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I CINQUE PRECETTI GENERALI DELLA CHIESA                         QUARTO PRECETTO: SOVVENIRE ALLE NECESSITÀ DELLA CHIESA SECONDO LE PROPRIE POSSIBILITÀ

16/10/2014

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I CINQUE PRECETTI GENERALI DELLA CHIESA

QUARTO PRECETTO: SOVVENIRE ALLE NECESSITÀ DELLA CHIESA SECONDO LE PROPRIE POSSIBILITÀ

Il quarto precetto generale della Chiesa regola il dovere di tutti i fedeli di partecipare, in modo proporzionato alle proprie possibilità, alle necessità materiali della Chiesa, affinché essa possa svolgere la sua missione evangelizzatrice, missionaria, pastorale e caritativa nel mondo. L’argomento è di quelli scottanti e anche su questo c’è tanto pressappochismo unito a scarsissima formazione (e informazione) da parte di non pochi fedeli. Peraltro alcune “leggende nere” collegate a recenti fatti di cronaca, contribuiscono ulteriormente a creare confusione e disinformazione su questo argomento.

Diciamo subito, per sgombrare immediatamente il campo da possibili equivoci, che il messaggio cristiano non ha assolutamente nulla a che fare né con il comunismo né con il pauperismo. La proprietà privata è lecita e conforme al disegno di Dio, non altera il principio della destinazione universale dei beni, la povertà evangelica è un consiglio e non un obbligo da vivere effettivamente da parte di tutti, e non è affatto vera l’equazione ricchi = peccatori incalliti, praticamente dannati e poveri = giusti sfruttati e perseguitati, sicuri abitatori futuri del cielo. Il migliore amico di Gesù, Lazzaro, figlio del governatore della Siria Teofilo, non era certo un poveraccio (anzi!) e le eresie nate nel corso della bimillenaria storia della Chiesa da un’esasperazione rigida e apodittica della povertà evangelica non si possono contare. La Chiesa ha sempre insegnato che i beni, anche materiali (compresi i soldi), sono “beni”, certamente temporali e da doversi impiegare al servizio del bene (cosa tutt’altro che scontata), ma pur sempre “beni”. Certamente, a causa della condizione decaduta dell’uomo, l’avidità di beni e di denaro, la tendenza all’accumulo egoistico di essi con totale chiusura del cuore alle necessità del prossimo, rappresentano un pericolo assai reale, come insegna l’episodio evangelico del giovane ricco con il conseguente insegnamento di Gesù circa i pericoli delle ricchezze (cf Mt 19,16-30 e paralleli) e l’analogo episodio dell’anonimo ricco epulone, condannato all’Inferno per la sua totale chiusura di cuore alle necessità del povero derelitto Lazzaro (Lc 16,19-31). Ma su questa, come su altre materie, il fedele cristiano deve formarsi e imparare, anche grazie all’ascesi e alla mortificazione, un uso buono e santo del denaro e dei beni materiali, consapevole del fatto che, se non sono certamente i principali e i più grandi, sono al tempo stesso indispensabili per sovvenire alle necessità e agli impegni della vita in questo mondo. Uso santo che consiste nel trattenere per sé e per la propria famiglia tutto ciò che è necessario ad una vita decorosa e dignitosa, senza indulgere a lussi gratuiti o esagerati, riservando il sovrappiù alle due destinazioni da sempre praticate e raccomandate dai maestri di spirito: le necessità dei poveri e i bisogni della Chiesa.

Il Nuovo Testamento ci fornisce numerosi esempi di questa primitiva presa di coscienza ecclesiale dell’importanza di quest’argomento e di come la carità, necessariamente, dovesse abbracciare anche queste dimensioni “concrete e terrene” dell’esistenza umana. I primi sette diaconi furono, infatti, istituiti per il “servizio delle mense” (cf Atti degli Apostoli, cap. 6), ovvero quella prima embrionale forma di carità con cui la Chiesa, attraverso le risorse di tutti i fedeli, sopperiva alla condizione di indigenza o miseria di alcuni suoi membri. Un fenomeno, questo, non solo circoscritto a livello locale (la Chiesa di Gerusalemme), ma praticato anche a livello “inter-ecclesiale”, come forma di solidarietà con cui le Chiese più ricche sovvenivano alle necessità delle comunità più povere. La famosa “colletta” organizzata da san Paolo a Corinto per una chiesa sorella, ne è solo uno tra i tanti esempi emblematici attestati dalle fonti (Cf Seconda lettera ai Corinzi, capitoli 8 e 9). Sono, inoltre, note e attestate dal secondo capitolo degli Atti degli apostoli alcune consuetudini sorte spontaneamente nella comunità primitiva di Gerusalemme, quali quella di tenere alcune cose in comune o di vendere alcuni beni per condividere il ricavato con chi era privo del necessario. Infine san Paolo ricorda ai Corinzi come le spese per il suo sostentamento durante la missione nella loro comunità furono sostenute dalla Chiesa di Macedonia, per evitare che qualcuno potesse pensare che l’azione missionaria dell’Apostolo fosse mossa da fini non nobili e intenzioni non buone (cf 2Cor 11,7ss).

Sulla base di quanto emerso da questo primo excursus, possiamo enucleare i seguenti principi fondamentali circa la dottrina ecclesiale sui beni temporali. La Chiesa ha sempre realisticamente compreso la necessità dei beni materiali per questa vita, ripudiando inopportuni angelismi o pauperismi. Ha promosso nella coscienza dei fedeli, anche accogliendo alcuni liberi atti eroici (come la vendita di beni propri a scopo caritativo), la formazione su questo punto, insegnando che fa parte della sacrosanta “comunione dei santi” anche la disponibilità a condividere generosamente il denaro e i beni temporali e materiali. Consapevole dell’importanza fondamentale della missione apostolica e del fatto che gli apostoli, per quanto santi e asceti, avevano (e hanno) bisogno almeno del necessario per mangiare, vestirsi e quant’altro occorre per lo svolgimento della loro missione, non ha esitato a promuovere una particolare sensibilità missionaria, accettando che le comunità cristiane si facessero carico delle esigenze economiche insite nella missione apostolica, sulla base dell’adagio evangelico del Signore secondo il quale “l’operaio ha diritto alla sua mercede” (Lc 10,7). La Chiesa, infine, ha promosso fin dalle origini delle “strutture istituzionali” che potessero provvedere in forma stabile e organizzata alle necessità dei poveri e degli indigenti della comunità.

Come si può agevolmente vedere, le moderne “conquiste” degli Stati sociali e del cosiddetto “Welfare” hanno antenati ben lontani, che fanno comprendere come la Chiesa ha svolto una funzione educatrice del mondo dal di dentro, in questo come in tanti altri settori del vivere, acquisendo degli evidentissimi meriti che non possono essere in nessun modo misconosciuti e che dovrebbero indurre ad estrema cautela chi non fa altro che gettare fango o sparare a vuoto sulla Chiesa e sulla sua missione nel mondo.

Chiarito che “i soldi servono per vivere” – fermo restando che non si vive per i soldi – dovrebbe apparire evidente che sia il denaro sia il possesso di alcuni beni temporali sono essenziali, anzi imprescindibili, perché la Chiesa possa compiere la sua missione. Gli uomini di Chiesa che sono chiamati ad amministrare questo patrimonio dovranno certamente agire con molto scrupolo e rettitudine perché il buon uso dei beni sia effettivamente osservato e dovranno rendere conto al Signore qualora ci fossero distorsioni o sbavature nell’adempimento di questo delicato mandato. Tuttavia di essi la Chiesa non può fare a meno, salvo omettere di compiere la sua missione. Essa, stante la volontà del suo Fondatore, consiste essenzialmente e principalmente nell’evangelizzazione del mondo intero: “andate in tutto il mondo e annunciate il Vangelo ad ogni creatura” (Mt 28,16). Tutto il resto viene dopo e in subordine, perfino il dovere di sovvenire – anche materialmente – chi versasse in condizioni di povertà materiale. La Chiesa, infatti, non è una Onlus che si occupa di assistenza materiale né una sorta di “Caritas mondiale”. Essa esiste per portare al mondo la salvezza, cosa che passa per l’annuncio del Vangelo, ovvero del bisogno che ogni uomo ha di essere redento e salvato dal peccato – unico e vero male universale e nefasto – e che questa salvezza viene dalla conversione a Cristo e dall’accettazione di Lui, del Suo messaggio e dei mezzi salvifici che Egli ha istituito e che sono amministrati dalla Chiesa, da Lui fondata, che ne continua in ogni tempo e in ogni luogo la missione redentrice. Evidentemente per svolgere questa missione la Chiesa ha bisogno di mezzi e di denaro: i missionari, per quanto morigerati, hanno bisogno almeno di mangiare e coprirsi e di un tetto dove riposare; i mezzi di trasporto costano; gli edifici di culto devono essere costruiti, amministrati e mantenuti; e così via. L’attuale clima di pauperismo dilagante, purtroppo, ha l’effetto di obnubilare non di rado qualche mente e di indurire qualche cuore, per cui tende a ingenerarsi una strana mentalità in base alla quale “dare i soldi alla Chiesa” sarebbe inutile o addirittura quasi peccaminoso, in quanto sottrarrebbe le risorse all’unica finalità per cui, secondo un certo pensiero comune, dovrebbero essere destinati: le necessità dei poveri. 

Eppure nei Vangeli si trova un episodio (uno dei rarissimi casi attestati in tutti e quattro i Vangeli, i sinottici e quello di san Giovanni) dove Gesù in persona cerca di formare rettamente le coscienze dei suoi discepoli, che pur mantenendo alta la sensibilità verso il problema della povertà (Lui stesso si è identificato con i poveri ed è vissuto poveramente) non devono contrapporla ingenuamente alle esigenze connesse al servizio di Dio e della sua causa. Si tratta del famoso episodio dell’unzione di Betania in cui, nella redazione di san Giovanni (cf Gv 12), si fanno anche nomi e cognomi dei protagonisti. Maria, sorella di Lazzaro (identificata dalla tradizione con colei che, prima della conversione, era Maria di Magdala, la peccatrice di cui si parla nel settimo capitolo del Vangelo di san Luca), rompe un vasetto contenente un unguento del valore di 300 denari per ungere Gesù. La stima del valore fu fatta in estemporanea da Giuda Iscariota, che la redarguì per aver sprecato tale somma che avrebbe potuto (e, secondo lui, dovuto) essere riservata ai poveri. Gesù difese Maria e ammonì Giuda, ricordando che i poveri sarebbero sempre stati con noi e sarebbe sempre stato possibile trovare modo e tempo di beneficarli, ma non per questo non si sarebbe potuto (e dovuto) riservare beni e denaro per Lui. Con questo il Signore dava una duplice ammonizione. La prima era quella di dimenticarsi eventuali soluzioni “definitive” del problema della povertà (“i poveri sono sempre con voi”), che, in questo mondo, non ci saranno. Solo la carità e le opere di misericordia contribuiranno a lenire, nel corso della storia, le sempre nuove e variegate forma di povertà, che nessun sistema politico, soluzione economica e nemmeno impegno caritativo ecclesiale potrà mai del tutto eliminare. La seconda era quella di non cadere nella trappola di riservare al Signore sempre il minimo o gli “scarti”. Se si pensa che, a detta degli interpreti, un denaro era (a quei tempi) la paga giornaliera di un operaio a giornata (basti pensare alla parabola dell’operaio dell’ultima ora per rendersene conto), 300 denari erano equivalenti a quasi un anno di stipendio di un operaio… Se volessimo tentare un’equivalenza in euro, considerando almeno 50 euro al giorno come paga di un salariato, avremmo un valore di 15000 euro (50 x 300) per questo famoso unguento usato per ungere Gesù… Diciamoci la verità: quanti di noi si sarebbero associati all’espressione mista di stupore e sdegno di Giuda Iscariota (sarà un caso che l’ha pronunciata proprio lui…)? Eppure Gesù non l’ha sottoscritta, prendendo per contro le difese di Maria, che aveva compreso come al Signore e, analogicamente, alla Sua causa va sempre riservato il meglio e le primizie. I santi hanno sempre osservato questa regola, vivendo a volte una povertà estrema per sé, ma esigendo una grande magnificenza quando lo richiedeva, per esempio, il decoro del culto o dei luoghi sacri. Si pensi a quante chiese furono restaurate e abbellite dai frati di san Francesco e al fatto che questi esigeva che i vasi sacri fossero di metallo prezioso, preferibilmente d’oro, lui che per se stesso si privava perfino dei sandali per camminare! Oppure allo stile del santo Curato d’Ars che girava con una talare ampiamente al di sotto del limite della decenza, ma spendeva e spandeva per restaurare la sua chiesetta (attingendo ampiamente dal suo…) o per l’acquisto di paramenti sacri raffinatissimi e costosissimi, tanto da suscitare lo stupore dei venditori che pensavano che quel prete trasandato e povero non avrebbe avuto di che pagare tanto ben di Dio… Speriamo che dietro tante preoccupazioni un po’ troppo accorate e dietro tanti moralismi inopportuni non si celi un novello spirito di Giuda Iscariota, che si stracciò le vesti per i 300 denari impiegati per ungere Gesù e non si vergognò di venderlo (solo qualche giorno dopo) per un decimo (trenta denari…). Cura per Gesù, per il culto e per la missione della Chiesa vanno perfettamente d’accordo con la cura dei poveri. Come gli esempi di Gesù e dei santi – di tutti i santi – hanno sempre mostrato e dimostrato…
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I CINQUE PRECETTI GENERALI DELLA CHIESA        TERZO PRECETTO DELLA CHIESA: SANTIFICARE I GIORNI DI PENITENZA CON DIGIUNO E ASTINENZA

2/10/2014

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I CINQUE PRECETTI GENERALI DELLA CHIESA

TERZO PRECETTO DELLA CHIESA: SANTIFICARE I GIORNI DI PENITENZA CON DIGIUNO E ASTINENZA


NON MANGIARE LA CARNE IL VENERDI E DIGIUNARE NEI GIORNI PRESCRITTI 
L'attuale disciplina penitenziale della Chiesa

Il terzo precetto generale della Chiesa disciplina la santificazione canonica dei giorni di digiuno e di penitenza: “non mangiare la carne nel venerdì e negli altri giorni di astinenza e digiunare nei giorni prescritti”. Come si evince agevolmente dalla lettera del testo, si tratta delle due opere penitenziali del digiuno e dell’astinenza, la cui prassi, già ampiamente attestata sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento e raccomandata esplicitamente da Gesù, è universalmente attestata fin dai primordi del cristianesimo. La disciplina dei giorni penitenziali è andata variamente a comporsi lungo il corso della storia, conoscendo dei momenti caratterizzati da estrema severità alternati a regimi molto mitigati, quale è quello attualmente in vigore.

Prima di entrare nel merito e nel concreto della trattazione ci sembra opportuno far riferimento ad un importante documento del Magistero, la Costituzione apostolica “Paenitemini” di Papa Paolo VI, che individua i fondamenti dogmatici e scritturistici del dovere, per ogni cristiano, di “fare penitenza”. Vorremmo, in questa prima parte della trattazione relativa a questo precetto, citare i punti salienti della prima parte della Costituzione relativa ai fondamenti della penitenza, riservandocene il commento per le puntate successive. In un secondo momento citeremo i passaggi della seconda parte, dove il santo padre dà le disposizioni normative tuttora vincolanti nell’attuale disciplina ecclesiastica. I corsivi delle citazioni sono stati apposti dal sottoscritto.

Il Pontefice si preoccupa anzitutto di evidenziare l’origine biblica e veterotestamentaria del digiuno e delle opere di penitenza: “Nell’Antico Testamento si rivela con sempre maggiore ricchezza il senso religioso della penitenza. Anche se ad essa l’uomo ricorre per lo più dopo il peccato per placare l’ira divina, o in occasione di gravi calamità, o nell’imminenza di particolari pericoli, o comunque allo scopo di ottenere benefici dal Signore, possiamo tuttavia costatare come l’opera penitenziale esterna sia accompagnata da un atteggiamento interiore di «conversione», di condanna cioè e di distacco dal peccato e di tensione verso Dio. Ci si priva del cibo e ci si spoglia dei propri beni - il digiuno è generalmente accompagnato non solo dalla preghiera, ma anche dall’elemosina, - anche dopo che il peccato è stato perdonato, anche indipendentemente dalla domanda di grazie; si digiuna e si usa il cilicio per affliggere «la propria anima» (cf Lv 16,31), per umiliarsi al cospetto del proprio Dio (cf Dn 10,12), per volgere la faccia verso Iahvè, per disporsi con più facilità alla preghiera, per comprendere più intimamente le cose divine, per prepararsi all’incontro con Dio. La penitenza è quindi, già nell’Antico Testamento, un atto religioso, personale, che ha come termine l’amore e l’abbandono nel Signore: digiunare per Dio, non per se stessi”.

Più avanti il santo Padre mostra come Gesù in persona visse e insegnò la penitenza: “Cristo, che sempre nella sua vita fece ciò che insegnò, prima di iniziare il suo ministero, passò quaranta giorni e quaranta notti nella preghiera e nel digiuno, e inaugurò la sua missione pubblica col lieto messaggio: «Il regno di Dio è vicino», cui tosto aggiunse il comando: «Ravvedetevi e credete nel Vangelo» […]. L’invito del Figlio alla «metánoia» diviene più indeclinabile in quanto egli non soltanto la predica, ma offre anche esempio di penitenza. Cristo infatti è il modello supremo dei penitenti: ha voluto subire la pena per i peccati non suoi, ma degli altri”.

Dopo aver evidenziato la pratica e l’insegnamento del Maestro, ne spiega come la Chiesa sua sposa abbia recepito e vissuto tale importante aspetto della vita cristiana: “Dinanzi a Cristo, l’uomo è illuminato da una luce nuova, e per conseguenza riconosce sia la santità di Dio sia la malizia del peccato; attraverso la parola di Cristo gli viene trasmesso il messaggio che invita alla conversione e concede il perdono dei peccati, doni questi che egli pienamente consegue nel Battesimo. Tale sacramento, infatti, lo configura alla Passione, alla Morte e alla Risurrezione del Signore, e sotto il sigillo di questo mistero pone tutta la vita futura del battezzato.Seguendo perciò il divino Maestro, ogni cristiano deve rinnegare se stesso, prendere la propria croce, partecipare ai patimenti di Cristo; trasformato in tal modo in una immagine della sua morte, egli è reso capace di meritare la gloria della risurrezione. Seguendo inoltre il Maestro, dovrà non più vivere per se stesso, ma per colui che lo amò e diede se stesso per lui, e dovrà anche vivere per i fratelli, dando compimento «nella sua carne a ciò che manca alle tribolazioni di Cristo... a favore del suo corpo che è la Chiesa» (cf Col 1,24)”.

Davvero magistrale è, infine, la sintetica spiegazione dei fondamenti dogmatici, antropologici e morali del dovere per il cristiano di fare penitenza: “Il carattere preminentemente interiore e religioso della penitenza, e i nuovi mirabili aspetti che in Cristo e nella Chiesa essa assume, non escludono né attenuano in alcun modo la pratica esterna di tale virtù, anzi ne richiamano con particolare urgenza la necessità e spingono la Chiesa, attenta sempre ai segni dei tempi, a cercare, oltre l’astinenza e il digiuno, espressioni nuove, più atte a realizzare, secondo l’indole delle diverse epoche, il fine stesso della penitenza. La vera penitenza però non può prescindere, in nessun tempo, da una ascesi anche fisica: tutto il nostro essere, infatti, anima e corpo, anzi tutta la natura, anche gli animali senza ragione, come ricorda spesso la Sacra Scrittura, deve partecipare attivamente a questo atto religioso con cui la creatura riconosce la santità e maestà divina. La necessità poi della mortificazione del corpo appare chiaramente se si considera la fragilità della nostra natura, nella quale, dopo il peccato di Adamo, la carne e lo spirito hanno desideri contrari tra loro. Tale esercizio di mortificazione del corpo, ben lontano da ogni forma di stoicismo, non implica una condanna della carne, che il Figlio di Dio si è degnato di assumere; anzi, la mortificazione mira alla «liberazione» dell’uomo, che spesso si trova, a motivo della concupiscenza, quasi incatenato dalla parte sensitiva del proprio essere; attraverso il «digiuno corporale» l’uomo riacquista vigore e «la ferita inferta alla dignità della nostra natura dall’intemperanza, viene curata dalla medicina di una salutare astinenza» (Messale Romano di S. Pio V, Colletta della feria V dopo la I domenica di Passione)”.

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I fondamenti dogmatici, ascetici e spirituali della penitenza cristiana, oggi ahimé, SONO non di rado trascurati quando non proprio dimenticati o addirittura contestati. Processo questo che iniziò, disgraziatamente, in concomitanza con la celebrazione e la conclusione del Concilio Vaticano II, non certo per colpa o a causa di inesistenti “nuove dottrine” formulate in merito dal Concilio, ma per quella malaugurata tendenza ad attribuire al Concilio cose che non ha mai detto in nome di un’ermeneutica della “discontinuità” contro cui ha dovuto lottare strenuamente il papa emerito Benedetto XVI. In questo senso assai significativa è la data di promulgazione della Costituzione: 17 Febbraio del 1966, solo pochi mesi dopo la chiusura del Concilio.

Contro i novelli propugnatori dell’antico errore luterano del “sola Scriptura”, il pontefice si preoccupò subito di evidenziare i fondamenti biblici della penitenza. Digiuno, preghiera e elemosina sono ampiamente attestati e praticati sin dall’Antico Testamento con queste motivazioni: placare l’ira divina dopo il peccato, ottenere grazie e benefici dal Signore, accompagnare con gesti penitenziali esteriori il cammino interiore di rinuncia e distacco dal peccato, disporre l’anima ad una più profonda intimità e unione con Dio. Nell’Antico Testamento sono attestate le pratiche penitenziali di indossare il cilicio (cf Gen 37,34; 2Mac 3,19; Gl 1,13) di coprirsi il capo di cenere (cf Gdt 9,1; Est 4,1; Lam 2,13), di dormire per terra (Sal 131,3) e di indossare come veste un sacco (cf Ne 9,1; Is 37,). Né più né meno di ciò che fece san Francesco (e tanti santi hanno fatto e fanno prima e dopo di lui).
Nostro Signore Gesù Cristo fu il penitente per antonomasia (“il modello supremo dei penitenti”): oltre all’umiltà, il lavoro e il nascondimento obbediente e sottomesso dei trent’anni di vita a Nazareth, abbiamo l’inizio della vita pubblica inaugurato dal grande digiuno di 40 giorni, la sua predicazione esplicita sulle opere penitenziali e sul digiuno in particolare (cf Mt 6,16 ss; Lc 5,33 ss), ma soprattutto le pene acerbissime della passione a cui si sottopose come vittima di espiazione per i peccati del mondo intero (cf 1Gv 2,2).

I discepoli di Gesù hanno ben compreso questo esempio e si sono, da sempre, uniti al mistero della passione di Gesù infliggendosi penitenze e mortificazioni volontarie (si legga l’elenco delle penitenze compiute da san Paolo in 2 Cor 11,24-27, dove l’Apostolo parla, tra l’altro, di “veglie senza numero e frequenti digiuni”), sia per le motivazioni già note nell’Antico Testamento, sia per le due “nuove” motivazioni tipicamente neotestamentarie: anzitutto l’imitazione di Cristo e inoltre, secondo le parole di san Paolo, “completare nella propria carne quello che manca ai patimenti di Cristo in favore del suo corpo che è la Chiesa” (cf Col 1,24). Un motivo, quest’ultimo, assolutamente inedito, che richiama la novità del digiuno cristiano annunziata da Gesù (cf Mt 9,14-17) e che consiste nell’offrirsi, insieme al Maestro, non solo in penitenza per i peccati propri ma per espiare i peccati altrui, contribuendo alla conversione dei peccatori e alla riparazione dei debiti contratti dall’umanità peccatrice con la divina giustizia. È questo il “vino nuovo in otri nuovi?”, ovvero lo spirito nuovo con cui gli uomini nuovi (i cristiani rinati da acqua e da spirito) compiono le opere penitenziali? A parere di chi scrive sembrerebbe proprio di sì.

Dal punto di vista prettamente ascetico–dogmatico, tuttavia, insieme a tutte queste nobilissime e altissime finalità della penitenza, ce n’è una, radicata nella visione antropologica cristiana dell’uomo, che fa comprendere come la penitenza sia non solo utile e raccomandabile ma assolutamente necessaria: la condizione decaduta dell’uomo a causa della colpa d’origine, che ha ferito la natura umana inclinandola inesorabilmente e costantemente verso il male e il basso, ferita che nemmeno il sacramento del Battesimo chiude e rimargina e che rimane aperta e infetta fino a quando l’uomo vive la vita terrena. Questa tendenza “al basso” comporta un’inclinazione naturale verso i piaceri dei sensi, alcuni dei quali sono leciti e altri illeciti. Dinanzi ad essi l’uomo si trova in situazione di estrema debolezza, per cui facilmente cade nel godimento dei piaceri illeciti (si pensi ai piaceri venerei al di fuori del matrimonio) e altrettanto facilmente supera la misura e la moderazione in quelli leciti (si pensi ai piaceri della tavola e al vizio capitale della gola). La mortificazione e la penitenza, in questo senso, svolgono il compito di fortificare la volontà e abituare la persona ad abbracciare la croce, in modo tale che possa essere più forte e risoluta nel combattimento spirituale che bisogna affrontare contro i nemici dell’anima (anzitutto la carne, poi il mondo e il demonio). La “carne”, infatti, non va identificata “sic et simpliciter” con il corpo, ma nella teologia paolina esprime esattamente la debolezza dell’uomo nel tendere con estrema facilità verso le forme più basse di piacere, alcune delle quali sono sempre e comunque illecite e costituiscono materia grave (si pensi, per esempio, a tutto il vastissimo campo dell’impurità) e che vanno represse e dominate a qualunque costo. Nessuno che non abbia fatto un buon allenamento, può vincere queste battaglie.


Guai, dunque, guai e ancora guai a chi si azzarda ad insegnare diversamente da queste sacrosante verità, inoppugnabili dal punto di vista dogmatico e ascetico, biblicamente fondate e insegnate e praticate dall’ininterrotta bimillenaria tradizione della Chiesa. Oggi da qualche parte si osa cianciare dell’inutilità o addirittura della peccaminosità della pratica della penitenza, specialmente corporale, sulla base dello specioso pretesto (di per sé, per la verità, non sbagliato) che anche il corpo sarebbe da rispettare e trattare bene in quanto creato da Dio e che Gesù Cristo avrebbe già fatto abbastanza penitenza per noi, così che farla sarebbe quasi offenderlo o dubitare dell’efficacia della sua passione. Si badi alla sottile astuzia che sta dietro questi ragionamenti tendenziosi, che si confuta solo con le argomentazioni da noi appena evidenziate, a commento di quanto insegnato, quanto mai opportunamente, da Papa Paolo VI. Si ricordino i moniti continui della Signora del cielo, che invita da due secoli gli uomini alla preghiera e alla penitenza, con crescente premura e insistenza. Ognuno è libero di scegliere da che parte stare: con la Chiesa e la Madonna o con qualche sciagurato uomo di Chiesa che insegna dottrine di uomini, trasformandosi in “maestro del nulla”. Sapendo che di questa, come di tutte le scelte morali, si dovrà rispondere al Signore; e che sbagliare in questa materia comporta gravissime conseguenze. In questa e nell’altra vita.
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