenute dalla Chiesa di Macedonia, per evitare che qualcuno potesse pensare che l’azione missionaria dell’Apostolo fosse mossa da fini non nobili e intenzioni non buone (cf 2Cor 11,7ss).
Sulla base di quanto emerso da questo primo excursus, possiamo enucleare i seguenti principi fondamentali circa la dottrina ecclesiale sui beni temporali. La Chiesa ha sempre realisticamente compreso la necessità dei beni materiali per questa vita, ripudiando inopportuni angelismi o pauperismi. Ha promosso nella coscienza dei fedeli, anche accogliendo alcuni liberi atti eroici (come la vendita di beni propri a scopo caritativo), la formazione su questo punto, insegnando che fa parte della sacrosanta “comunione dei santi” anche la disponibilità a condividere generosamente il denaro e i beni temporali e materiali. Consapevole dell’importanza fondamentale della missione apostolica e del fatto che gli apostoli, per quanto santi e asceti, avevano (e hanno) bisogno almeno del necessario per mangiare, vestirsi e quant’altro occorre per lo svolgimento della loro missione, non ha esitato a promuovere una particolare sensibilità missionaria, accettando che le comunità cristiane si facessero carico delle esigenze economiche insite nella missione apostolica, sulla base dell’adagio evangelico del Signore secondo il quale “l’operaio ha diritto alla sua mercede” (Lc 10,7). La Chiesa, infine, ha promosso fin dalle origini delle “strutture istituzionali” che potessero provvedere in forma stabile e organizzata alle necessità dei poveri e degli indigenti della comunità.
Come si può agevolmente vedere, le moderne “conquiste” degli Stati sociali e del cosiddetto “Welfare” hanno antenati ben lontani, che fanno comprendere come la Chiesa ha svolto una funzione educatrice del mondo dal di dentro, in questo come in tanti altri settori del vivere, acquisendo degli evidentissimi meriti che non possono essere in nessun modo misconosciuti e che dovrebbero indurre ad estrema cautela chi non fa altro che gettare fango o sparare a vuoto sulla Chiesa e sulla sua missione nel mondo.
Chiarito che “i soldi servono per vivere” – fermo restando che non si vive per i soldi – dovrebbe apparire evidente che sia il denaro sia il possesso di alcuni beni temporali sono essenziali, anzi imprescindibili, perché la Chiesa possa compiere la sua missione. Gli uomini di Chiesa che sono chiamati ad amministrare questo patrimonio dovranno certamente agire con molto scrupolo e rettitudine perché il buon uso dei beni sia effettivamente osservato e dovranno rendere conto al Signore qualora ci fossero distorsioni o sbavature nell’adempimento di questo delicato mandato. Tuttavia di essi la Chiesa non può fare a meno, salvo omettere di compiere la sua missione. Essa, stante la volontà del suo Fondatore, consiste essenzialmente e principalmente nell’evangelizzazione del mondo intero: “andate in tutto il mondo e annunciate il Vangelo ad ogni creatura” (Mt 28,16). Tutto il resto viene dopo e in subordine, perfino il dovere di sovvenire – anche materialmente – chi versasse in condizioni di povertà materiale. La Chiesa, infatti, non è una Onlus che si occupa di assistenza materiale né una sorta di “Caritas mondiale”. Essa esiste per portare al mondo la salvezza, cosa che passa per l’annuncio del Vangelo, ovvero del bisogno che ogni uomo ha di essere redento e salvato dal peccato – unico e vero male universale e nefasto – e che questa salvezza viene dalla conversione a Cristo e dall’accettazione di Lui, del Suo messaggio e dei mezzi salvifici che Egli ha istituito e che sono amministrati dalla Chiesa, da Lui fondata, che ne continua in ogni tempo e in ogni luogo la missione redentrice. Evidentemente per svolgere questa missione la Chiesa ha bisogno di mezzi e di denaro: i missionari, per quanto morigerati, hanno bisogno almeno di mangiare e coprirsi e di un tetto dove riposare; i mezzi di trasporto costano; gli edifici di culto devono essere costruiti, amministrati e mantenuti; e così via. L’attuale clima di pauperismo dilagante, purtroppo, ha l’effetto di obnubilare non di rado qualche mente e di indurire qualche cuore, per cui tende a ingenerarsi una strana mentalità in base alla quale “dare i soldi alla Chiesa” sarebbe inutile o addirittura quasi peccaminoso, in quanto sottrarrebbe le risorse all’unica finalità per cui, secondo un certo pensiero comune, dovrebbero essere destinati: le necessità dei poveri.
Eppure nei Vangeli si trova un episodio (uno dei rarissimi casi attestati in tutti e quattro i Vangeli, i sinottici e quello di san Giovanni) dove Gesù in persona cerca di formare rettamente le coscienze dei suoi discepoli, che pur mantenendo alta la sensibilità verso il problema della povertà (Lui stesso si è identificato con i poveri ed è vissuto poveramente) non devono contrapporla ingenuamente alle esigenze connesse al servizio di Dio e della sua causa. Si tratta del famoso episodio dell’unzione di Betania in cui, nella redazione di san Giovanni (cf Gv 12), si fanno anche nomi e cognomi dei protagonisti. Maria, sorella di Lazzaro (identificata dalla tradizione con colei che, prima della conversione, era Maria di Magdala, la peccatrice di cui si parla nel settimo capitolo del Vangelo di san Luca), rompe un vasetto contenente un unguento del valore di 300 denari per ungere Gesù. La stima del valore fu fatta in estemporanea da Giuda Iscariota, che la redarguì per aver sprecato tale somma che avrebbe potuto (e, secondo lui, dovuto) essere riservata ai poveri. Gesù difese Maria e ammonì Giuda, ricordando che i poveri sarebbero sempre stati con noi e sarebbe sempre stato possibile trovare modo e tempo di beneficarli, ma non per questo non si sarebbe potuto (e dovuto) riservare beni e denaro per Lui. Con questo il Signore dava una duplice ammonizione. La prima era quella di dimenticarsi eventuali soluzioni “definitive” del problema della povertà (“i poveri sono sempre con voi”), che, in questo mondo, non ci saranno. Solo la carità e le opere di misericordia contribuiranno a lenire, nel corso della storia, le sempre nuove e variegate forma di povertà, che nessun sistema politico, soluzione economica e nemmeno impegno caritativo ecclesiale potrà mai del tutto eliminare. La seconda era quella di non cadere nella trappola di riservare al Signore sempre il minimo o gli “scarti”. Se si pensa che, a detta degli interpreti, un denaro era (a quei tempi) la paga giornaliera di un operaio a giornata (basti pensare alla parabola dell’operaio dell’ultima ora per rendersene conto), 300 denari erano equivalenti a quasi un anno di stipendio di un operaio… Se volessimo tentare un’equivalenza in euro, considerando almeno 50 euro al giorno come paga di un salariato, avremmo un valore di 15000 euro (50 x 300) per questo famoso unguento usato per ungere Gesù… Diciamoci la verità: quanti di noi si sarebbero associati all’espressione mista di stupore e sdegno di Giuda Iscariota (sarà un caso che l’ha pronunciata proprio lui…)? Eppure Gesù non l’ha sottoscritta, prendendo per contro le difese di Maria, che aveva compreso come al Signore e, analogicamente, alla Sua causa va sempre riservato il meglio e le primizie. I santi hanno sempre osservato questa regola, vivendo a volte una povertà estrema per sé, ma esigendo una grande magnificenza quando lo richiedeva, per esempio, il decoro del culto o dei luoghi sacri. Si pensi a quante chiese furono restaurate e abbellite dai frati di san Francesco e al fatto che questi esigeva che i vasi sacri fossero di metallo prezioso, preferibilmente d’oro, lui che per se stesso si privava perfino dei sandali per camminare! Oppure allo stile del santo Curato d’Ars che girava con una talare ampiamente al di sotto del limite della decenza, ma spendeva e spandeva per restaurare la sua chiesetta (attingendo ampiamente dal suo…) o per l’acquisto di paramenti sacri raffinatissimi e costosissimi, tanto da suscitare lo stupore dei venditori che pensavano che quel prete trasandato e povero non avrebbe avuto di che pagare tanto ben di Dio… Speriamo che dietro tante preoccupazioni un po’ troppo accorate e dietro tanti moralismi inopportuni non si celi un novello spirito di Giuda Iscariota, che si stracciò le vesti per i 300 denari impiegati per ungere Gesù e non si vergognò di venderlo (solo qualche giorno dopo) per un decimo (trenta denari…). Cura per Gesù, per il culto e per la missione della Chiesa vanno perfettamente d’accordo con la cura dei poveri. Come gli esempi di Gesù e dei santi – di tutti i santi – hanno sempre mostrato e dimostrato…
QUARTO PRECETTO: SOVVENIRE ALLE NECESSITÀ DELLA CHIESA SECONDO LE PROPRIE POSSIBILITÀ
Il quarto precetto generale della Chiesa regola il dovere di tutti i fedeli di partecipare, in modo proporzionato alle proprie possibilità, alle necessità materiali della Chiesa, affinché essa possa svolgere la sua missione evangelizzatrice, missionaria, pastorale e caritativa nel mondo. L’argomento è di quelli scottanti e anche su questo c’è tanto pressappochismo unito a scarsissima formazione (e informazione) da parte di non pochi fedeli. Peraltro alcune “leggende nere” collegate a recenti fatti di cronaca, contribuiscono ulteriormente a creare confusione e disinformazione su questo argomento.
Diciamo subito, per sgombrare immediatamente il campo da possibili equivoci, che il messaggio cristiano non ha assolutamente nulla a che fare né con il comunismo né con il pauperismo. La proprietà privata è lecita e conforme al disegno di Dio, non altera il principio della destinazione universale dei beni, la povertà evangelica è un consiglio e non un obbligo da vivere effettivamente da parte di tutti, e non è affatto vera l’equazione ricchi = peccatori incalliti, praticamente dannati e poveri = giusti sfruttati e perseguitati, sicuri abitatori futuri del cielo. Il migliore amico di Gesù, Lazzaro, figlio del governatore della Siria Teofilo, non era certo un poveraccio (anzi!) e le eresie nate nel corso della bimillenaria storia della Chiesa da un’esasperazione rigida e apodittica della povertà evangelica non si possono contare. La Chiesa ha sempre insegnato che i beni, anche materiali (compresi i soldi), sono “beni”, certamente temporali e da doversi impiegare al servizio del bene (cosa tutt’altro che scontata), ma pur sempre “beni”. Certamente, a causa della condizione decaduta dell’uomo, l’avidità di beni e di denaro, la tendenza all’accumulo egoistico di essi con totale chiusura del cuore alle necessità del prossimo, rappresentano un pericolo assai reale, come insegna l’episodio evangelico del giovane ricco con il conseguente insegnamento di Gesù circa i pericoli delle ricchezze (cf Mt 19,16-30 e paralleli) e l’analogo episodio dell’anonimo ricco epulone, condannato all’Inferno per la sua totale chiusura di cuore alle necessità del povero derelitto Lazzaro (Lc 16,19-31). Ma su questa, come su altre materie, il fedele cristiano deve formarsi e imparare, anche grazie all’ascesi e alla mortificazione, un uso buono e santo del denaro e dei beni materiali, consapevole del fatto che, se non sono certamente i principali e i più grandi, sono al tempo stesso indispensabili per sovvenire alle necessità e agli impegni della vita in questo mondo. Uso santo che consiste nel trattenere per sé e per la propria famiglia tutto ciò che è necessario ad una vita decorosa e dignitosa, senza indulgere a lussi gratuiti o esagerati, riservando il sovrappiù alle due destinazioni da sempre praticate e raccomandate dai maestri di spirito: le necessità dei poveri e i bisogni della Chiesa.
Il Nuovo Testamento ci fornisce numerosi esempi di questa primitiva presa di coscienza ecclesiale dell’importanza di quest’argomento e di come la carità, necessariamente, dovesse abbracciare anche queste dimensioni “concrete e terrene” dell’esistenza umana. I primi sette diaconi furono, infatti, istituiti per il “servizio delle mense” (cf Atti degli Apostoli, cap. 6), ovvero quella prima embrionale forma di carità con cui la Chiesa, attraverso le risorse di tutti i fedeli, sopperiva alla condizione di indigenza o miseria di alcuni suoi membri. Un fenomeno, questo, non solo circoscritto a livello locale (la Chiesa di Gerusalemme), ma praticato anche a livello “inter-ecclesiale”, come forma di solidarietà con cui le Chiese più ricche sovvenivano alle necessità delle comunità più povere. La famosa “colletta” organizzata da san Paolo a Corinto per una chiesa sorella, ne è solo uno tra i tanti esempi emblematici attestati dalle fonti (Cf Seconda lettera ai Corinzi, capitoli 8 e 9). Sono, inoltre, note e attestate dal secondo capitolo degli Atti degli apostoli alcune consuetudini sorte spontaneamente nella comunità primitiva di Gerusalemme, quali quella di tenere alcune cose in comune o di vendere alcuni beni per condividere il ricavato con chi era privo del necessario. Infine san Paolo ricorda ai Corinzi come le spese per il suo sostentamento durante la missione nella loro comunità furono sostenute dalla Chiesa di Macedonia, per evitare che qualcuno potesse pensare che l’azione missionaria dell’Apostolo fosse mossa da fini non nobili e intenzioni non buone (cf 2Cor 11,7ss).
Sulla base di quanto emerso da questo primo excursus, possiamo enucleare i seguenti principi fondamentali circa la dottrina ecclesiale sui beni temporali. La Chiesa ha sempre realisticamente compreso la necessità dei beni materiali per questa vita, ripudiando inopportuni angelismi o pauperismi. Ha promosso nella coscienza dei fedeli, anche accogliendo alcuni liberi atti eroici (come la vendita di beni propri a scopo caritativo), la formazione su questo punto, insegnando che fa parte della sacrosanta “comunione dei santi” anche la disponibilità a condividere generosamente il denaro e i beni temporali e materiali. Consapevole dell’importanza fondamentale della missione apostolica e del fatto che gli apostoli, per quanto santi e asceti, avevano (e hanno) bisogno almeno del necessario per mangiare, vestirsi e quant’altro occorre per lo svolgimento della loro missione, non ha esitato a promuovere una particolare sensibilità missionaria, accettando che le comunità cristiane si facessero carico delle esigenze economiche insite nella missione apostolica, sulla base dell’adagio evangelico del Signore secondo il quale “l’operaio ha diritto alla sua mercede” (Lc 10,7). La Chiesa, infine, ha promosso fin dalle origini delle “strutture istituzionali” che potessero provvedere in forma stabile e organizzata alle necessità dei poveri e degli indigenti della comunità.
Come si può agevolmente vedere, le moderne “conquiste” degli Stati sociali e del cosiddetto “Welfare” hanno antenati ben lontani, che fanno comprendere come la Chiesa ha svolto una funzione educatrice del mondo dal di dentro, in questo come in tanti altri settori del vivere, acquisendo degli evidentissimi meriti che non possono essere in nessun modo misconosciuti e che dovrebbero indurre ad estrema cautela chi non fa altro che gettare fango o sparare a vuoto sulla Chiesa e sulla sua missione nel mondo.
Chiarito che “i soldi servono per vivere” – fermo restando che non si vive per i soldi – dovrebbe apparire evidente che sia il denaro sia il possesso di alcuni beni temporali sono essenziali, anzi imprescindibili, perché la Chiesa possa compiere la sua missione. Gli uomini di Chiesa che sono chiamati ad amministrare questo patrimonio dovranno certamente agire con molto scrupolo e rettitudine perché il buon uso dei beni sia effettivamente osservato e dovranno rendere conto al Signore qualora ci fossero distorsioni o sbavature nell’adempimento di questo delicato mandato. Tuttavia di essi la Chiesa non può fare a meno, salvo omettere di compiere la sua missione. Essa, stante la volontà del suo Fondatore, consiste essenzialmente e principalmente nell’evangelizzazione del mondo intero: “andate in tutto il mondo e annunciate il Vangelo ad ogni creatura” (Mt 28,16). Tutto il resto viene dopo e in subordine, perfino il dovere di sovvenire – anche materialmente – chi versasse in condizioni di povertà materiale. La Chiesa, infatti, non è una Onlus che si occupa di assistenza materiale né una sorta di “Caritas mondiale”. Essa esiste per portare al mondo la salvezza, cosa che passa per l’annuncio del Vangelo, ovvero del bisogno che ogni uomo ha di essere redento e salvato dal peccato – unico e vero male universale e nefasto – e che questa salvezza viene dalla conversione a Cristo e dall’accettazione di Lui, del Suo messaggio e dei mezzi salvifici che Egli ha istituito e che sono amministrati dalla Chiesa, da Lui fondata, che ne continua in ogni tempo e in ogni luogo la missione redentrice. Evidentemente per svolgere questa missione la Chiesa ha bisogno di mezzi e di denaro: i missionari, per quanto morigerati, hanno bisogno almeno di mangiare e coprirsi e di un tetto dove riposare; i mezzi di trasporto costano; gli edifici di culto devono essere costruiti, amministrati e mantenuti; e così via. L’attuale clima di pauperismo dilagante, purtroppo, ha l’effetto di obnubilare non di rado qualche mente e di indurire qualche cuore, per cui tende a ingenerarsi una strana mentalità in base alla quale “dare i soldi alla Chiesa” sarebbe inutile o addirittura quasi peccaminoso, in quanto sottrarrebbe le risorse all’unica finalità per cui, secondo un certo pensiero comune, dovrebbero essere destinati: le necessità dei poveri.
Eppure nei Vangeli si trova un episodio (uno dei rarissimi casi attestati in tutti e quattro i Vangeli, i sinottici e quello di san Giovanni) dove Gesù in persona cerca di formare rettamente le coscienze dei suoi discepoli, che pur mantenendo alta la sensibilità verso il problema della povertà (Lui stesso si è identificato con i poveri ed è vissuto poveramente) non devono contrapporla ingenuamente alle esigenze connesse al servizio di Dio e della sua causa. Si tratta del famoso episodio dell’unzione di Betania in cui, nella redazione di san Giovanni (cf Gv 12), si fanno anche nomi e cognomi dei protagonisti. Maria, sorella di Lazzaro (identificata dalla tradizione con colei che, prima della conversione, era Maria di Magdala, la peccatrice di cui si parla nel settimo capitolo del Vangelo di san Luca), rompe un vasetto contenente un unguento del valore di 300 denari per ungere Gesù. La stima del valore fu fatta in estemporanea da Giuda Iscariota, che la redarguì per aver sprecato tale somma che avrebbe potuto (e, secondo lui, dovuto) essere riservata ai poveri. Gesù difese Maria e ammonì Giuda, ricordando che i poveri sarebbero sempre stati con noi e sarebbe sempre stato possibile trovare modo e tempo di beneficarli, ma non per questo non si sarebbe potuto (e dovuto) riservare beni e denaro per Lui. Con questo il Signore dava una duplice ammonizione. La prima era quella di dimenticarsi eventuali soluzioni “definitive” del problema della povertà (“i poveri sono sempre con voi”), che, in questo mondo, non ci saranno. Solo la carità e le opere di misericordia contribuiranno a lenire, nel corso della storia, le sempre nuove e variegate forma di povertà, che nessun sistema politico, soluzione economica e nemmeno impegno caritativo ecclesiale potrà mai del tutto eliminare. La seconda era quella di non cadere nella trappola di riservare al Signore sempre il minimo o gli “scarti”. Se si pensa che, a detta degli interpreti, un denaro era (a quei tempi) la paga giornaliera di un operaio a giornata (basti pensare alla parabola dell’operaio dell’ultima ora per rendersene conto), 300 denari erano equivalenti a quasi un anno di stipendio di un operaio… Se volessimo tentare un’equivalenza in euro, considerando almeno 50 euro al giorno come paga di un salariato, avremmo un valore di 15000 euro (50 x 300) per questo famoso unguento usato per ungere Gesù… Diciamoci la verità: quanti di noi si sarebbero associati all’espressione mista di stupore e sdegno di Giuda Iscariota (sarà un caso che l’ha pronunciata proprio lui…)? Eppure Gesù non l’ha sottoscritta, prendendo per contro le difese di Maria, che aveva compreso come al Signore e, analogicamente, alla Sua causa va sempre riservato il meglio e le primizie. I santi hanno sempre osservato questa regola, vivendo a volte una povertà estrema per sé, ma esigendo una grande magnificenza quando lo richiedeva, per esempio, il decoro del culto o dei luoghi sacri. Si pensi a quante chiese furono restaurate e abbellite dai frati di san Francesco e al fatto che questi esigeva che i vasi sacri fossero di metallo prezioso, preferibilmente d’oro, lui che per se stesso si privava perfino dei sandali per camminare! Oppure allo stile del santo Curato d’Ars che girava con una talare ampiamente al di sotto del limite della decenza, ma spendeva e spandeva per restaurare la sua chiesetta (attingendo ampiamente dal suo…) o per l’acquisto di paramenti sacri raffinatissimi e costosissimi, tanto da suscitare lo stupore dei venditori che pensavano che quel prete trasandato e povero non avrebbe avuto di che pagare tanto ben di Dio… Speriamo che dietro tante preoccupazioni un po’ troppo accorate e dietro tanti moralismi inopportuni non si celi un novello spirito di Giuda Iscariota, che si stracciò le vesti per i 300 denari impiegati per ungere Gesù e non si vergognò di venderlo (solo qualche giorno dopo) per un decimo (trenta denari…). Cura per Gesù, per il culto e per la missione della Chiesa vanno perfettamente d’accordo con la cura dei poveri. Come gli esempi di Gesù e dei santi – di tutti i santi – hanno sempre mostrato e dimostrato…