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Settimo comandamento: Non rubare

8/7/2015

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I DIECI COMANDAMENTI - SETTIMO COMANDAMENTO: Non rubare

INTRODUZIONE
Il settimo comandamento è ordinato alla retta amministrazione del denaro e dei beni materiali ricevuti in dono da Dio. Come afferma il grande san Tommaso d’Aquino, ogni precetto della legge di Dio tutela qualche bene prezioso per l’uomo: i primi tre hanno come oggetto il bene sommo, ovvero Dio; il quarto il bene della famiglia; il quinto il bene della vita; il sesto la santità del corpo; il settimo i beni materiali; l’ottavo il bene morale dell’onore e della veracità, come vedremo. Si tratta di un comandamento molto importante, che coinvolge tante questioni delicate: il problema della proprietà privata, la destinazione universale dei beni, la virtù cardinale della giustizia, i rapporti con lo Stato in ordine alla tassazione, etc. Di tutti questi argomenti si occupa la dottrina sociale della Chiesa, una branca del Magistero che ha assunto una sua configurazione propria e autonoma da quando il grande Pontefice Leone XIII con l’enciclica Rerum Novarum (1891) ebbe modo di trattare, nel merito e nei particolari, le nuove problematiche suscitate dalla rivoluzione industriale e dalla questione operaia, che era stata monopolizzata e strumentalizzata dal movimento comunista. 

Prima di entrare nel merito e nel dettaglio del settimo comandamento occorre operare, come del resto abbiamo fatto anche per gli altri comandamenti, delle precisazioni e delle considerazioni introduttorie di importanza capitale, per focalizzare alcuni punti chiave dell’insegnamento di Dio, trasmesso dalla Chiesa, sui beni temporali e il loro uso.

Anzitutto occorre dire, con chiarezza e forza, che i beni temporali sono “beni”, non mali. Non si tratta di una ovvia e inutile tautologia; non è infatti infrequente incontrare, anche in non pochi ambienti ecclesiali, chi pensa che la ricchezza sia sempre in qualche modo o in qualche forma qualcosa di negativo, da fuggire come invisa a Dio o come necessariamente foriera o apportatrice di corruzione, malaffare o disonestà. Le ricchezze (e con ciò si intende il denaro e i beni materiali) di per sé sono doni di Dio che devono servire al giusto ed equo soddisfacimento dei bisogni materiali propri e altrui. Nulla di più e nulla di meno. Se è vero infatti che non si deve vivere per i soldi, non è tuttavia meno vero che senza soldi non si vive… La Chiesa, in questo senso, ha condannato reiteratamente nel corso della storia l’eresia del pauperismo, sempre in qualche modo latente e strisciante, la quale affermava, appunto, che le ricchezze sono un male di per sé e che quindi chiunque non avesse abbracciato la povertà volontaria avrebbe, ipso facto, commesso peccato. Si badi che al tempo dei grandi movimenti mendicanti medievali, solo francescani, domenicani e carmelitani sfuggirono alla condanna ecclesiale, mentre molti altri (tra cui Valdesi, Albigesi e Catari, solo per fare qualche nome) incorsero in questo fatale errore. Gesù nel Vangelo (si pensi soprattutto agli episodi del giovane ricco, del ricco Epulone e del ricco stolto che pensa ad ammassare i beni superflui e non sa di morire la notte seguente) ammonisce solo dal pericolo che le ricchezze rappresentano per chi non sa farne un uso benedetto da Dio, ma non condanna la ricchezza in se stessa. Si ricordi, tra l’altro, che il suo migliore amico era Lazzaro, figlio di Teofilo che era il governatore della Siria e pertanto certamente non appartenente alla categoria dei poveracci o nullatenenti… 

Il secondo punto da evidenziare è che la proprietà privata è lecita e corrisponde ai disegni di Dio sulla destinazione dei beni. In questo senso bisogna guardarsi e stare sempre e con rinnovata attenzione alla larga dal gravissimo errore dei comunisti, che, insieme ad altre scellerate idee (in primis quella dell’ateismo), ritenevano la proprietà privata come un male gravissimo da abolire definitivamente nell’utopica società socialista (con l’unico effetto, come l’esperienza dell’Unione Sovietica ha dimostrato, di andare a ingrossare il patrimonio dei vertici e dei membri più influenti del partito attraverso i vari espropri proletari…). Si legge al riguardo nel Catechismo della Chiesa Cattolica: “L'appropriazione dei beni è legittima al fine di garantire la libertà e la dignità delle persone, di aiutare ciascuno a soddisfare i propri bisogni fondamentali e i bisogni di coloro di cui ha la responsabilità. Tale appropriazione deve consentire che si manifesti una naturale solidarietà tra gli uomini” (CCC 2402).

Il terzo ed ultimo punto è la destinazione universale dei beni. Dio, infatti, crea e distribuisce beni e ricchezze non certo perché siano appannaggio di pochi eletti per i loro egoistici bisogni e interessi. In questo senso l’uomo ricco deve considerarsi (e tale è realmente) una sorta di “amministratore delegato” della divina Provvidenza: quello che ha ricevuto in sovrappiù deve essere da lui, liberamente e gioiosamente (e non tramite forzati espropri proletari…), amministrato per sovvenire i bisogni e le necessità di chi è privo del necessario. Vedremo a suo tempo che è proprio questo principio morale a rendere legittima la tassazione (purché sia equa!!!) da parte degli Stati, in base a cui si prelevano parte dei beni dei cittadini per redistribuire equamente e per fini buoni redditi e ricchezze. Torneremo su questo punto a suo tempo. È bene evidenziare anche quest’ultimo principio con una nuova citazione del Catechismo della Chiesa cattolica che, al riguardo, è quanto mai chiaro ed eloquente: “Il diritto alla proprietà privata, acquisita o ricevuta in giusto modo, non elimina l'originaria donazione della terra all'insieme dell'umanità. La destinazione universale dei beni rimane primaria, anche se la promozione del bene comune esige il rispetto della proprietà privata, del diritto ad essa e del suo esercizio. ‘L'uomo, usando dei beni creati, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede, non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui, ma anche agli altri’ [GS 69]. La proprietà di un bene fa di colui che lo possiede un amministratore della Provvidenza, per farlo fruttificare e spartirne i frutti con gli altri, e, in primo luogo, con i propri congiunti” (CCC 2403-2404).


I due peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio:
oppressione dei poveri e frode del giusto salario agli operai


Il settimo comandamento tutela, come abbiamo visto, la legittima proprietà dei beni materiali e impone la giustizia e l’onestà nell’uso del denaro, che, come dice san Paolo, quando diventa occasione di avarizia, diventa la “radice di tutti i mali” (1Tim 6,10). Vediamo come si contravviene a questo comandamento cominciando dai peccati in assoluto più gravi.
Ben due delle quattro specie dei peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio sono oggetto del settimo comandamento. Si tratta della mancata corresponsione della giusta mercede (o del giusto salario) agli operai e dell’oppressione dei poveri. Con la prima fattispecie si intende anzitutto lo sfruttamento della manodopera altrui, sottopagando chi si guadagna il pane con il sudore della fronte. Questa eventualità, negli attuali ordinamenti giuridici dove, grazie a Dio, è ampiamente diffusa la contrattazione collettiva e la tutela sindacale, è generalmente riscontrabile nell’ambito del cosiddetto “lavoro in nero”. Ora, prescindendo momentaneamente dall’ordinaria illiceità di questa prassi, si deve comunque affermare che il datore di lavoro di un operaio “a nero”, davanti a Dio ha esattamente gli stessi e identici obblighi che avrebbe nei confronti di un lavoratore regolarmente assunto: giusta retribuzione, riposo settimanale, orario di lavoro umano, ferie, permessi, malattia, etc. Qualora mancasse a uno solo di questi obblighi, abusando del fatto che il malcapitato lavoratore, privo di contratto, non potrebbe agire legalmente per la tutela dei suoi diritti, potrebbe forse farla franca davanti alla giustizia umana, ma sappia che dovrà rendere rigoroso conto a quella divina. Al riguardo san Giacomo apostolo ammonisce con toni severi: “Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida; e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti” (Gc 5,4). Similmente rientra in questa tipologia la pessima prassi, purtroppo non poco diffusa, di non pagare gli operai per tempo, ovvero, a seconda degli accordi contrattuali (anche non scritti…), alla fine o agli inizi del mese. Anche questa ipotesi non ricorre, ordinariamente, nei settori della grande industria o imprenditoria, ma in tutta quella serie (numerosissima) di piccole attività imprenditoriali o commerciali dove è minore il controllo e la pressione sindacale. Il libro del Levitico, contro questo pessimo modo di procedere, tuona: “il salario del bracciante al tuo servizio non resti la notte presso di te fino al mattino dopo” (Lv 19,13). Guai dunque a chi abusa di questo e toglie di bocca il giusto salario a chi per sopravvivere ha bisogno dello stipendio frutto del suo onesto lavoro. Vorrei aggiungere, data l’analogia, una parola sul costume assai biasimevole di ritardare e dilazionare i pagamenti dinanzi a beni o servizi ricevuti. Ritengo personalmente tale comportamento assai grave, in quanto, di fatto, si tratta di usare come una sorta di “banca” (a costo zero…) persone che hanno impiegato mezzi e lavoro per fornire beni e servizi. Se il salario del bracciante non deve restare presso la casa del padrone fino all’alba del giorno dopo, è evidente che nemmeno il corrispettivo di beni e servizi ricevuti può essere arbitrariamente trattenuto nel caso di lavori eseguiti, collaudati e consegnati. Ho conosciuto aziende che hanno rischiato di fallire e di chiudere i battenti per commesse di lavori eseguiti e consegnati (su cui ordinariamente si deve tra l’altro pagare l’I.V.A. al momento dell’emissione della fattura e non a pagamento percepito…), che sono stati pagati con un ritardo di mesi e talora anche di anni… Agire in questo modo non è forse rubare? Si potrebbe obiettare: forse non aveva i soldi per pagare. Allora o si evita di chiedere il lavoro oppure si chiede un prestito alle banche, accollandosene gli oneri e non facendola pagare, come “banca forzata”, a chi ha lavorato… Purtroppo questi comportamenti, tanto disinvoltamente abbracciati da più di qualcuno (tant’è vero che c’è anche l’aforisma ironico: “per morire e per pagare c’è sempre tempo”…), sono oltremodo diffusi. Ma costituiscono gravi peccati contro questo comandamento e sono certo che saranno severamente trattati dalla divina giustizia. L’altro peccato che grida vendetta al cospetto di Dio è l’oppressione dei poveri. Si tratta di tutte quelle situazioni in cui chi è nell’abbondanza pone in essere comportamenti atti ad angariare, sfruttare, o opprimere chi è privo del necessario, abusando e approfittando della condizione di bisogno e indigenza del povero. Anche in questo caso, l’attuale legislazione giuslavoristica e le tutele garantite ai lavoratori salariati dall’azione sindacale pongono un argine non indifferente al dilagare dell’iniquità che altrimenti, come la storia ha ampiamente dimostrato, non tarderebbe ad apparire e manifestarsi. Rimangono tuttavia, anche in questo caso, le aree del “sommerso”, dove possono ingenerarsi situazioni di abuso oppressivo, tipo l’approfittarsi della situazione di indigenza o di bisogno di qualcuno per costringerlo a prestazioni sottopagate oppure somministrandogli beni o servizi a costi che non può permettersi. Qui per la verità massima attenzione devono porla anche legislatori e governanti dal momento che, purtroppo, specie nell’attuale congiuntura economica, sono numerose le persone ad aggirarsi nei pressi o al di sotto della soglia di povertà, forse anche in forza di qualche incauto provvedimento legislativo. Le norme dello Stato non devono mai essere cieche, ma tenere conto di queste situazioni che, come ogni sacerdote in cura di anime sa, in alcuni casi rasentano il limite della disperazione e non devono per nessun motivo essere onerate di pesi e carichi che non possono e non debbono sostenere .
I poveri, lungi dall’essere oppressi, devono essere oggetto di attenzione particolare non solo da parte della Chiesa (che sempre, sull’esempio del suo Signore, ha avuto per essi una cura speciale e un occhio di profondo riguardo), ma anche da parte delle autorità civili e di tutti coloro che, per aver avuto in sorte una maggiore disponibilità di beni materiali, non per questo possono abusarne ma anzi, come abbiamo accennato nella precedente puntata e come vedremo meglio in seguito, sono tenuti a supplire con la loro abbondanza all’altrui indigenza. La Sacra Scrittura, il profeta Amos in particolare (si vedano soprattutto i capitoli 4 e 8), è particolarmente severa con chi opprime i poveri. E’ vero che purtroppo, in alcuni settori della Chiesa e soprattutto da alcune correnti teologiche relativamente recenti, questo tema è stato ipertrofizzato come se unico compito della Chiesa fosse quello di “servire” i poveri o “rivendicare” (anche con mezzi non sempre evangelicamente corretti…) i loro diritti. Ma, respinte fermamente tali esacerbazioni unilateralistiche e al limite dell’eterodossia, resta il fatto che i poveri sono nel cuore di Dio e chi li opprime, li vessa, li sfrutta o li maltratta dovrà vedersela (anche su questa terra) con i rigori della Sua divina giustizia.
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Sesto comandamento: Non commettere atti impuri PORNOGRAFIA, IDOLATRIA DEL CORPO, PECCATO IMPURO SOLITARIO

14/11/2014

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I DIECI COMANDAMENTI - SESTO COMANDAMENTO: Non commettere atti impuri

1. PORNOGRAFIA
La pornografia è indubbiamente un’altra tra le piaghe più purulente sorte dalle macerie di una “civiltà” che ha scelto di rinnegare due millenni di vita cristiana rinnovando il grido luciferino “non serviam!”. Il mare di fango e immondizia a cui assistiamo è indubbiamente frutto di una progressiva erosione della moralità e dei costumi, che ha portato, gradualmente, a considerare l’oscenità, l’indecenza e la volgarità come cose assolutamente ordinarie e normali all’interno della società post-moderna e, a detta di qualcuno, post-cristiana. I moderni mezzi di telecomunicazione (cinema, televisione e musica) hanno contribuito fortemente ad agevolare e accelerare forme e tempi di tale degradazione. Chi non ricorda le prime scene “osé” di alcune celebri pellicole dell’immediato dopoguerra, oppure le violente provocazioni dei nascenti “astri” della musica rock negli anni ’50 e ’60? Come ignorare l’effetto dirompente che ha avuto la rivoluzione studentesca e quella sessuale, concomitanti con la messa in circolazione delle prime pellicole a contenuto decisamente erotico? Di lì, il passo verso la vera e propria pornografia, con tutto il mare di oscenità che essa propina, è stato brevissimo. La prima tristemente celebre pellicola pornografica, un vero e proprio “cult” per gli appassionati di tale squallido settore, è datata 1972. Non citiamo volutamente né il titolo né gli attori perché ci sembrerebbe dare troppa importanza a ciò che dovrebbe essere cancellato ed eliminato per sempre dalla terra dei viventi. Da questa tragica data tuttavia, è stato un crescendo inarrestabile di provocazioni, scandali e perversioni di ogni genere, che oggi purtroppo trovano in Internet un canale propulsore incontrollabile ed altamente accessibile, con gravissimi danni soprattutto per i più giovani. Alcuni sondaggi non molto datati condotti tra gli adolescenti circa l’uso di Internet davano questa emblematica risposta: “Facebook, Messenger e siti porno”. I social network, in particolare, rappresentano la nuova frontiera della trasgressione, attraverso l’erotismo virtuale e l’adescamento dei minori. Le legislazioni, dapprima molto tolleranti, hanno cercato di prendere qualche distanza da tali fenomeni e di porre qualche limite, in modo comunque non sufficientemente adeguato. Nelle reti pubbliche di carattere nazionale è proibita la messa in onda di materiale pornografico in senso stretto, ma è diventato praticamente impossibile vedere un varietà, un talk-show o anche un innocente quiz televisivo dove non si debba assistere all’immancabile valletta o presentatrice in abiti a dir poco procaci, con una continua esposizione oscena e immorale di corpi statuari al pubblico spettacolo. L’età dell’innocenza dei fanciulli, grazie alla diffusione ormai apparentemente inarrestabile di tale immonda cultura, si è dapprima ridotta, fino, a detta di qualche esperto, a scomparire del tutto. 
Tale peccato è ovviamente quanto di più grave possa esistere in questa materia, in qualunque modo sia commesso: attraverso la visione di film, la lettura di libri o riviste, l’imitazione ed emulazione degli atti osceni compiuti dagli operatori di tale infernale settore, il parlarne e il diffonderne in qualunque modo i contenuti. Sappiamo che Padre Pio era oltremodo severo in questa materia non solo, ovviamente, con i protagonisti, ma anche con coloro che anche in modo minimo e accidentale vi cooperassero in qualunque forma. Il santo del Gargano ripeteva che coloro che offendono Dio in tale gravissima materia pagano tutti e pagano caro, anche l’operaio che abbia messo un solo chiodo sul set dove si debba girare una scena a contenuto erotico. Una delle conseguenze più gravi del dilagare di tale pseudocultura è stata la diffusione del nudismo non solo tra gli addetti ai lavori del mondo dello spettacolo, ma anche tra la gente comune. Le mode invereconde dilaganti e pullulanti ormai da diversi anni, sotto gli occhi indifferenti e abituati di quasi tutti, non risparmiano più nemmeno i luoghi sacri, in un clima di imbelle e rassegnato silenzio, che diventa complicità con la diffusione del vizio e dell’immoralità. San Pio diceva che bastava avere le braccia scoperte per bruciare in Purgatorio… Sarebbe assai interessante vedere e sentire cosa direbbe e come reagirebbe dinanzi alla situazione attuale…
Il corpo dell’uomo e della donna è tempio dello Spirito Santo e deve essere trattato con rispetto e con pudore. La Madonna diede l’allarme a Fatima, ammonendo circa l’imminente diffusione di mode che avrebbero offeso molto Dio… Il mare di fango è divenuto ormai una marea montante dalle dimensioni incontrollabili… Non resta che augurarci che il Signore del cielo e della terra, che ama la purezza e aborre l’impurità, trovi il modo di porre fine a tali ignobili e indegni spettacoli.

2. IDOLATRIA DEL CORPO, PECCATO IMPURO SOLITARIO
Siamo giunti all’ultima tappa del lungo itinerario di meditazione sui peccati contro il sesto comandamento. La materia ha richiesto una così ampia trattazione perché la Madonna, a Fatima, ammonì che i peccati che portano più anime all’Inferno sono quelli della carne, sentenza confermata da Satana in persona che, come ebbe a riferire don Giuseppe Tomaselli (esorcista salesiano morto in concetto di santità), affermò che tutti gli abitanti dell’Inferno erano lordati di impurità, specificando che molti erano dannati solo per questo peccato, altri per questo ed altri peccati, ma che comunque nessuno degli abitanti dei “piani inferiori” era esente da almeno qualche peccato contro il sesto comandamento. 
Si ricorderà che, a suo tempo, avevamo distinto la trattazione in quattro parti: peccati impuri contro la santità del matrimonio, peccati contro la vita come frutto naturale dell’amore umano, impurità consistenti in aberrazioni della legge naturale e infine profanazioni della santità del corpo umano in quanto tale. Con la scorsa puntata siamo entrati in quest’ultimo punto, che oggi concluderemo trattando lo scabroso e spinoso tema del peccato impuro solitario, comunemente noto come masturbazione. È bene anzitutto – a titolo di premessa necessaria alla comprensione di quest’ultimo aspetto – riprendere  un passo quanto mai chiaro dell’Apostolo delle genti che senza mezzi termini e con estrema chiarezza proclama la santità e l’inviolabilità del corpo umano: “Il corpo non è per l’impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo. Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!” (1Cor 6,13.19-20).
Il corpo umano di un battezzato ha dunque, oltre la naturale e intrinseca dignità che inerisce alla persona umana in quanto tale, un’ulteriore e ancor più alta onorabilità che gli deriva dall’essere tempio dello Spirito Santo, ovvero della grazia santificante ricevuta nel Battesimo e accresciuta con la celebrazione e la ricezione dei sacramenti che si possono ripetere (penitenza e eucaristia). Il corpo, secondo la visione paolina, è dunque analogo al Tempio inteso come luogo di culto, al cui interno è custodito e abita il Santo dei Santi. Come dunque dentro una Chiesa non si possono compiere atti indegni della sacralità del luogo, sotto pena del gravissimo peccato di profanazione (come vedemmo a suo tempo), così il corpo non può essere oggetto di atti turpi, bassi e vergognosi, che costituiscono un’autentica profanazione della sua dignità e sacralità. 
Come abbiamo visto nel precedente episodio, la pornografia compie tale profanazione in modo spudorato, violento ed esecrabile. Simile discorso va fatto per il nudismo dilagante e imperante, così come per il vero e proprio culto del corpo (a cui assistiamo specialmente in Occidente), in nome del quale ci si sottopone a diete esasperanti, massacranti allenamenti in palestra, uso e abuso di cosmetici (al femminile ma sempre più spesso anche al maschile…), mode invereconde. Non si parla altro che di crisi e di austerity, eppure il consumo di cosmetici non diminuisce e palestre, saune, centri di fitness e di bellezza sono sempre pieni di clienti… Sta dilagando in maniera incontrollata la brutta (e satanica) moda dei tatuaggi, per cui ci si sottopone a dolori non lievi e a salassi economici ancor meno lievi per decorare il corpo con segni che nel 90% dei casi (cifra arrotondata per difetto!) sono direttamente o indirettamente connessi col mondo dell’occulto e del satanismo. Apparire, piacere e godere costituiscono ormai una triste triade, perseguita e condivisa dalla stragrande maggioranza degli abitanti del mondo occidentale.
Oltre a queste forme, l’altra gravissima profanazione del corpo è costituita dl peccato impuro solitario, tema sul quale occorre per prima cosa sfatare alcuni luoghi comuni. Anzitutto non è un problema circoscritto all’età adolescenziale (numerosissimi sono gli adulti che lo commettono) e non è appannaggio esclusivo (o quasi) delle persone di sesso maschile (sempre più numerose sono le donne che cadono, anche in maniera abituale e compulsiva, in questo vizio). Non è inoltre affatto vero che costituisca una sorta di “peccatuccio” quasi scusabile, per il fatto che non reca danno al prossimo, che spesso accade in un’età di “tempesta ormonale” (quella adolescenziale) e che dovrebbe essere non solo scusato ma anche (come fa più di qualche psicologo…) addirittura consigliato come valvola di sfogo per stress o situazioni di esasperazione emotiva.
In realtà con questo peccato tutti i caratteri impressi nell’ordine della sessualità dal Creatore svaniscono e scompaiono: l’ordinazione degli atti sessuali al reciproco dono e alla vita è infatti completamente assente in un atto che, oltre a non essere diretto a procreare, è compiuto al di fuori di ogni relazione, riducendosi meramente ad una egoistica e disordinata ricerca di un piacere basso ed effimero di qualche secondo, in modo totalmente fine a se stesso. Tale atto costituisce un evidente avvilimento della dignità della persona (che è stata creata per “piaceri” ben più elevati) e del corpo umano (che viene profanato con un atto degradante), non essendo altro in definitiva che una neanche troppo larvata manifestazione di egoismo e narcisismo. Il senso di vergogna che provano le persone che cadono in questo vizio e la difficoltà che si ha nel confessarlo, non sono altro che una conferma indiretta della verità circa l’intrinseca malizia e disordine di questi atti. Voglia il Signore, per intercessione dell’Immacolata, aiutare tutti e ciascuno a riscoprire la bellezza dell’amore umano, a ricollocare l’esercizio della sessualità solo al suo interno, in un contesto autenticamente umano e ad elevare ciò che di per sé è legato alle leggi naturali della riproduzione sessuata (per nulla differenti, nella sostanza, a quelle del mondo animale) in uno strumento di santificazione e nobilitazione degli sposi, che assumono con gioia onori e oneri della vita coniugale, ordinandola alla perfetta glorificazione di Dio, all’obbedienza ai suoi voleri e al bene della Chiesa e di tutta l’umana famiglia.
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Sesto comandamento: Non commettere atti impuri           IL PECCATO IMPURO CONTRO NATURA

13/11/2014

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I DIECI COMANDAMENTI - SESTO COMANDAMENTO: Non commettere atti impuri

1. L'OMOSESSUALITA'
La terza serie di impurità che abbiamo individuato a suo tempo nel sommario introduttivo alla presente disanima, era quella relativa ai comportamenti che offendono direttamente la legge naturale, dando vita ad una serie di vere e proprie aberrazioni sommamente invise all’Altissimo. Il catechismo tradizionale ha unificato questa fattispecie nella categoria del “peccato impuro contro natura”, che per la sua straordinaria gravità rientra nei quattro peccati che “gridano vendetta al cospetto di Dio” (insieme all’omicidio volontario - in cui ovviamente è da comprendere l’aborto - all’oppressione dei poveri e alla frode della giusta mercede agli operai). Il fatto che gridino vendetta al cospetto di Dio significa che essi rappresentano una sorta di “provocazione” della divina giustizia che, pur essendo ordinariamente lenta a punire e incline alla clemenza, non può tuttavia non intervenire assai severamente contro questi crimini, non solo con punizioni esemplari nell’altra vita, ma anche con gravi castighi in questa presente. Prima di addentrarci dentro questo scabroso ma purtroppo attualissimo argomento, è bene citare un passaggio della lettera di san Paolo ai Romani che a suo tempo abbiamo volutamente omesso di riportare, riservandone la presentazione alla sede – questa – più consona e opportuna. Scrive l’Apostolo delle genti: “Perciò Dio li ha abbandonati all'impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi, poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore, che è benedetto nei secoli. Amen. Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che si addiceva al loro traviamento. E poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa di una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno, colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d`invidia, di omicidio, di rivalità, di frodi, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. E pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa” (Rm 1,24-32).
San Paolo si sta riferendo ai pagani, che afferma essere stati “abbandonati da Dio all’impurità” e a “passioni infami”, menzionando successivamente, in modo abbastanza chiaro ed esplicito, la duplice forma di omosessualità (femminile e maschile), dichiarando che ciò costituisce un’alterazione del “rapporto naturale” tra uomo e donna, tipica di “un’intelligenza depravata” ed accompagnata, ordinariamente, da un’altra inquietante sfilza di gravi peccati. La pericope si chiude stigmatizzando come colpevole non solo chi opera simili abominazioni, ma anche chi le approva. Il linguaggio è crudo e forte, chiaro e netto, senza esitazioni o tentennamenti. Oggi lo si definirebbe, senza ombra di dubbio, “politicamente scorretto” nel modo più assoluto. L’Apostolo sarebbe senz’altro oggetto di denunce penali e, presumibilmente, di condanne esemplari da parte di qualche “zelante e moderno” Tribunale. Di certo, ciò che appare palese, è la distanza, grande, troppo grande, tra simili affermazioni e l’acquiescenza, spesso connivente, sempre codarda e condannabile, di non pochi cattolici dinanzi alle pretese, sempre più dilaganti, di innumerevoli lobbies omosessuali di far dichiarare la “normalità” di comportamenti che rappresentano una evidentissima alterazione delle più elementari norme del diritto naturale. Queste devianze, che una volta (ora non più) erano riconosciute come tali anche dai manuali di psichiatria, ci sono sempre state durante la storia e in non poche culture. Mai però si era giunti all’aberrazione di una loro approvazione legislativa, con equiparazione dei diritti alla famiglia naturale e perfino, in non pochi Stati d’Europa, con diritto di adozione (cosa, peraltro, caldamente auspicata dall’attuale sindaco di Milano). Personalmente penso che nulla come questa materia rappresenti la cartina tornasole del degrado a cui è giunta una cultura che ha voluto defenestrare Domine Iddio con tutti i suoi annessi e connessi, pavoneggiandosi dietro improbabili autoencomi di civiltà, modernità e progresso. Il chiamare bene il male e male il bene è diventata abitudine consueta, sotto lo sguardo timido e spesso impaurito dei cristiani, incapaci di alzare la voce e dimentichi del monito di un santo uomo di Dio che qualche tempo addietro ammoniva: “il male dilaga anche per colpa di coloro che dovendo denunciarlo, tacciono”. E’ noto come anche alcuni membri della classe politica che si definiscono “cattolici” hanno, pur fra molti ipocriti (per non dire ridicoli) “distinguo”, manifestato atteggiamenti di “civile apertura” e tolleranza verso questa materia. La Chiesa, che grazie a Dio non si identifica con alcuni discutibili uomini di Chiesa o membri di essa, ha sempre continuato a mantenere alta la bandiera della verità, affermando la distinzione tra peccato e peccatore e ribadendo la duplice condanna sia dei comportamenti e degli atti omossessuali, che degli atti di odio, ingiusta discriminazione, violenza o oppressione compiuti nei confronti delle persone vittime di questo peccato che essa, al pari di altri peccatori, considera come destinatari privilegiati delle sue cure amorevoli tese a sottrarli dalle spire sataniche e dai magli di questi orridi vizi, ben ricordando le parole dell’Apostolo, giusta le quali “gli autori di tali cose meritano la morte” (ossia peccano mortalmente e quindi vanno incontro alla morte eterna).

La legge naturale è il luogo primo in cui si manifesta per tutti, cattolici e non cattolici, atei e credenti, orientali e occidentali, il volere dell’Altissimo. Il Creatore di tutte le cose ha stabilito delle leggi inviolabili e categoriche, il cui stravolgimento comporta solo miseria, degradazione, disordine e immoralità. Nessuna legge e nessuna cultura potranno mai rendere lecito il vizio e il peccato. Speriamo che presto i cristiani, soprattutto i cattolici, ritrovino il coraggio della testimonianza, non temendo, come ci esorta Gesù, coloro che potranno anche arrivare ad uccidere il nostro corpo, ma piuttosto Colui che ha il potere di gettare corpo e anima (dei pusillanimi) all’Inferno. Vergognarsi di Lui e delle sue parole per paura di passare per obsoleti o incivili, vorrà dire accettare che quando ci troveremo al suo cospetto anche Lui si vergognerà di noi… che ci siamo vergognati di alzare la voce per stigmatizzare ciò che è realmente e assolutamente vergognoso.

2. L'USO IMMORALE E INNATURALE DEL MATRIMONIO
Il peccato impuro contro natura conosce purtroppo anche una variante che coinvolge le relazioni ordinarie e naturali tra uomo e donna. Si tratta di materia particolarmente scabrosa, che va affrontata molto velocemente e con linguaggio estremamente sobrio, nella consapevolezza che al lettore attento non sfuggirà ciò a cui ci si sta riferendo. È necessario tuttavia, anche se nel debito modo, fare chiarezza anche su questi punti, stante l’ignoranza che circola su di essi, spezzando il muro del silenzio e della connivenza.
Questa materia introduce il discorso sul crimine odioso e vomitevole della pornografia, che di tali atti fa la propria bandiera e che ne rappresenta uno degli strumenti di maggiore incentivazione e diffusione. Quando una coppia, come ricorda san Paolo nella lettera citata nel precedente articolo, si unisce in modo non naturale, ma con atti innominabili (peraltro identici a quelli compiuti tra di loro dalle coppie omosessuali) al fine di raggiungere in modo assai basso e degradante il piacere venereo, commette un gravissimo atto impuro contro natura, che non è certamente consentito dal fatto che i coniugi siano uniti dal sacramento del matrimonio. Tale comportamento costituisce colpa grave, anzi gravissima (per il suo intrinseco carattere degradante la dignità della persona), anche quando fosse compiuto senza la volontà che da questi atti consegua, in maniera causale e diretta, il raggiungimento del piacere sessuale. 
Questo uso indegno e disordinato del matrimonio, si badi, deve essere oggetto di confessione, accusandolo per quello che è, con linguaggio ovviamente sobrio e decoroso, ma anche secondo la sua specie propria. Come ricorda il Concilio di Trento, nel decreto sul sacramento della Penitenza, i peccati mortali vanno confessati per specie, numero e circostanze. Trattandosi in questo caso di specie particolarmente grave, l’accusa di essa dovrà essere fatta in modo tale da far comprendere al confessore di cosa si tratta.
Occorre inoltre ricordare ciò che a suo tempo si disse della castità coniugale, per comprendere che non è affatto vero l’adagio in base al quale all’interno del matrimonio sacramento tutto sarebbe lecito. Né le donne, spesso vittime di richieste “strane” da parte dei rispettivi coniugi, devono pensare che sia loro dovere far contenti gli sposi anche dinanzi a tali pretese. Lecito è e rimane solo l’atto coniugale compiuto naturalmente e aperto alla vita, in modo onesto e umano. Nessuna forma alternativa di ricerca del piacere fisico può essere mai e in nessun caso direttamente cercata o scelta, salvi, come insegnano i teologi, gli atti che servono a preparare le condizioni affettive e fisiche dell’atto coniugale (sempre nel rispetto della dignità della persona) e le effusioni e manifestazioni affettive, anche quelle che possono coinvolgere la materia venerea in senso proprio (tanto per riallacciarci a un esempio concreto, il bacio profondo all’interno del matrimonio è ovviamente sempre consentito, purché non ci sia il pericolo che da esso consegua direttamente il piacere fisico). Su questa materia i coniugi devono aiutarsi reciprocamente, ricordando che non è mai lecito, per nessun motivo, accondiscendere o cedere su questi punti (come, del resto, sul tema della contraccezione, affrontato a suo luogo), perché l’obbedienza a Dio e alla sua legge viene sempre prima e al di sopra di tutto e nemmeno in nome dell’amore coniugale (che in questi casi sarebbe falso e disordinato) è possibile trasgredirla. Il rispetto reciproco e la reciproca sottomissione a Dio è condizione e salvaguardia dell’autenticità e della bellezza dell’amore sponsale e condizione indispensabile perché sul matrimonio scendano copiose le benedizioni e le grazie dell’Altissimo.
Purtroppo la bassezza raggiunta dalla nostra sciagurata cultura in questa materia è sotto gli occhi di tutti. La violenza invadente del linguaggio della pornografia, vero spettacolo di degradazione, avvilimento e abbrutimento dell’uomo e della donna e delle loro reciproche relazioni; la diffusione sempre più capillare di un erotismo sfrontato, presente anche in non pochi spot pubblicitari; la vastissima diffusione di materiale pornografico di ogni tipo attraverso i canali del web, purtroppo conosciutissimi e frequentatissimi dai più giovani; un uso improvvido e scellerato dei social network, dove vengono incautamente pubblicati e messi in piazza foto e video tutt’altro che edificanti; tutto questo ha contribuito a creare una pseudo-cultura pansessualista, dove l’unica cosa che sembra importante è “la soddisfazione e la gratificazione sessuale”, da ricercarsi in ogni modo e a tutti i costi, senza limiti e senza “paletti” e senza che nessuno possa osare dire mezza parola in merito. Ribadiamo, tuttavia, con forza le esigenze della Parola di Dio, contenuta nel monito di san Paolo: «Le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, [...] orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio» (Gal 5,19-21).  Ricordiamo anche i moniti del grande San Pio da Pietrelcina che ricordava come in questa materia, chiunque, anche minimamente, cooperi e collabori all’esecuzione o alla diffusione anche l’operaio che mette un chiodo su un set dove si gireranno scene immorali...), dovrà vedersela con la giustizia severa dell’Altissimo.
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Sesto comandamento: Non commettere atti impuri: FECONDAZIONE ARTIFICIALE E INSEMINAZIONE

12/11/2014

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I DIECI COMANDAMENTI - SESTO COMANDAMENTO: Non commettere atti impuri

1 FECONDAZIONE ARTIFICIALE E INSEMINAZIONE
Esaminati nell'articolo precedente i peccati di contraccezione, ovvero la pretesa di separare la concezione di una vita dal mistero dell'amore, ci resta da trattare la fattispecie diametralmente speculare, cioè la pretesa di concepire forzatamente una vita al di fuori del matrimonio e della legge naturale stabilita da Dio, per la quale una vita umana è e deve essere concepita solo all'interno di un atto coniugale. Si tratta delle distinte tipologie della fecondazione e dell'inseminazione artificiale, sulle quali occorre ora riprendere, approfondire e completare il discorso a suo tempo accennato. La fecondazione artificiale, detta anche fecondazione in vitro, consiste nel realizzare il concepimento in provetta, completamente al di fuori dell'utero materno, facendo incontrare il seme maschile con l'ovulo femminile attraverso delle sofisticate tecniche mediche realizzate in laboratorio. La fecondazione si dice omologa quando sia il seme maschile che l'ovulo femminile appartengono a due persone regolarmente unite in matrimonio, che percorrono questa via non riuscendo a concepire figli attraverso le vie ordinarie e naturali; si dice invece eterologa quando almeno uno dei due princìpi generativi (o in alcuni casi entrambi) provengono dal di fuori della coppia e pertanto gli embrioni impiantati dopo la fecondazione nel grembo della materna sono, biologicamente parlando, in tutto o in parte figli di terze persone. Distinta da questa fattispecie è l'inseminazione, su cui vigono gli stessi gravissimi equivoci esistenti per il peccato di interruzione anticipata dell'atto coniugale, che abbiamo visto essere da non pochi fedeli erroneamente ritenuto un "metodo naturale" di controllo delle nascite. Infatti molti ritengono assolutamente lecita la fecondazione omologa, ritenendola un semplice "aiuto" atto a superare le difficoltà di incontro del seme maschile e dell'ovulo femminile all'interno del normale rapporto coniugale. L'inseminazione, infatti, come dice il nome stesso, consiste nell'immissione diretta del seme maschile (precedentemente estratto) nell'utero della donna, che può essere del marito (inseminazione omologa) oppure di un donatore esterno alla coppia (inseminazione eterologa). Sembrerebbe quindi una mera operazione "meccanica" che, almeno nel primo caso (inseminazione omologa), non sembrerebbe avere nulla di illecito, riducendosi a un metodo artificiale che si adegua al modo con cui ordinariamente viene concepita la vita, con l'unica differenza che l'incontro tra spermatozoo e ovulo non avviene come esito dell'atto coniugale ma per immissione diretta nell'utero della donna del seme maschile.
Diciamo anzitutto che la fecondazione artificiale è moralmente molto più disordinata dell'inseminazione. Come infatti abbiamo detto a suo luogo, parlando del quinto comandamento, il successo di questa tecnica è proporzionato al numero di embrioni fecondati che vengono impiantati nell'utero della donna, alcuni dei quali destinati a morte certa. Questo comportamento costituisce un gravissimo oltraggio alla sacralità e alla dignità della vita umana e pertanto rende gravemente immorale questa tecnica a prescindere da ogni altra considerazione. Si badi inoltre che, attraverso la fecondazione eterologa, viene aperto il campo alle più gravi aberrazioni, di cui purtroppo non mancano numerosissime testimonianze anche in Europa (non - grazie a Dio - in Italia dove, almeno per ora, la fecondazione eterologa non è permessa dalla famosa legge 40), soprattutto in ordine al concepimento di figli all'interno di coppie omosessuali. Una coppia di omosessuali donne, infatti, può tranquillamente prestare i propri ovuli perché siano fecondati e vivere l'esperienza della gravidanza e della maternità, costringendo la povera creatura che nasce da questa abominazione a crescere e vivere con due mamme. Ancora più aberrante è quanto successo in Inghilterra, che ha visto protagonista la celebre pop star Elton John, che ha coronato il sogno di avere un figlio con il suo "compagno" (regolarmente sposato, dato che l'Inghilterra - ahinoi - ha riconosciuto i matrimoni gay) attraverso un utero preso in affitto e fecondato dal seme di uno dei due. Tuttavia anche la fecondazione omologa, ammesso (e, ovviamente, non concesso) che non presentasse i gravissimi problemi della soppressione degli embrioni, nondimeno resterebbe illecita perché costituirebbe un atto non secondo natura, ovvero una arbitraria manipolazione delle leggi naturali che il Creatore ha stabilito per la concezione e la nascita di una vita, legandola inscindibilmente, almeno nell'attuale stato dell'umanità (segnato, lo si ricordi, dalle conseguenze della colpa d'origine), al compimento degli atti coniugali, per mezzo dei quali l'amore umano viene sigillato nel divenire "una sola carne". Questo ultimo punto, in effetti, è ciò che costituisce l'unica motivazione del disordine dell'inseminazione, anche omologa. Infatti anche se si tratta di marito e moglie e anche se non si viola la dignità della vita umana, si viola però la dignità dell'amore umano e il diritto del concepito ad essere generato come natura vuole, quella natura che porta impresse e sigillate in sé la Legge e la volontà del Creatore.
Il problema di fondo, tuttavia, che accomuna queste fattispecie è l'idea che avere un figlio costituisca una sorta di diritto, per ottenere il quale (essendo appunto "un diritto") ogni mezzo sarebbe lecito. In realtà non esiste alcun diritto al figlio, essendo la vita un puro dono di Dio, anche se Egli ha voluto responsabilizzare la coppia nel renderla sua collaboratrice. Dio, infatti, non solo  stabilisce quanti figli debba avere una coppia (come abbiamo visto parlando della contraccezione), ma anche sedebba averli, oltre che quando sia il tempo giusto e come debbano essere. Se Dio ad una coppia dà la grande croce della sterilità, la si deve prendere, offrire ed aprirsi ad altre forme di amore, spesso molto più grandi di quella dell'accettazione di un figlio naturale. 

Per concludere se è sempre illecito limitare il numero dei figli considerando la vita come una minaccia attraverso la contraccezione, è peccato altrettanto grave forzare la natura considerando i figli come un diritto. Si lasci a Dio il compito di fare ciò che gli compete e le creature tornino ad essere e sentirsi onorate di collaborare con Lui ma sempre in spirito di umiltà e ubbidienza, aprendosi ai suoi voleri quand'anche sembrassero duri e severi, ricordando il monito della sapienza popolare che Dio, quando chiude una porta, lo fa sempre per aprire un portone... Piuttosto che sfondare una porta chiusa è assai meglio aprire gli occhi e entrare per i portoni aperti dalla divina volontà.   
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Sesto comandamento: Non commettere atti impuri             I PECCATI CONTRO L'APERTURA DELL'AMORE SPONSALE ALLA VITA: LA CONTRACCEZIONE

11/11/2014

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I DIECI COMANDAMENTI - Sesto comandamento: Non commettere atti impuri

Il secondo genere di atti impuri è quello dei comportamenti contrari alla concezione della vita come frutto naturale dell’amore umano tra un uomo e una donna. Si tratta dell’attualissimo e delicatissimo tema della contraccezione e di quelli, speculari ma non meno gravi e inquietanti, delle tecniche artificiali per forzare o pilotare il concepimento della vita umana, di cui peraltro abbiamo già in larga parte accennato durante la trattazione del quinto comandamento.
Nella visione cristiana dell’amore tra uomo e donna, la vita, come la dottrina classica sul matrimonio sapientemente insegnava, è vista come il bene principale e assolutamente primario dell’unione coniugale, quasi come la sua determinante e imprescindibile ragion d’essere. Il fratello sacerdote di santa Giovanna Beretta Molla, in un’intervista rilasciata all’interno di uno splendido documentario sulla figura della sorella santa, ebbe a dire che “per la Gianna” ogni nuova vita concepita era una festa, un evento che la riempiva di gioia, di cui avvisava tutti i parenti ed amici per invitarli a rallegrarsi con lei, aggiungendo che per ricevere una vita in dono non esitava ad elevare continuamente fervide preghiere a Dio, convinta com’era che la fecondità era segno di grande benedizione e che procreare vuol dire permettere a Dio di creare un’anima destinata alla vita eterna. La vita non deve, pertanto, e non può per nessun motivo essere pensata come una preoccupazione, un fastidio, una minaccia o, nei casi peggiori, una disgrazia, un male da evitare ad ogni costo (anche quello sciagurato ed estremo dell’aborto) o da cui difendersi in ogni caso e con ogni mezzo. Questa mentalità di morte, tanto coraggiosamente denunciata dal beato Giovanni Paolo II nella splendida enciclica Evangelium vitae, deve essere condannata, combattuta, denunciata e boicottata con ogni mezzo lecito e le famiglie cristiane, quelle poche che restano, devono osteggiarla non a chiacchiere, ma coi fatti e nella verità, vivendo l’apertura alla vita nella dimensione massimamente auspicata da Dio e dalla Chiesa: accogliere, come hanno promesso nel giorno del matrimonio, tutti i figli che Dio vorrà donare loro, non quelli che loro vogliono, scelgono o “si programmano”, peraltro quasi sempre col contagocce.
I crimini contro la vita, perché tali sono i mezzi contraccettivi, sono, in ordine di gravità: la spirale, la sterilizzazione diretta, la piccola anticoncezionale, il preservativo e, cosa ignorata da moltissimi fedeli (e parlo per lunga esperienza pastorale), l’interruzione anticipata dell’atto coniugale. Vedremo che anche l’uso dei cosiddetti “metodi naturali”, per essere conforme alla legge e ai voleri di Dio, richiede l’esistenza di alcune condizioni soggettive da parte di coniugi. Di tale materia parlò a chiare lettere il Papa Paolo VI nella combattutissima e contestatissima enciclica Humanae vitae, i cui chiari e coraggiosi insegnamenti sono stati pienamente recepiti dalla nuova edizione del Catechismo della Chiesa Cattolica. Prima di Paolo VI un altro Papa del secolo scorso, Pio XI, scrisse parole illuminanti nell’enciclica Casti connubii, che avremo modo di citare ampiamente. Prima di scendere nel merito delle singole fattispecie, mi permetto, anche qui alla luce di innumerevoli esperienze pastorali, di segnalare che la confusione e l’ignoranza in questa materia largheggiano e che sembra che più di qualche ministro si senta autorizzato a disattendere totalmente le indicazioni del Magistero in materia, contribuendo a confermare nel peccato mortale le coscienze dei fedeli, peraltro non sempre in buona fede, dato che spesso vanno in cerca di confessori di manica larga e senza troppi scrupoli. L’ampia diffusione di costumi perversi nella società contemporanea, in questa come in altre fattispecie del sesto comandamento, non toglie minimamente forza e vigore vincolante alla legge di Dio; ne rende solo, purtroppo, un po’ più difficile l’osservanza, esigendo dai fedeli lo sforzo e il coraggio di andare controcorrente, tenendo alta, senza paura e vergogna, la bandiera della santa fede cattolica.
Il più grave tra i mezzi contraccettivi è la spirale, perché il suo compito non è quello di impedire che l’uovo sia fecondato dal seme maschile, ma quello di impedire l’annidamento dell’uovo fecondato. In altre parole ogni volta che la spirale realizza il suo effetto, lo fa, praticamente, attraverso la realizzazione di un micro aborto, producendo, sul piano degli effetti, lo stesso sciagurato effetto della cosiddetta pillola del giorno dopo, la famosa RU486. Conseguentemente, le donne che si macchiano di tale crimine (di cui rispondono, ovviamente, anche i mariti consenzienti), rispondono davanti a Dio di trasgressione non solo del sesto ma anche del quinto comandamento, giacché è dottrina comune tra i dottori cattolici che l’infusione dell’anima razionale da parte di Dio avviene al momento del concepimento, ossia dal momento in cui i due gameti (maschile e femminile) si fondono nello zigote; pertanto, impedire l’annidamento di un ovulo fecondato equivale a sopprimere una vita umana incipiente.
Gravissimo, inoltre, è il ricorso alla sterilizzazione diretta, purtroppo non infrequente anche in Italia e, come tristemente noto, diffusa e imposta per legge da parte di alcuni sciagurati governi di nazioni straniere. Il fatto è gravissimo per la sua definitività e irreversibilità, togliendo radicalmente al peccatore la possibilità di emendare il suo errore con una successiva conversione, che gli consenta di tornare sui suoi passi aprendosi di nuovo all’accoglimento del dono della vita.
Segue, per gravità, la piccola anticoncezionale, peccato principalmente dalla donna, a cui è equiparabile il ricorso al preservativo, che costituisce un peccato principalmente dell’uomo. Si sappia bene che, in entrambi i casi, il coniuge innocente, per non farsi complice di tale peccato, è tenuto a non acconsentire all’atto coniugale, vigendo in questo caso l’obbligo grave di obbedire a Dio prima e più che al proprio coniuge, per quanto lo si ami e lo si desideri. Per questo non ci si può nascondere dietro il “mia moglie non ne vuole sapere” né dietro il marito che non vuole assolutamente sentir parlare di figli. È necessario armarsi di santo coraggio evangelico ricordando le parole di Gesù: “chi ama il padre o la madre, il figlio o la figlia, la moglie o il marito più di me, non è degno di me”.

Infine qualche parola sull’interruzione del rapporto, peccato antichissimo e severamente stigmatizzato già nella Sacra Scrittura, al capitolo 38 del libro della Genesi (cf Gen 38,4-10). In esso si legge che un certo Onan si univa a sua moglie e “disperdeva [il seme] per terra”. Lapidariamente la Genesi sentenzia: “ciò che faceva non fu gradito al Signore ed egli lo fece morire”. Come già ho accennato, ripeto che molti fedeli ritengono tale peccato mortale “un metodo naturale”, lecito e consentito per evitare la vita. La verità è che l’uomo che lo fa è sempre responsabile di peccato mortale, così come la moglie che glielo chiede o che, sapendolo, vi acconsente. Solo la donna che, dopo aver tentato di dissuadere il marito da tale perversa condotta, si unisce a lui sperando che egli non faccia questa azione cattiva è scusata, secondo gli autori probati, da peccato mortale. Fermo restando tuttavia il suo dovere di insistere con lo sposo perché desista da tale pratica, non escluso, in caso di continua pertinacia e recidiva, e sempre previa consultazione del confessore, il ricorso alla negazione dell’atto coniugale, che in questo caso avrebbe una giusta motivazione.
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Sesto comandamento: Non commettere atti impuri             I PECCATI CONTRO LA SANTITA' DEL SACRAMENTO DEL MATRIMONIO

10/11/2014

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I DIECI COMANDAMENTI - SESTO COMANDAMENTO: Non commettere atti impuri

1. DIVORZIO E ADULTERIO
Abbiamo visto, anche passando in rassegna alcuni testi biblici del Nuovo Testamento, come il sesto comandamento intenda tutelare le dimensioni della santità dell’amore umano aperto alla vita e del corpo umano in quanto tempio dello Spirito Santo. Dobbiamo ora addentrarci nell’analisi dei singoli peccati impuri. A mio avviso è quanto mai opportuno distinguere le singole tipologie in quattro generi di peccato: alcuni, infatti, sono direttamente contrari alla santità del matrimonio; altri colpiscono la vita come frutto naturale dell’amore umano tra un uomo e una donna; altri costituiscono delle aberrazioni della legge naturale; ed altri, infine, sono profanazioni della santità del corpo umano in quanto tale.
Appartengono al primo gruppo l’adulterio, il divorzio, le unioni civili, le libere convivenze e i rapporti prematrimoniali. Il matrimonio è un vero sacramento, istituito da Cristo per sigillare e santificare con la benedizione di Dio il patto coniugale con cui un uomo e una donna, liberamente, si donano l’uno all’altro con atto di consegna totale e indissolubile, valido e vincolante fino alla morte di uno dei coniugi. 
L’adulterio, che in tempi non troppo lontani era perseguito come reato dal Codice Penale italiano, è un gravissimo peccato in quanto infrange la promessa sacra di fedeltà reciproca contratta dai coniugi davanti a Dio. Nei primi secoli di vita della Chiesa, insieme all’aborto e all’apostasia, era ritenuto peccato talmente grave che qualcuno addirittura dubitava che potesse essere rimesso sulla terra dai ministri di Dio. La gravità intrinseca di questo peccato permane assolutamente intatta anche nei nostri sciagurati tempi, dove sembra essere diventato un diversivo o una “variante” del tutto normale della “vita di coppia” (?), oltre ad essere pubblicamente sbandierato e incoraggiato da telenovelas, soap opera, film e telefilm di vario genere. Come tutti i peccati di cui si è realmente pentiti, può senz’altro essere rimesso in questo mondo, ma è necessario quanto mai che i confessori facciano attenzione a verificare la sussistenza di un vero pentimento che, dovendo abbracciare il proposito di non più peccare, richiede nel penitente la promessa di tagliare ponti e contatti con il complice, di evitare ulteriori frequentazioni, di rompere insomma radicalmente e definitivamente questo scellerato legame. A parere di chi scrive, inoltre, è quanto mai inopportuno rivelare l’avvenuto adulterio al coniuge innocente, cosa che compromette gravemente la stabilità del matrimonio. La confessione va fatta a Dio attraverso il confessore e la penitenza data per questo peccato deve essere ovviamente seria e proporzionata, ma raccontare il tutto alla parte innocente, per un malinteso senso di sincerità, è da evitarsi. Si badi, infatti, che il vigente Codice di Diritto Canonico, esprimendo la consapevolezza della ferita mortale che tale delitto infligge al matrimonio, esorta il coniuge innocente che viene a conoscenza dell’adulterio a perdonare generosamente la parte colpevole, ma qualora non dovesse riuscirci le consente addirittura di interrompere, ovviamente pro tempore, la coabitazione. L’adulterio, infatti, costituisce una delle due “giuste cause” canoniche di temporaneaseparazione. Basti questo per comprendere circa la gravità e serietà di questo turpe delitto.
Il divorzio, vera e propria piaga sociale, che ha dilaniato e distrutto migliaia di famiglie e rovinato migliaia di bambini e bambine, costretti a vivere orbati di un genitore, è un altro sciagurato e disgraziato segno della decadenza morale del mondo contemporaneo, che con questo istituto, per imporre il quale sono state fatte delle vere e proprie battaglie sociali (con non pochi cattolici complici o quanto meno conniventi…), ha voluto opporsi direttamente al severo monito di nostro Signore Gesù Cristo, ricordato da ogni ministro nel momento stesso in cui suggella il patto coniugale: “non osi separare l’uomo ciò che Dio unisce”. Il matrimonio è, infatti, per sua natura (e non solo in forza del sacramento) intrinsecamente indissolubile, come appare evidente dal discorso fatto da Gesù per screditare la concessione del divorzio fatta, a suo tempo da Mosè, “a causa della durezza di cuore degli israeliti”, rimandando al progetto originario di Dio che volle l’uomo e la donna, “fin dal principio”, uniti nel vincolo indissolubile di una sola carne (cf Mt 19,1-12). Pertanto qualunque cattolico osi impugnare il matrimonio dinanzi ad una autorità civile, viola direttamente questo comandamento e la sentenza di scioglimento che eventualmente venisse pronunciata non ha, agli occhi di Dio, alcun valore, né tanto meno sono lecite ulteriori unioni con altri partners, siano esse civilmente sigillate oppure vissute come coppia di fatto. Il motivo per cui la Chiesa, ubbidiente al Vangelo, nega ai divorziati risposati o conviventi l’accesso alla santa comunione così come l’assunzione di alcuni uffici ecclesiali (tra cui quello di padrino o madrina di Battesimo e di Cresima) è da ricercare nel fatto che il divorziato o la divorziata che abbiano intrapreso una nuova unione, si trovano “in stato di peccato mortale” momentaneamente irreversibile, in quanto una eventuale confessione sarebbe necessariamente priva dell’elemento fondamentale del pentimento (contrizione unita al proposito di non peccare più) che è la condizione unica per cui Dio concede il perdono al peccatore. Non potendo dunque essere assolti e trovandosi in stato di peccato pubblico (cioè di vero e proprio scandalo) è impossibile l’accesso all’eucaristia (che richiede lo stato di grazia) e agli uffici ecclesiali (che richiedono una situazione esteriore e oggettiva di conformità alle leggi di Dio).
Vorrei chiudere l’argomento divorzio con qualche considerazione di natura personale, anzitutto cercando la causa del fallimento di tanti matrimoni (siamo arrivati a percentuali superiori a uno su tre, per non parlare dell’aumento vertiginoso delle unioni civili di fatto, che in alcune zone del nord Italia hanno ampiamente superato i matrimoni religiosi). Vorrei al riguardo citare una frase che pronunziò la piccola e beata Giacinta di Fatima poco prima di morire (nel lontano 1917): “ci sono molti matrimoni che non piacciono a Dio, non sono da Dio”. Confesso che quando lessi questa frase, diversi anni fa, rimasi perplesso per non dire sconcertato. Come è possibile che nel 1917, in Portogallo, con quel clima di fede profonda, quando tutti si sposavano in Chiesa, alcuni matrimoni non piacevano a Dio? Non sono sigillati da un sacramento? Se ancora non sono riuscito a spiegarmi bene come fosse possibile nel 1917, mi risulta molto meno difficile ipotizzare perché alcuni matrimoni di oggi non piacciano a Dio. Può Dio, infatti, dare la sua benedizione a case costruite sulla sabbia, cioè a coppie che arrivano al matrimonio dopo aver “bruciato tutte le tappe”, con anni di vita sessuale “attiva” alle spalle, con cerimonie che sfiorano il sacrilegio, con spose che si presentano all’altare seminude (ma con abito rigorosamente bianco…) e invitati che fanno loro degno corollario, con coppie che si sposano dopo anni di convivenza senza porre in essere un minimo segno di pentimento, anzi spesso unendo al matrimonio il battesimo del figlio (magari il secondo o il terzo, con i più grandi che fanno da paggetti a papà e mamma…) e con tanto di applauso finale? Sono esempi ovviamente e volutamente provocatori, con cui non si intende generalizzare né tanto meno escludere chi avesse sbagliato dalla possibilità di redimersi e correggersi. Fotografano tuttavia, forse in modo un po’ impietoso, una triste realtà, sempre più diffusa in uno strano e generalizzato silenzio di chi dovrebbe parlare, che di certo non sembra poter avere l’approvazione e tanto meno la benedizione dell’Onnipotente…

2. LIBERE CONVIVENZE E UNIONI CIVILI
Altre due grandissime piaghe purtroppo diffusissime ai nostri giorni sono le unioni civili e le libere convivenze. In attesa dei risultati del censimento del 2011, che fotograferà la situazione reale del fenomeno, i numeri di cui è possibile reperire notizie al riguardo (aggiornati al 2009 per le unioni civili, al 2007 per le libere convivenze) sono quanto mai allarmanti. Nel 2009 sono stati celebrati 144.384 matrimoni religiosi e 86.475 civili. Nel 2008 furono 156.031 matrimoni religiosi e 90.582 civili. Significa che più di un matrimonio su tre viene oggi celebrato davanti al sindaco e non davanti a Dio. Inoltre, nel 2009, in diverse regioni del Nord Italia i matrimoni civili hanno superato quelli religiosi (Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Toscana, Emilia Romagna e Liguria), mentre nel centro, pur prevalendo i matrimoni religiosi, le cifre sono abbastanza ravvicinate (24.173 religiosi contro 19.466 civili). Le libere convivenze, nel 2007, si attestavano ad una percentuale del 12,5%, ma se si fa attenzione il numero dei matrimoni (sia religiosi che civili) è in netto calo, il che significa che le libere convivenze sono in aumento tendenziale.
Le unioni civili, per quanto siano da molti scelte senza rendersi conto dell’estrema gravità che ciò significa per un battezzato, costituiscono un esecrabile oltraggio al sacramento del matrimonio, che, come insegna la Chiesa, è la via unica e normale di celebrazione delle nozze per un fedele di Cristo. La gravità di tale scelta è ribadita dalla disciplina canonica della Chiesa che non consente la “regolarizzazione” della posizione dei fedeli coniugati solo civilmente senza che prima sia istruita una procedura (obbligatoria) di verifica delle disposizioni dei nubendi e del loro pentimento, verifica che sfocia in una relazione da presentare al Vescovo diocesano che deve autorizzare espressamente la celebrazione delle nozze. I parroci in cura d’anime sanno, per esperienza, la sorpresa e lo sbigottimento che manifestano le coppie che si presentano tranquillamente a chiedere il matrimonio religioso dopo aver contratto quello civile. Tuttavia tale disciplina, giustamente severa, contribuisce se non altro a far prendere coscienza della gravità del peccato commesso, da chi, sia pur indirettamente, disprezza il sacramento del matrimonio, come se l’unione coniugale non avesse bisogno della benedizione di Dio e, ancor più, della grazia di Dio, per essere santa, stabile e feconda.
Una simile disciplina, peraltro, non si applica alle libere convivenze, stante il carattere fluttuante e instabile che le caratterizza. A parere di chi scrive, tuttavia, pur essendo vero che in una libera convivenza non si reca un vero e proprio “oltraggio formale” al sacramento (mancando la celebrazione “alternativa” davanti all’autorità civile), esse comunque costituiscono, al pari delle unioni civili, un pubblico scandalo per la comunità cristiana, a cui, inoltre, si unisce sovente l’estrema irresponsabilità di chi vuol vivere come marito e moglie senza prendersi alcuna responsabilità, né verso l’altro, né, spesso, verso eventuali figli. Pur nella loro peccaminosità, infatti, le unioni civili rappresentano un’assunzione di precise responsabilità (anche patrimoniali) almeno su un piano civile, che pongono tale tipologia di “famiglia” in una situazione di tutela giuridica almeno sul piano civilistico di alcuni diritti fondamentali, suscettibili di esecuzione coatta tramite l’autorità giudiziaria nel caso di una loro eventuale lesione e inosservanza. Tutto questo in una libera convivenza non c’è, mentre permane il pubblico scandalo e la grave immoralità degli atti e dei comportamenti, anche sessuali, vissuti in questo stato di vita. 
A questo punto, purtroppo, dovrò aprire nuovamente una parentesi provocatoria, perché una simile diffusione di tali gravissimi mali non sarebbe stata possibile senza connivenze o complicità molteplici. Anzitutto da parte della famiglia di origine dei “conviventi” o degli “sposati civilmente”. Chi scrive si chiede: è giusto o, quanto meno, è educativo o opportuno che un genitore vada tranquillamente al matrimonio al Comune del proprio figlio? È giusto che un genitore non faccia alcuna resistenza alla scelta di un figlio di andare a convivere e riconosca tale “pseudo-famiglia” come se nulla fosse? Dico questo perché c’è, grazie a Dio, una sparuta minoranza di genitori coraggiosi che sono stati capaci di non andare alla cerimonia civile del matrimonio del figlio o di compiere qualche gesto profetico nei confronti di un figlio che si è impuntato nel voler andare a convivere contro la loro volontà (per esempio non accettando inviti a pranzo o a cena in casa dei conviventi prima che la situazione si regolarizzasse…). È ovvio che un genitore, come abbiamo visto trattando del quarto comandamento, non ha il potere di imporre “obbedienze” in senso stretto a un figlio adulto, ma ha comunque il sacrosanto dovere di ricordaregli che Dio e l’osservanza della sua legge vengono al primo posto. Non ha forse detto Gesù che “chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me” (Mt 10,37)? Non ha detto anche che chi non odia il figlio, o la figlia  non può essere suo discepolo (cf Lc 14,26)? L’eroismo richiesto ai genitori in tali circostanze estreme si potrebbe tranquillamente leggere alla luce di questi forti ma quanto mai chiari moniti evangelici.
Anche la comunità ecclesiale, tuttavia, e spesso anche alcuni pastori hanno spesso manifestato una bontà e uno spirito di accoglienza e di comprensione talora alquanto inopportuni e che rischiano di poter essere intesi come una sorta di connivenza con l’errore. Mi chiedo: è possibile celebrare un matrimonio di due conviventi senza chiedere loro un minimo segno di penitenza anche esterna (quale l’interruzione della convivenza prima della celebrazione del matrimonio)? E ciò sia per riparare lo scandalo dato alla comunità cristiana, sia per fugare il sospetto, in chi vi partecipa, che questa possa essere una variante tranquillamente ammissibile, data l’assenza di conseguenze per chi ha sbagliato e non essendoci alcuna differenza di trattamento con chi si sposa essendosi preparato come Dio vuole? Non è ridicolo vedere spose, che celebrano il matrimonio dopo anni di convivenza e con figli, presentarsi all’altare con l’abito bianco? Non è ancora più grave celebrare il Battesimo di un figlio nato da una convivenza durante la celebrazione del matrimonio, con tanto di applauso finale (cosa che, grazie a Dio, alcune Diocesi cominciano espressamente a vietare)? Lascio ai lettori il giudizio su queste provocazioni. A qualcuno potrebbero sembrare inficiate da rigidità eccessiva; ma di certo non si può continuare ad assistere a questi spettacoli senza aprire bocca. La saggezza popolare ha sentenziato: “Chi tace, acconsente”. Penso che non pochi fedeli – e forse anche qualche pastore – farebbero bene a ricordarlo…

3. RAPPORTI PREMATRIMONIALI: BACI, PETTING E FORNICAZIONE
La serie dei peccati impuri formalmente e direttamente contrari alla santità del matrimonio è completata da un’altra gravissima fattispecie oggi quanto mai diffusa: i rapporti prematrimoniali.

Sotto questa categoria rientrano i contatti a carattere precipuamente sessuale che si intrattengono nel tempo precedente il matrimonio, con una gradazione di intensità che, ferma restando la materia grave comune a tutti, vanno dal bacio cosiddetto “profondo” fino al peccato di fornicazione in senso stretto (la vera e propria congiunzione carnale al di fuori del matrimonio).
Prima di scendere nel particolare, è bene fare qualche premessa sul fidanzamento nel disegno di Dio, perché nell’attuale cultura pansessualista, libertina e permissivista senza dubbio alcune indicazioni della morale cattolica potrebbero, ad un osservatore poco formato, sembrare rigide, eccessive o anacronistiche. Ma così non è.
Il fidanzamento, nella prospettiva di ciò che abbiamo ampiamente descritto nelle puntate precedenti, è un tempo in cui si deve operare un discernimento, da parte dei fidanzati, su due distinte ma complementari questioni: primo, se si abbia la vocazione al matrimonio, cioè a vivere l’amore nella forma della donazione totale ed esclusiva ad una creatura, alla cui felicità si dedica ed offre la propria vita, e a collaborare con Dio nel grande compito della procreazione; secondo, se la persona che si sta frequentando o verso cui si nutre stima, interesse, simpatia, è davvero la persona con cui Dio vuole che ci si formi una famiglia. Il fidanzamento, in questo senso, è necessariamente e intrinsecamente caratterizzato dalla precarietà, dall’incertezza e da una certa libertà, di cui i fidanzati non solo possono ma debbono sentirsi in condizione di poter usufruire. L’appartenenza reciproca non solo non è piena, ma semplicemente ancora non c’è. È questo il motivo per cui i grandi maestri di spirito hanno sempre consigliato di evitare fidanzamenti precoci o eccessivamente lunghi. È necessario il raggiungimento di un’età matura in cui si sia già fatto un minimo di chiarezza circa lo stato di vita da scegliere. Inoltre, prima di impegnarsi seriamente in un fidanzamento vero e proprio, operare una prima sommaria valutazione della persona che si ha dinanzi, certo non sufficiente, ma comunque non del tutto mancante.
Alla luce di tale dottrina, i moralisti cattolici (tra cui si distingue per chiarezza e lucidità di pensiero sant’Alfonso M. De Liguori) hanno sempre insegnato che lo “spazio” per eventuali “effusioni” tra fidanzati è ristretto all’affettività, ma è precluso quando si invadono gli ambiti della sensualità o sessualità in senso stretto. Ciò semplicemente perché, fino al matrimonio, i fidanzati non si appartengono l’uno all’altro e non hanno quindi alcun diritto sul corpo dell’altro, che anzi devono rispettare e custodire con somma castità e purezza, anche perché potrebbe accadere che qualcun altro e non il soggetto interessato sia quello che dovrà unirsi in matrimonio con colui con cui si sta insieme.
Rebus sic stantibus, se possono ritenersi leciti alcuni gesti con cui i fidanzati esprimono castamente il loro affetto reciproco scambiandosi tenere e pulite effusioni, la soglia si alza inesorabile quando all’affetto subentra la passione o la libido, che nel periodo prematrimoniale deve essere contenuta, controllata e sacrificata in nome della custodia dell’amore autentico. Non solo dunque il vero e proprio rapporto more uxorio (fornicazione), ma anche i gesti a carattere sessuale atti a stimolare il piacere venereo (tutti, nessun escluso – il lettore ovviamente capirà) costituiscono ciascuno e singolarmente un vero e proprio peccato mortale, anche quando non consegua direttamente il raggiungimento del piacere fisico. Che il bacio profondo fosse peccato mortale era non solo patrimonio comune delle nostre nonne e oggetto di insegnamento molto chiaro e severo da parte dei santi (celebre è il caso di san Pio da Pietrelcina che negò l’assoluzione ad una sua figlia spirituale che, solo una settimana prima del matrimonio, cedette alla tentazione di dare un bacio al fidanzato!), ma costituisce una vera e propria pronuncia dogmatica da parte di Papa Alessandro VII. Ai suoi tempi i teologi lassisti insegnavano che un bacio dato senza il pericolo di “ulteriori conseguenze” fosse peccato soltanto veniale (si badi: neppure i lassisti pensavano che non fosse peccato, ma che fosse peccato “soltanto veniale”). Il Papa, tuttavia, respinse tale dottrina condannando esplicitamente la seguente proposizione: “Probabile è l’opinione che dice che soltanto veniale è un bacio per piacere carnale e sensibile che viene da esso, fin quando non c’è pericolo di ulteriore consenso o di polluzione” (Denz 2060). La sentenza di trova nel Denzinger, che, come tutti i teologi sanno, raccoglie le proposizioni vincolanti in materia di fede e di morale. Nessuno dunque può osare opporvisi o contestarla.
Si pensi, per comprendere la gravità dei rapporti prematrimoniali, alla vicenda eroica della grande santa pontina, la piccola Maria Goretti, che subì un’orrenda uccisione con 14 colpi di punteruolo per non cedere ad una violenza carnale e che, sotto i colpi, aveva come unica preoccupazione quella di tenere abbassate le sue vesti, come ebbe a testimoniare lo stesso aggressore, Alessandro Serenelli. Si badi, a questo proposito, alla speculare vicenda, alquanto sconvolgente, dell’amica di suor Lucia dos Santos, di cui sappiamo il nome “Amelia”, di cui la Madonna, richiesta dalla veggente, disse, nella prima apparizione di Fatima (13.5.1017) che sarebbe dovuta rimanere in Purgatorio fino al giudizio universale. Si trattava di una giovane ragazza che, a differenza di santa Maria Goretti, di fronte ad un tentativo di violenza carnale, per paura di essere uccisa, non si ribellò al suo aggressore. Perché un’espiazione così lunga? La risposta, per chi conosce un po’di catechismo, è molto semplice: mancando il deliberato consenso (anche se la ragazza aveva la piena avvertenza che l’impurità è una colpa grave) il suo non poteva essere un peccato mortale (passibile di Inferno) e quindi da espiare in Purgatorio, come tutti gli altri peccati veniali. Un’espiazione così lunga e, presumibilmente, dolorosa è dunque motivata solo dall’estrema gravità della materia di questo peccato. Riflettano i molti che sottovalutano l’impurità, che pensano che sia normale avere rapporti a dodici anni (cosa purtroppo non rara) o che sorridono dinanzi ai pochi giovani coraggiosi che hanno la forza di mantenere la castità. Su questa materia non si scherza: è sempre grave e intrinsecamente cattiva. Come dicevano i teologi classici, è sempre da ricordare che “in re venerea non datur parvitas materiae”.

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Sesto comandamento: non commettere atti impuri.

9/11/2014

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I DIECI COMANDAMENTI - Sesto comandamento: non commettere atti impuri

Introduzione

Il sesto comandamento rappresenta senz’altro un tema di scottante attualità. Dopo lo sciagurato 1968 e la “rivoluzione sessuale”, il precetto “non commettere atti impuri” è stato letteralmente messo sotto i piedi dalla quasi totalità degli uomini (cristiani compresi), che ritengono anche di poter pacificare la coscienza grazie al beneplacito dell’odierna cultura contemporanea, nudista, iper-erotizzata e pansessualista. Precisiamo subito, che Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre e che, su questa materia, la Legge di Dio non si è mossa (e mai si muoverà) neppure di un millimetro. Le attuali disgraziate congiunture storico-culturali rendono solo estremamente difficile una perfetta osservanza del sesto comandamento, ma nulla tolgono alla sua cogente, immutata e immutabile obbligatorietà.
L’importanza di questo comandamento la si comprende alla luce dell’estrema importanza che tutta la tradizione della Chiesa ha dato a questa materia, per il semplice motivo che gli atti contrari a questo comandamento sono sempre e comunque “gravi” (si pensi all’antico adagio della teologia morale: “in re venerea non datur parvitas materiae”: “in tema di piaceri venerei non esiste materia lieve”) e, purtroppo, per il loro alto “tasso di attrazione” dovuto al godimento che provocano sono quelli più frequentemente commessi. Conseguentemente sono quelli che danno il maggior numero di clienti all’Inferno. La Madonna a Fatima disse chiaramente che “i peccati che portano più anime all’Inferno sono quelli della carne”, aggiungendo che in breve (eravamo nel 1917) sarebbero venute mode che avrebbero offeso molto Dio. Anche uno dei luogotenenti di questo sciagurato luogo (il cui sinistro nome è “Melid”), ha avuto modo di dire queste parole, durante un esorcismo di cui dà testimonianza il reverendo Padre Giuseppe Tomaselli, morto in concetto di santità: “- Melid, più volte ti ho chiesto negli esorcismi: qual è il peccato che manda più anime all’inferno? Tu mi hai risposto: – Non occorre che io te lo dica; tu lo sai. - Secondo me è l'impurità. - Vedi che lo sai! Tutti coloro che stanno nel pozzo infernale, vi si trovano per l’impurità. Hanno fatto anche altri peccati, ma si sono dannati sempre per questo peccato o anche con esso […] Io, Melid, faccio comprendere a costoro che le parole del Cristo sono da disprezzare e non faccio riflettere che con l’Altissimo c'è poco da scherzare. - A te, Melid, piacciono di più i peccati privati, solitari, che non hanno ripercussioni sugli altri, oppure i peccati che danno scandalo e spingono gli altri al male? - Certamente io preferisco gli scandalosi, perché con essi i peccati si moltiplicano. Il mondo è pieno di scandali e perciò io ed i miei compagni stiamo più vicini agli scandalosi, che sono i nostri migliori aiutanti”.

A titolo introduttorio, possiamo dire che questo comandamento è diretto alla promozione e alla tutela della virtù della castità, che non è altro che la capacità di vivere la sessualità in modo autenticamente umano, integrandola all’interno della totalità della persona umana (che è non solo corpo, ma anche emotività, affettività e spiritualità) e nel suo essere intrinsecamente linguaggio di amore atto alla trasmissione della vita. Ad essere casti si impara, ricorrendo fondamentalmente a tre mezzi: volontà ferma di non peccare, fuga dalle occasioni, ricorso ai sacramenti e alla preghiera, specialmente mariana. La castità è una virtù unica, ma che ha diverse espressioni e modalità di esercizio: celibato e verginità consacrata, persone celibi o nubili, fidanzati e coniugati. I consacrati rinunciano all’esercizio fisico della sessualità sublimandola in un amore più grande, che ha Dio come termine esclusivo e tutti gli uomini come termini inclusivi. Anche celibi e nubili devono vivere la castità nella dimensione della continenza, che ha però come motivo l’attesa di scoprire la propria vocazione o di trovare l’uomo o la donna della propria vita. I fidanzati possono vivere, non certo in età prematura, una molto limitata forma di esercizio della sessualità umana, che sia però polarizzata esclusivamente sulla dimensione affettiva senza raggiungere quella dei veri e propri contatti sessuali. La castità coniugale implica la fedeltà reciproca, l’indissolubilità del matrimonio, l’apertura alla vita nel compimento degli atti coniugali, l’uso ordinato e lecito della sessualità umana. Il vizio della lussuria, che si oppone direttamente alla castità, si esplica nei seguenti atti: uso della sessualità al di fuori della relazione al fine di trarne piacere fisico, unione sessuale tra uomo e donna al di fuori del matrimonio, in forma parziale o totale, adulterio, uso di metodi contraccettivi contrari alla legge morale, rapporti sessuali contro natura, prostituzione, stupro, incesto, pornografia, poligamia, inseminazione, omosessualità, perversioni sessuali, divorzio, convivenze e matrimoni civili. Il fatto che la materia del sesto comandamento sia in se stessa sempre e intrinsecamente grave, ha come conseguenza il fatto che tutti i peccati impuri compiuti con piena avvertenza e deliberato consenso costituiscono veri e propri peccati mortali. 

IL PECCATO IMPURO NEL NUOVO TESTAMENTO

Il punto fondamentale da comprendere è che le numerose proibizioni e divieti coperti da questo comandamento rappresentano una sorta di siepe e baluardo perché possa essere vissuto, felicemente e santamente, uno dei più bei misteri della vita terrena: il mistero dell’amore umano. L’amore, parola oltremodo inflazionata, è ciò che tutti vogliamo e cerchiamo, verso cui ci sentiamo irresistibilmente attratti, ma sovente ne constatiamo tristemente l’assenza o la scomparsa: cerco amore e non lo trovo, voglio amare e non ci riesco… Come mai? Personalmente, quando mi trovo a parlare del tema dell’amore con gli adolescenti lancio una provocazione ironica: “Ricordate, ragazzi, che l’ottavo comandamento proibisce di dire le bugie e alla vostra età spesso se ne dice una grossa quanto una casa”… “Ma che dici, don? Quale sarebbe?”. “Ve lo dico subito, ragazzi. Avete mai detto a qualcuno: ‘ti amo’? Bene, sappiate che in età adolescenziale questa è quasi sempre una bugia… per dire la verità basta sostituire una consonante, mettendo una “m” al posto di una “t”… Mi amo, non ti amo”.
L’amore, infatti, anche e soprattutto quello tra uomo e donna che ne è un po’ l’emblema, consiste fondamentalmente, come ha luminosamente insegnato papa Benedetto XVI nell’enciclica “Deus caritas est”, in un movimento che parte dall’io e termina al “tu”: è un volere il bene dell’altro, desiderare il bene, fare il bene, adoperarsi per la felicità dell’altro… Mi tornano in mente le parole della prima lettera che santa Giovanna Beretta Molla scrisse a Pietro Molla: “dimmi cosa devo fare per renderti felice”… Aveva trentadue anni e stavano per fidanzarsi… Una splendida sintesi dell’amore di coppia: spendermi perché tu sia felice.
Purtroppo questo splendido mistero è stato minato alla radice dal peccato originale e dai molti peccati attuali, per cui dietro tante dichiarazioni d’amore (purtroppo non solo tra adolescenti) c’è spessissimo un neanche troppo celato egoismo… Non far felice l’altro, ma cercare la propria felicità, la propria gratificazione, il proprio piacere attraverso l’altro, talora strumentalizzandolo, a volte addirittura asservendolo. Nient’altro che una colossale bugia o, se si preferisce, una gigantesca illusione.
Pertanto prima di addentrarci nelle singole tipologie di peccato contro il sesto comandamento, è anzitutto da ribadire che i divieti e le proibizioni in tema di morale sessuale sono delle indicazioni e dei moniti che ci indicano le varie modalità in cui questo stupendo mistero creato da Dio, il rapporto tra uomo e donna, luogo dell’amore e della vita, può diventare la tomba dell’uno e dell’altro. Non più un donarsi totalmente fino ad essere “una sola carne” (come insegna Gesù sulla scia del libro della Genesi) per cooperare con Dio alla generazione della vita, ovvero l’amore che si autotrascende nella generazione, ad immaginazione del vortice di vita trinitaria; ma un usarsi per scopi bassi e brutali, rinnegando ed escludendo la vita in via preventiva o, peggio, in via successiva (con l’orribile delitto dell’aborto, di cui abbiamo già ampiamente parlato).
Infine è bene passare in rassegna, come sempre abbiamo fatto, alcuni passi significativi della Sacra Scrittura in merito a questo comandamento, cosa tanto più necessaria in quanto non poche persone (e non solo tra i più giovani) ritengono le norme della morale sessuale cattolica “invenzioni” di qualche vescovo o prete un po’ retro’, demodé, o sessuofobo, completamente al di fuori del tempo e della cultura in cui viviamo. Ci renderemo così subito conto che non solo la Sacra Scrittura ne parla, ma con un linguaggio così chiaro e severo che non lascia adito a dubbi o problemi di interpretazione. Per cui a chi interessa sinceramente cosa Dio pensa, non resta che piegarsi all’evidenza ed eloquenza delle parole che stiamo per ascoltare.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli il corpo non è per l’impudicizia, ma per il Signore. Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta? Non sia mai! O non sapete voi che chi si unisce alla prostituta forma con essa un corpo solo? I due saranno, è detto, un corpo solo. Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito. Fuggite la fornicazione! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà alla fornicazione, pecca contro il proprio corpo. O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo! (1Cor 6,13.15-20)


Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi 
La volontà di Dio è la vostra santificazione: che vi asteniate dalla impudicizia, che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto, non come oggetto di passioni e libidine, come i pagani che non conoscono Dio; che nessuno offenda e inganni in questa materia il proprio fratello, perché il Signore è vindice di tutte queste cose, come già vi abbiamo detto e attestato. Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione. Perciò chi disprezza queste norme non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo Santo Spirito (1Ts 4,3-7)


Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Galati
Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio (Gal 5,19-21)


Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi 
Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria, cose tutte che attirano l’ira di Dio su coloro che disobbediscono (Col 3,5-6)


Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesini
Quanto alla fornicazione e a ogni specie di impurità o cupidigia, neppure se ne parli tra voi, come si addice a santi; lo stesso si dica per le volgarità, insulsaggini, trivialità: cose tutte sconvenienti. Si rendano invece azioni di grazie! Perché, sappiatelo bene, nessun fornicatore, o impuro, o avaro - che è roba da idolatri - avrà parte al regno di Cristo e di Dio (Ef 5,3-5)


Dalla lettera di san Giuda apostolo
Ora io voglio ricordare a voi, che già conoscete tutte queste cose, che il Signore dopo aver salvato il popolo dalla terra d’Egitto, fece perire in seguito quelli che non vollero credere. Così Sodoma e Gomorra e le città vicine, che si sono abbandonate all’impudicizia allo stesso modo e sono andate dietro a vizi contro natura, stanno come esempio subendo le pene di un fuoco eterno (1,5.7)

L’elenco potrebbe infoltirsi di molto, ma basti quanto detto. Questi passi assai emblematici sono indubbiamente la migliore e più efficace introduzione alla serietà e gravità di questo tema…
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Quinto comandamento: Non uccidere

20/10/2014

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I DIECI COMANDAMENTI - Quinto comandamento: Non uccidere

Il quinto comandamento è uno dei più noti e conosciuti a tutti i livelli, avendo come materia la tutela della vita umana da ogni forma di illegittima aggressione e privazione ed essendo, in parte, recepito da tutti i codici penali di ogni tempo e di ogni luogo. La formulazione antica recitava “non ammazzare” a differenza della moderna che riporta “non uccidere”. Non è una sottigliezza linguistica: la prima accezione, infatti, sottolinea che è proibito uccidere una vita umana innocente senza una giusta causa, concetto che non è così immediatamente evidente nella più generica odierna dizione. Ognuno infatti comprende che se uccidere fosse una sorta di male assoluto, bisognerebbe tacciare come peccatore un agente di pubblica sicurezza che, per difendere una scuola da una strage di uno squilibrato, fosse costretto a usare la forza, a sparare e, al limite, uccidere per salvare vite umane innocenti.
Da queste primissime battute si comprende subito come questo comandamento, apparentemente di facile comprensione e di facile applicazione (tutti sono convinti di non aver mai ucciso nessuno…), necessita di molte precisazioni e chiarimenti onde comprendere bene quali sono i valori che intende tutelare, come, quando e entro che limiti,  e qual è il suo oggetto. Esso si identifica con la vita, anzitutto quella fisica, ma non solo. E’ stato infatti Gesù in persona a dare l’interpretazione autentica di questo comandamento quando, nel discorso della montagna, ebbe a pronunciare queste memorabili parole: “Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna. Se dunque presenti la tua offerta sull`altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all`altare e và prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono. Mettiti presto d`accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l`avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione. In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non abbia pagato fino all`ultimo spicciolo!”. (Mt 5,21-26). Come è evidente Gesù allarga l’oggetto del comandamento, facendo considerare che la vita dell’uomo non è solo quello fisica-biologica ma anche (se non soprattutto) quella morale, per cui offendere o addirittura calpestare la dignità altrui, avere spirito litigioso ed essere recalcitranti verso la riconciliazione in caso di lite sono peccati contro il quinto comandamento, alcuni dei quali mortali (“sarà sottoposto al fuoco della Geenna”) anche se spesso commessi con estrema leggerezza. Possiamo dunque concludere che l’oggetto di questo comandamento è la vita umana in senso largo, intendendo con ciò anzitutto la vita fisica dell’uomo, ma comprendendo anche la tutela della dignità e onorabilità della persona umana da ingiuste e indebite aggressioni.

Un’ultima precisazione. Di questi tempi circolano varie teorie sull’inizio e la fine della vita umana, alcune delle quali fondate su strampalate e sofistiche farneticazioni, ammantate tuttavia sotto il velo intangibile della “verità scientifica”. Tanto per fare qualche esempio, alcuni laicisti di bassa lega chiamano l’embrione umano “ammasso di cellule”, identificando l’inizio di una vera vita umana con la presenza dell’attività cognitiva cosciente, con il chiaro intento di togliere la dignità di persona all’embrione e arrogarsi il diritto di poterlo sopprimere (con l’aborto) o di poterlo manipolare (con le varie forme di fecondazione in vitro, o con i vari congelamenti a fine di studio ed eventuale “estrazione” di materiale organico a scopi terapeutici) a proprio piacimento e a “coscienza tranquilla”. Questa teoria si smentisce non certo con il ricorso alle verità di fede (che in ogni caso la combattono e la avversano), cosa che presterebbe il fianco a veder relegata la tutela di un bene così importante al margine di quella che chiamano una “confessione religiosa” (“i cattolici credono questo, ma la scienza dice un’altra cosa”…), ma con il ricorso ai dati fornitici dalla genetica e pienamente conoscibili e comprensibili dalla ragione, illuminata anche solo dal lume naturale del buon senso e della consequenzialità logica. La genetica, infatti, afferma che il processo della vita umana comincia quando i gameti (cellule finalizzate alla riproduzione, contenenti i cromosomi del padre e della madre con relativo patrimonio genetico) si incontrano e, scindendosi e unendosi, danno vita ad una nuova cellula, composta dalla metà dei cromosomi del padre più la metà di quelli della madre, chiamata zigote. Orbene, questa cellula è una realtà completamente nuova e diversa da quelle precedenti e possiede già tutto il patrimonio genetico della persona adulta. In altre parole il passaggio dallo zigote “Leonardo” (prendo a prestito il mio nome) all’uomo adulto “Leonardo” (oggi, per grazia di Dio, anche “don”!!!) è solo questione di tempo, di sviluppo e crescita intrinseca di ciò che è già pienamente sussistente. La legge civile (almeno italiana) conferma almeno in parte questo asserto, riconoscendo i diritti successori del nascituro (si legga l’articolo 462 del Codice Civile), pur subordinando all’effettiva nascita del concepito l’acquisto della capacità giuridica. L’esistenza di questa norma testimonia che l’ordinamento giuridico presume che un essere concepito, salvo incidenti di natura o di forza maggiore, nascerà, assumendo lo status di figlio o parente del defunto che aveva già nel grembo della madre, nella linea di una (ovvia) perfetta identità tra embrione, feto e neonato. Pur dinanzi a tali evidenze di scienza e di ragione (prima, lo si ribadisca, che di fede), vedremo gli innumerevoli specchi in cui si sono arrampicati e le vergognose astuzie farisaiche a cui sono ricorsi alcuni signori per giustificare, contro la ragione e il buon senso (oltre che contro la fede e la legge di Dio), l’abominevole delitto dell’aborto, l’infamia delle manipolazioni genetiche e, in alcuni paesi d’Europa, la bieca barbarie dell’eutanasia. 


OMICIDIO, SUICIDIO, ABORTO E EUTANASIA

Abbiamo cercato di delineare l’oggetto formale del quinto comandamento, precisando che esso si specifica direttamente e primariamente nella tutela della vita umana dal punto di vista fisico, ma aggiungendo che il suo ambito si estende alla tutela della vita umana in senso largo, proibendo ogni forma di indebita violazione della dignità della persona. Prima di iniziare la disanima delle singole fattispecie concrete che cadono sotto l’oggetto del quinto comandamento, è bene ricordare la verità di fede che lo anima e lo informa: Dio è vita, è l’autore della vita, è il creatore della vita ed è l’unico Signore della vita, Colui che solo ha il diritto di darla e di toglierla come vuole, quando vuole e a chi vuole. Tutti gli enti creati ricevono da lui, che solo li possiede per essenza e in forma piena e perfetta, l’essere e l’esistenza e alcuni fra di essi (le creature intelligenti, cioè gli angeli e gli uomini) ricevono anche l’immagine e somiglianza con il Creatore, che rende le loro vite sacre e preziose e, in quanto tali, assolutamente indisponibili ad ogni forma di aggressione, violazione e arbitraria manipolazione.
La prima grave violazione del quinto comandamento avviene con i gravissimi peccati dell’omicidio e del suicidio, attraverso i quali un uomo toglie a un suo simile o a se stesso la vita senza una giusta e gravissima motivazione. Precisiamo subito che mentre in presenza di alcune giuste cause (legittima difesa o esercizio corretto delle funzioni di pubblica sicurezza o dell’attività militare) l’omicidio perde il carattere di peccaminosità, per il suicidio, secondo l’opinione più comune, ci possono solo essere circostanze che diminuiscono agli occhi di Dio la responsabilità morale del suicida, ferma restando l’intrinseca e irreversibile peccaminosità dell’atto. È per questo che fino a qualche tempo fa, la Chiesa proibiva la celebrazione delle esequie del suicida e oggi le consente solo qualora sia chiaro che esso sia avvenuto in presenza di circostanze che possano far presumere uno stato di disperazione o comunque di gravissima instabilità e disagio psico-emotivo della persona e non quando questo sia stato perpetrato con coscienza lucida in spregio della morale cattolica (si pensi, tanto per fare un esempio molto noto, alla giusta negazione delle esequie in seguito al caso di Piergiorgio Welby, al quale nel 2006 fu praticata l’eutanasia con il suo pieno e deliberato consenso). 
Strettissimamente connessi con queste prime due fattispecie sono gli esecrandi delitti dell’aborto e dell’eutanasia. Il primo, infatti, altro non è se non un gravissimo omicidio aggravato ulteriormente da due circostanze ed il secondo non è nient’altro che un suicidio che, pur ammantato di ”nobili motivazioni e fini”, non è nient’altro che un’usurpazione del diritto, spettante a Dio solo, di stabilire la fine della vita umana.
Che l’aborto fosse un abominevole delitto, come giustamente lo definiva già la Costituzione pastorale del Concilio Vaticano II Gaudium et Spes nel 1965 (cf GS 51) era oltremodo chiaro alla coscienza della Chiesa primitiva, che considerava l’aborto uno dei peccati in assoluto più gravi (insieme all’apostasia e all’adulterio) fino al punto che più di qualche autore, anche molto ragguardevole, metteva in dubbio la possibilità che potesse essere assolto in questa vita. È abominevole perché colpisce un essere umano (un veroessere umano, come la vera e onesta scienza conferma e non un ammasso di cellule come alcuni pseudo-scienziati si sforzano di far credere) assolutamente indifeso (prima circostanza aggravante) attraverso la persona alla cui custodia e protezione quest’essere è affidato e che, per compiere un atto tanto grave e spregevole, deve vincere un istinto naturale fortissimo presente anche nelle specie più efferate di mammiferi (seconda circostanza aggravante). Nonostante teli evidenze, è stato necessario ribadire la grave peccaminosità intrinseca del delitto di aborto attraverso un intervento magisteriale forte e preciso da parte del beato Papa Giovanni Paolo II, che nella lettera enciclica Evangelium Vitae (1995) scrisse a chiare lettere: “Con l'autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi — che a varie riprese hanno condannato l'aborto e che nella consultazione precedentemente citata, pur dispersi per il mondo, hanno unanimemente consentito circa questa dottrina — dichiaro che l'aborto diretto, cioè voluto come fine o come mezzo, costituisce sempre un disordine morale grave, in quanto uccisione deliberata di un essere umano innocente. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale” (EV 62). Subito dopo il beato Pontefice aggiunge, rincarando ulteriormente la dose: “Nessuna circostanza, nessuna finalità, nessuna legge al mondo potrà mai rendere lecito un atto che è intrinsecamente illecito, perché contrario alla Legge di Dio, scritta nel cuore di ogni uomo, riconoscibile dalla ragione stessa, e proclamata dalla Chiesa” (ibidem).
L’eutanasia, dal canto suo, come abbiamo accennato, non può non essere annoverata tra le forme di vero e proprio suicidio volontario. Nell’enciclica appena citata, il Papa, dopo aver operato gli opportuni distinguo tra eutanasia e accanimento terapeutico, precisando che “la rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all'eutanasia; esprime piuttosto l'accettazione della condizione umana di fronte alla morte” (EV 65), afferma senza esitazione: “Fatte queste distinzioni, in conformità con il Magistero dei miei Predecessori e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l'eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale. Una tale pratica comporta, a seconda delle circostanze, la malizia propria del suicidio o dell'omicidio” (EV 65).

È quanto mai necessario che i cattolici siano ben formati su queste delicatissime ed attualissime dottrine ed abbiano il coraggio di annunciare senza timore e senza esitazioni il Vangelo della vita, in modo tanto più urgente e chiaro quanto subdole e reiterate continuano ad essere le aggressioni dei nemici di Dio, che dopo essere riusciti a legalizzare l’aborto vorrebbero fare altrettanto con l’eutanasia, che peraltro già è legge in alcuni stati europei. La vita è bene indisponibile, sempre e comunque. Non si tema di alzare la voce per gridarlo ai disgraziati uomini del nostro tempo.


AMNIOCENTESI, FECONDAZIONE ARTIFICIALE, MANIPOLAZIONI GENETICHE

Affianco all’aborto e all’eutanasia, si collocano alcune fattispecie nuove e moderne di veri e propri crimini contro la vita umana: l’amniocentesi, la fecondazione artificiale e le manipolazioni genetiche.
L’amniocentesi è una particolare procedura che consente di fare una diagnosi prenatale circa lo stato di salute di un feto. Essa è moralmente inaccettabile per due motivi: 1) perché si tratta di un processo invasivo che pone a repentaglio la vita del feto; 2) perché il motivo per cui viene praticata è quello del ricorso ad un eventuale aborto terapeutico (o eugenetico), ovvero all’eliminazione di un feto affetto da malformazioni o da malattie non curabili. Esistono altri sistemi (perfettamente leciti, come l’ecografia) per monitorare lo stato di salute di un feto e predisporre eventuali rimedi e accorgimenti in presenza di problemi suscettibili di qualche soluzione.
La fecondazione artificiale, come è noto, consiste nel riprodurre in provetta (“in vitro”) il processo di fecondazione e generazione umana, con successivo impianto nell’utero della donna di una serie di ovuli fecondati, nella speranza che almeno uno sopravviva alla gravidanza. Senza anticipare alcune considerazioni che faremo a suo tempo, allorquando tratteremo del sesto comandamento, è evidente che quand’anche non sussistessero (come di fatto sussistono) serie riserve sulla liceità di “fabbricare in laboratorio” una nuova vita violando la legge naturale, tale pratica pone in essere dei veri e propri aborti preventivati, accettati e realizzati. La famosa legge 40 italiana (sostenuta, come si ricorderà, anche da ambienti ecclesiali) aveva come unico merito (se è lecito esprimersi così) il fatto di limitare per legge il numero di impianti di embrioni possibile (non più di tre) a fronte di legislazioni di altri paesi europei che, non ponendo alcun limite, causavano la morte di decine di embrioni ad ogni tentativo di fecondazione in vitro. Oltre a questo la medesima legge ha l’ulteriore “merito” di proibire la clonazione e la fecondazione eterologa. In ogni caso, chi ricorre a questa pratica sa che alcuni degli embrioni “creati” in provetta moriranno; e ciò rende questa tecnica gravemente contraria al quinto comandamento oltre che, come ribadiamo e vedremo a suo tempo, alla santità e alla dignità dell’amore umano in quanto luogo e culla della vita. La difesa della legge 40 (che è comunque moralmente inaccettabile) da parte di ambienti ecclesiali fu fatta in nome del “male minore” concretamente praticabile nella situazione di fatto e per impedire i gravissimi eccessi tuttora vigenti in molti paesi europei.
Le manipolazioni genetiche sono tutta quella serie di esperimenti e di studi praticati su embrioni umani creati “ad hoc” per questi fini. Penso che più o meno tutti i lettori avranno tante volte sentito parlare del famoso problema delle cellule staminali, che gli scienziati “laicisti” vorrebbero estrarre da embrioni umani al fine di curare malattie serie o addirittura mortali, non esclusi i tumori. Le cellule staminali altro non sono che cellule “totipotenziali”, ovvero, per usare un linguaggio comprensibile, ad uno stadio di maturazione non ancora completo che le rende non ancora “specializzate” e quindi capaci di “prendere la direzione” che eventualmente si dia loro attraverso un procedimento pilotato in laboratorio. Illustri scienziati e medici cattolici (un nome su tutti: il professor Angelo Vescovi), dopo aver confermato l’importanza di tali cellule soprattutto per la scienza medica, hanno però dimostrato che non è affatto necessario andarle a cercare tra gli embrioni, anzi le cellule estratte da organismi adulti (sia dello stesso paziente che di altri) producono e hanno un’efficacia assai maggiore di quelle estratte da embrioni di pochi giorni di vita. Quand’anche ciò non fosse vero (come invece lo è, come dimostra la fine delle polemiche roventi dopo tanti polveroni sollevati), “usare” un embrione umano come mezzo per fini anche santissimi e utilissimi, è totalmente inaccettabile dal punto di vista morale e rappresenta un’ulteriore e grave violazione del quinto comandamento. Su questo punto perfino un ateo come Kant, con la sua “morale laica”, sdottoreggiava che la persona umana deve essere sempre trattata come fine e mai come mezzo… Se ci era arrivato un campione di “ateismo illuminato” come il celebre filosofo tedesco, non si riesce a capire da quale fonte (malefica) sia stata ottenebrata la mente di tanti suoi moderni seguaci… Diverso discorso, ovviamente, è da farsi con gli embrioni di specie animali, che possono essere utilizzati per sperimentazioni di vario genere (per esempio per verificare l’efficacia di vaccini o medicinali), purché non si causino loro sofferenze abnormi, gratuite oppure sproporzionate ai fini. Un animale è infatti una creatura di Dio e come tale va accolta e rispettata, ma sottomessa all’uomo e pertanto lecitamente utilizzabile per fini buoni all’unica condizione che gli si risparmi un’eccessiva e inutile sofferenza.
A questo proposito, per concludere questa prima parte dedicata a temi che oggi si chiamano di “bioetica” (etica della vita), è opportuno spendere una parola su uno dei paradossi assurdi e mostruosi di questi nostri malati tempi: l’animalismo. È noto infatti che i fautori più accaniti del libero aborto, della libera eutanasia, della libera fecondazione e delle libere manipolazioni gridano allo scandalo e si stracciano le vesti se vedono un cane abbandonato d’estate oppure se si incaglia un delfino in qualche scogliera, o se si apre la nuova stagione della caccia o sciocchezze del genere. Prolificano associazioni di ogni tipo a tutela degli animali e si tratta come carne da macello la vita umana. Intendiamoci bene: nessuno sta dicendo (o vuole dire) che si possa torturare o massacrare gli animali a proprio piacimento. Si vuole tuttavia denunciare con forza l’inaccettabile inversione dei valori per cui si scatena un putiferio per impedire che il Panda si estingua e si accetta la continua e ininterrotta carneficina di esseri umani perpetrata (a spese nostre, circa 5000 euro a aborto!) nelle sale dei più moderni e sofisticati ospedali del mondo.

Il Signore ha creato tutte le creature perché siano sottomesse all’uomo e l’uomo come signore del creato, l’unico creato a sua immagine e somiglianza. La vita umana ha pertanto dignità unica e assolutamente inviolabile. Le altre meritano rispetto e considerazione, ma possono essere sacrificate (per giuste e nobili cause) all’interesse dell’uomo, in maniera perfettamente conforme alla volontà di Dio. Non dimentichiamolo mai e non cessiamo di proclamarlo con chiarezza e fermezza.


INGIURIE, OFFESE, LITI E IMPRECAZIONI

Nel celebre discorso della montagna, in cui Gesù affermò chiaramente di voler dare “pieno compimento” (cioè “completamento”) alla legge mosaica (cf Mt 5,17), espressa in primis nei precetti del decalogo, Egli volle puntualizzare la modalità in cui la Sua Legge nuova si innestava su alcuni comandamenti specifici, tra cui il quinto. Sentiamo le sue splendide e chiarissime parole: “Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna. Se dunque presenti la tua offerta sull`altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all`altare e và prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono. Mettiti presto d`accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l`avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione. In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non abbia pagato fino all'ultimo spicciolo!” (Mt 5,21-26). Dal tenore del testo, di comprende come Gesù faccia riferimento a una vasta gamma di fattispecie: dall’ira all’offesa, da questa alla litigiosità, alla discordia, al rancore. Speriamo che queste parole di Gesù e il doveroso commento che meritano contribuiscano a sfatare il luogo comune tanto noto ai confessori: “padre, io non faccio peccati, perché non ammazzo e non rubo”. Chi comprende bene questo Vangelo dovrà correggere questa tendenza a troppo frettolose e incaute “auto-assoluzioni”.
Già l’ira, secondo Gesù, quando è rivolta ad un proprio simile è un vero e proprio peccato veniale. Più grave è l’ingiuria o insulto lieve (dire “stupido”), mentre diventa peccato mortale (si badi!) l’offesa grave al proprio fratello (“sarà sottoposto al fuoco della Geenna”, cioè andrà all’Inferno!). L’offesa grave contro il proprio fratello può compiersi nella forma dell’imprecazione diretta(augurare il male ad una persona, dicendo espressioni tipo: “ti prenda un accidente”, “ti colga la morte” o altre più triviali che tralasciamo per ovvi motivi), dell’ingiuria grave (mortificare gravemente con insulti pesanti una persona, volgari o non volgari che siano), oppure dell’odio manifesto e manifestato, con parole pesanti o con atteggiamenti non equivoci. Si pensi a quanto questi gravissimi peccati sono oggi diffusi, anche attraverso i mezzi di comunicazione, le scene inguardabili che si vedono nei “talk-show” e che coinvolgono, talora, anche pubbliche personalità, parlamentari e onorevoli, che non hanno più un briciolo di ritegno e dignità. Si pensi alla vergognosa diffusione dei “reality-show” dove il campionario di insulsaggini, trivialità, volgarità, beceraggini e cafonate è spiattellato sotto occhi compiacenti di milioni di spettatori (a parere di chi scrive, chi guarda questi orridi e immorali spettacoli non può certamente ritenersi esente da peccato mortale).
Logico corollario di questo discorso è che Dio non accetta alcuna offerta presentata ai suoi altari che non sia preceduta dalla grande offerta della carità fraterna, cioè la pace e la concordia con tutti. Si badi che Gesù non dice di perdonare prima di presentare l’offerta all’altare (il perdono lo esige e lo raccomanda in un’altra sezione del discorso della montagna come nella parabola del servo spietato), ma di riconciliarci con chi ce l’ha con noi, presumibilmente perché gli abbiamo fatto qualcosa. Dunque non perdonare, ma chiedere perdono a chi abbiamo offeso, prima di presentarci davanti a Dio, cosa che per la nostra superbia è spesso ancora più difficile e ostico che concedere il perdono. Inoltre raccomanda di farlo, addirittura, non prima della comunione, ma prima dell’offertorio!!! Significa che l’essere in discomunione con qualcuno perché l’ho offeso è cosa talmente grave agli occhi dell’Altissimo da rendere non accetto il sacrificio rituale. Ora, quanta gente non solo rimane tranquilla all’offertorio ma si accosta senza alcuno scrupolo alla santa comunione dopo aver vomitato veleno a destra e a sinistra, stando in lite con Tizio, non parlando con Caio e serbando odio, rancore e desideri di vendetta vari con Sempronio? Si badi alle parole di Gesù: “vatti prima a riconciliare e poi torna ad offrire il tuo dono”. Altrimenti Dio si girerà dall’altra parte, perché tra i sacrifici a Lui sommamente graditi (oltre a quello dell’ubbidienza a Lui, che è il primo) c’è anzitutto quello del balsamo dell’amore vicendevole che i suoi figli devono avere con tutti. Si potrebbe obiettare: e se io vado a riconciliarmi e il mio fratello non vuole saperne? In tal caso agli occhi di Dio sono giustificato e posso sentirmi tranquillo, perché san Paolo, probabilmente con l’intenzione di chiosare questo insegnamento Gesù, scrive limpidamente ai Romani: “Se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti” (Rm 12,18). 
Che dire infine delle vergognose liti tra fratelli e familiari per questioni ereditarie, che danno luogo a rotture gravissime e lunghissime, seminando tristezze, malcontenti, malanimi? Io so di gente che non è stata nemmeno al funerale del fratello o della sorella con cui era in lite, di gente che ha tolto la parola ai genitori, per qualche miserabile spicciolo di eredità o questioni di vera e propria lana caprina. Gente che non ha nessunissima vergogna di presentarsi al sacerdote osando ricevere la Sacra Particola, convinta di essere dalla parte del giusto e che quello che fa sia tutto normale… Se Gesù ha raccomandato la composizione pacifica delle liti con tutti, come esorta nell’ultima parte della pericope evangelica che stiamo analizzando, cosa farà a questa gente, cosa dirà loro? Come possono essere tanto miopi da non vedere il baratro e la fossa in cui camminano?

Ci sarebbe molto da dire su un altro grave peccato, analogo ai precedenti, contro questo comandamento ovvero l’invidia, peccato che quasi tutti commettono ma che quasi nessuno confessa, direttamente contrario alla carità fraterna, luciferino in senso stresso e oltremodo odioso, soprattutto quando prende la forma delle gelosie assurde e inutili tra fratelli, tra marito e moglie, tra amici e non di rado addirittura tra parrocchiani!!! Si ricordino bene, al riguardo e a mo’ di conclusione queste parole dell’Apostolo delle genti: “Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio” (Gal 5,19-21). Come si vede sono “opere della carne” non solo quelle contrarie al sesto comandamento (su cui torneremo a suo tempo) ma anche “inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni e invidie” (tutti peccati contrari al quinto) e che anche per queste è pronunziata la severa minaccia: “chi le compie non erediterà il regno di Dio”.
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Quarto comandamento: Onora il padre e la madre

24/9/2014

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I DIECI COMANDAMENTI - Quarto comandamento: Onora il padre e la madre

Il quarto comandamento è il primo e il più importante della serie dei precetti dedicati all’amore del prossimo, comunemente designati come “seconda tavola”. La sua formulazione originaria, cristallizzata nel libro dell’Esodo, lega al suo adempimento la benedizione della longevità: “Onora tuo padre tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore tuo Dio” (Es 20,12). L’oggetto proprio e formale di questo comandamento è dunque costituito dai doveri dei figli verso i genitori, ma, secondo la dottrina tradizionale, si estende ad ogni forma di autorità costituita (doveri degli alunni verso i docenti, dei cittadini verso lo Stato, dei “sudditi” verso i “superiori”, etc.) e sottintende i reciproci doveri di ogni legittima autorità verso i propri sottoposti (dei genitori verso i figli, delle autorità dello Stato verso i cittadini, dei fedeli verso i sacerdoti, etc.).

L’ambito di estensione del quarto comandamento, rebus sic stantibus, abbraccia, sia pur per accidens, istituzioni e situazioni la cui problematica è di strettissima attualità: la famiglia, la moralità delle leggi dello Stato, l’educazione, tanto per citarne qualcuna. Inevitabilmente, pertanto, la trattazione di quest’argomento richiederà delle ponderate considerazioni su tali tematiche, tanto più urgenti quanto più grande sembra farsi la confusione e lo smarrimento su alcuni secolari capisaldi del pensiero e della cultura occidentale, che qualcuno vorrebbe frettolosamente mettere nel dimenticatoio o in una sorta di museo di istituzioni anacronistiche.

Il quarto comandamento, come già il terzo, è espresso in forma positiva e prescrive di “onorare” il padre e la madre. Qual è il contenuto dell’onore dovuto ai genitori? Per comprenderlo, è bene passare in rassegna i vari comportamenti da tenere nelle relazioni con gli altri in base alla virtù cardinale della giustizia, che configurano altrettante virtù con i relativi atti. Essi sono: adorazione, venerazione, onore, rispetto. L’adorazione è dovuta a Dio solo, Creatore e Signore di tutte le cose, come atto supremo di riconoscimento della sua assoluta santità ed eccellenza, a cui è dovuta ogni lode, onore e gloria oggi e sempre nei secoli. Lavenerazione è invece dovuta alle creature moralmente meritevoli, la cui eccellenza è attestata dal vivere secondo virtù: tra esse, la prima a cui è dovuta la venerazione (anzi la “iper-venerazione” o “iperdulia”) è la Madonna, seguita dai santi. Per la verità anche nel consorzio civile è conosciuta una variante laica di questa virtù, con i vari riconoscimenti civili o militari al merito, che ha peraltro un suo parallelo anche nelle onorificenze ecclesiastiche (tutti i lettori avranno certamente conosciuto qualche “monsignore”…). L’onore è l’atteggiamento dovuto alle legittime autorità costituite ed è loro dovuto a prescindere dalle qualità soggettive di esse. È molto importante chiarire da subito quest’aspetto essenziale: mentre la venerazione presuppone l’eccellenza morale del suo destinatario, non così l’onore dovuto alle legittime autorità. Un genitore non perfetto e non assolutamente esemplare, non perde il diritto all’onore da parte del figlio, così come dei governanti non perfetti che emanassero leggi moralmente lecite; né eventuali rifiuti o ribellioni da parte dei soggetti all’autorità potrebbero giustificarsi con la vera o presunta indegnità morale dell’autorità legittimamente costituita. L’onore è dunque qualcosa di più del semplice rispetto, in quanto comporta, a differenza di quest’ultimo, il dovere della gratitudine e dell’ubbidienza. Il rispetto, infine, è dovuto ad ogni creatura umana in quanto tale, anche qui a prescindere dalla bontà o cattiveria morale del destinatario. Il fondamento dell’onore si trova nel fatto che le autorità legittime rappresentano Dio in quanto sovrano e Signore di tutti e di ciascuno; il fondamento del rispetto si trova nel fatto che in ogni uomo c’è l’immagine di Dio e per ciascun essere umano il Figlio di Dio si è fatto uomo, ha patito ed è morto. Si badi dunque che mentre le prime due virtù hanno come fondamento il merito e l’eccellenza dei destinatari (Dio e coloro che si distinguono per virtù e santità), le ultime due hanno come fondamentooggettivo l’ordine stabilito dall’Altissimo e pertanto non dipendono dalle qualità soggettive dei destinatari.

Il dovere di onorare il padre e la madre costituisce una parte della virtù cardinale della giustizia che regola i rapporti dei figli verso i genitori, ovvero la pietà filiale. Essa si specifica anzitutto nella riconoscenza e gratitudine che i figli devono sempre avere e conservare verso i genitori per il dono, unico e non ricambiabile né eguagliabile, della vita ricevuta, nonché per tutte le cure e i sacrifici che i genitori hanno dovuto affrontare per allevare, mantenere, educare e far crescere i loro figli. Al riguardo, è opportuno citare uno splendido aforisma del libro del Siracide, che sentenzia: “Onora tuo padre con tutto il cuore e non dimenticare i dolori di tua madre. Ricorda che essi ti hanno generato; che darai loro in cambio di quanto ti hanno dato?” (Sir 7,27-28). La pietà filiale, inoltre, comporta il dovere di ubbidienza verso i genitori che i figli hanno non solo quando sono ancora infanti o adolescenti, ma, come ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica, “per tutto il tempo in cui [il figlio] vive nella casa dei suoi genitori” (CCC 2217). Anche quest’ultimo dovere è ben evidenziato dalla Sacra Scrittura, come si evince da questi due brevi ma emblematici passi: “Figlio mio, osserva il comando di tuo padre, non disprezzare l’insegnamento di tua madre” (Prv 6,20); “Figli, obbedite ai genitori in tutto; ciò è gradito al Signore” (Col 3,20). Il terzo dovere contenuto nella pietà filiale è quello di assistere moralmente e materialmente i genitori nel tempo della loro vecchiaia, oppure quando versassero in condizioni di malattia, solitudine o indigenza economica. Anche per quest’ultimo dovere, citiamo due luoghi della Sacra Scrittura, il primo dei quali è tratto da un esplicito insegnamento di nostro Signore Gesù Cristo, quando rimproverava i Farisei di non sottrarre l’aiuto economico dovuto ai genitori indigenti sotto lo specioso pretesto di devolvere il denaro a scopi di culto: “Mosè disse: Onora tuo padre e tua madre e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte. Voi invece dicendo: se uno dichiara al padre o alla madre: è Korban, cioè offerta sacra, quello che ti sarebbe dovuto da me, non gli permettete di fare più nulla per il padre e la madre, annullando la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte” (Mc 7,10-13). A questo severo monito di Gesù, fanno eco le parole chiare e forti del Libro del Siracide, che anzitutto così esorta: “Figlio, soccorri tuo padre nella vecchiaia, non contristarlo durante la sua vita. Anche se perdesse il senno, compatiscilo e non disprezzarlo mentre sei nel pieno del vigore” (Sir 3,12-13). Nei versetti seguenti, tuttavia, dopo aver ricordato le ricompense e le benedizioni promesse alla pietà filiale, il testo biblico tuona: “Chi abbandona il padre è come un bestemmiatore, chi insulta la madre è maledetto dal Signore” (Sir 3,16). Queste severe parole ci proiettano nella parte “negativa” del comandamento, stigmatizzando con estrema chiarezza alcuni comportamenti gravemente peccaminosi.


A fronte dei tre gravi doveri dei figli verso i genitori si trovano altrettanti doveri dei genitori verso di essi. Si tratta del dovere di accoglierli una volta concepiti (e di non impedire che il concepimento avvenga), di educarli e di allevarli e mantenerli, provvedendo ai loro normali bisogni materiali e spirituali.

Il primo dovere, come è evidente, chiama subito in causa le gravissime piaghe dell’aborto e della contraccezione, su cui avremo modo di soffermarci largamente nella disamina del Quinto e del Sesto Comandamento. Per ora ci limiteremo a dire che si tratta di doveri nativi e fontali, radicati nel sacramento stesso del Matrimonio, in cui la procreazione (almeno nella Dottrina classica) rappresenta il fine assolutamente primario, senza il quale il Matrimonio semplicemente non avrebbe ragione di essere. La mentalità, oggi così diffusa, secondo la quale scegliere se fare i figli, quando e quanti farne, se “tenerli” qualora fossero frutto di “incidenti imprevisti e indesiderati” è tanto più disdicevole e aberrante quanto più sembra oggi essere accettata come perfettamente e assolutamente normale, come ambito esclusivo e insindacabile della “coscienza” (???) dei genitori, su cui nessuno (neanche, anzi, tanto meno i confessori) può azzardarsi a mettere bocca (o becco!). Gravissime sono le responsabilità dei genitori verso i figli non nati, sia quelli soppressi perché indesiderati sia quelli nemmeno concepiti per calcoli egoistici o comunque molto umani. Responsabilità non solo verso creature a cui si è impedito di venire sulla terra e compiere la missione pensata per loro da Dio, ma verso Dio medesimo, che se ha dato all’uomo l’onore di essere suo collaboratore nel trasmettere la vita, chiederà anche stretto e severo conto a chi ha dimenticato l’onere speculare, consistente nel non impedire che una nuova vita, che è sempre un immenso dono di Dio, venga al mondo per compiere la sua Volontà e poi goderlo in Paradiso. Necessariamente più articolato deve essere il discorso sull’educazione, problema quanto mai attuale e scottante. Tutti i cattolici, infatti, sanno (o almeno dovrebbero sapere) che la Chiesa italiana attraverso la CEI ha posto il problema dell’educazione al centro della pastorale per il decennio 2010-2020, prendendo atto del vero e proprio disastro educativo a cui si sta assistendo, peraltro puntualmente profetizzato, a suo tempo, dal grande San Pio da Pietrelcina che, prevedendo i tristi tempi attuali, tuonava non molto prima di lasciare questo mondo: «Verrà una generazione di genitori incapaci di educare i figli! Non vorrei essere nei panni dei vostri nipoti». Se c’è un campo in cui la deriva antropocentrica e psicologizzante che ha imperato negli ultimi quarant’anni in Italia (senza che la tendenza sembri a tutt’oggi invertita) ha causato vere e proprie devastazioni è proprio quello dell’educazione, a tutti i livelli, ma soprattutto familiare e scolastica. Tutti i principi dell’educazione cristiana, accumulati in un’esperienza di vita e cultura bimillenaria, sono stati letteralmente gettati dalla finestra e da qualcuno messi letteralmente al bando. Un vero e proprio oblio, compiuto nel nome di un buonismo tanto più assurdo quanto più apparentemente seducente. La logica che presiede ai nuovi “sistemi educativi” (o diseducativi?...), a parere di chi scrive, è quella che affonda le radici nel pensiero del filosofo illuminista Rousseau, che coniò la nuova perniciosissima variante laica dell’eresia pelagiana. Per Rousseau aveva radicalmente torto Hobbes nel predicare il noto aforisma “homo homini lupus”, ovvero l’irrimediabile e incurabile cattiveria congenita dell’uomo (variante laica dell’eresia di Martin Lutero, per cui l’uomo è assolutamente, inesorabilmente e inevitabilmente peccatore). L’uomo, secondo Rousseau, è invece fondamentalmente e radicalmente buono. La cattiveria che a volte si constata in lui dipende semplicemente da ignoranza (non sa di fare il male) o da qualche cattiva abitudine contratta in base al cattivo esempio. Basterà dunque insegnare (ovviamente con amore e dolcezza) e far capire la cattiveria di un’azione, perché il problema educativo sia risolto. Guai a usare mezzi coercitivi, guai a mortificare, guai a umiliare! Che senso avrebbe fare queste cose se del male nessuno è moralmente responsabile? Chiediamoci ora: cosa ci stanno insegnando dagli inizi degli anni ’70 ad oggi? Che i figli non bisogna contrariarli altrimenti crescono frustrati, che i figli non si picchiano mai e per nessun motivo, che i loro desideri vanno assecondati, che non bisogna dar loro mancare nulla altrimenti cresceranno con i complessi, che non bisogna umiliarli con castighi, che non bisogna umiliarli con castighi, che bisogna scusarne i capricci e impedire a chiunque di usare qualunque atteggiamento contrario a questi canoni, ritenuti più sacri e inviolabili dei dogmi di Santa Romana Chiesa. Ora, senza scomodare per adesso i fior di educatori germogliati nel giardino della Chiesa cattolica, limitiamoci a una rapidissima rassegna di alcuni luoghi biblici che parlano dell’educazione dei figli. Forse, per qualche lettore, non mancheranno le sorprese. “Non risparmiare al giovane la correzione, anche se lo batti con la verga non morirà; anzi se lo batti con la verga, lo salverai dagli inferi”(Prv 23,13-14). Più forti ancora sono le parole del libro del Siracide: “Chi ama il proprio figlio usa spesso la frusta, per gioire di lui alla fine. Chi corregge il proprio figlio ne trarrà vantaggio e se ne potrà vantare con i suoi conoscenti. Chi ammaestra il proprio figlio renderà geloso il nemico, mentre davanti agli amici potrà gioire. Chi accarezza un figlio ne fascerà poi le ferite, a ogni grido il suo cuore sarà sconvolto. Un cavallo non domato diventa restio, un figlio lasciato a se stesso diventa sventato. Coccola il figlio ed egli ti incuterà spavento, scherza con lui, ti procurerà dispiaceri. Non ridere con lui per non doverti con lui rattristare, che non debba digrignare i denti alla fine. Non concedergli libertà in gioventù, non prendere alla leggera i suoi difetti. Piegagli il collo in gioventù e battigli le costole finché è fanciullo, perché poi intestardito non ti disobbedisca e tu ne abbia un profondo dolore. Educa tuo figlio e prenditi cura di lui, così non dovrai affrontare la sua insolenza” (Sir 30,1-3.7-13). I passi potrebbero abbondantemente moltiplicarsi, ma preferiamo concludere con due citazioni tratte dal Nuovo Testamento, meno crude nei termini e nella forma, ma ugualmente chiare e ferme nei principi affermati: “Voi, padri, non inasprite i vostri figli, ma allevateli nell`educazione e nella disciplina del Signore” (Ef 6,4). “Qual è il figlio che non è corretto dal padre? In verità, ogni correzione, sul momento, non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che sono stati addestrati per suo mezzo.” (Eb 12,7b.11). Indubbiamente tra queste affermazioni, per quanto particolarmente forti (e, per questo, da prendere “cum grano salis”) e gli slogans triti e ritriti della propaganda pseudo-culturale dei nostri giorni, c’è un vero e proprio abisso. La prima cosa da fare è prenderne atto; la seconda è vedere come tali princìpi possono e devono essere applicati anche ai nostri tempi.


L’educazione cristiana è stata tradizionalmente sempre ispirata ai principi di una sana ed equilibrata severità. Sulla base degli insegnamenti biblici, con cui abbiamo terminato la puntata precedente, si è sempre cercato da parte degli educatori cristiani di trasmettere ai figli “la disciplina del Signore”, tenendo anche conto del dato assolutamente fondamentale dell’antropologia cristiana, che tempera gli opposti (ed erronei) estremi di Rousseau da un lato e Hobbes dall’altro: l’uomo è stato creato buono, anzi perfetto da Dio, ma il peccato originale ne ha intaccato, pesantemente e permanentemente, l’originaria bontà, segnandolo col marchio della concupiscenza ovvero della tendenza al male, che pur non distruggendo l’essenziale bontà dell’uomo ne ha minato profondamente ed inesorabilmente la capacità di operare il bene, letteralmente impossibile a farsi senza un radicale aiuto della grazia, senza un tenace sforzo ascetico e senza una disciplina che miri a tenere lontane le occasioni di peccato.

In conformità a questi importantissimi dati rivelati, fuori dei quali si prendono dei colossali abbagli (e non solo sul fronte educativo), gli educatori cattolici (un nome su tutti: san Giovanni Bosco) hanno sempre raccomandato anzitutto una grande e soprannaturale carità da esercitare e far percepire ai destinatari dell’educazione (figli o allievi); inoltre una modalità educativa che tenda, più che possibile, a trasmettere valori sodi, fermi e motivati, cercando di radicarli dentro il cuore dei ragazzi che, anche nei periodi di grande turbamento e tentazione, conservano un’irresistibile attrattiva verso il bene; il ricorso, nel caso di fallimento dei modi educativi amorevoli, motivati e “pacifici”, all’esercizio dell’autorità, anche mediante l’applicazione di salutari e proporzionati castighi; in ogni caso, una grande attenzione ad evitare di scaraventare o abbandonare i ragazzi a continue e pericolose occasioni di peccato, cercando, per quanto possibile, di custodirne la moralità, la purezza e la bontà al riparo da luoghi, persone e ambienti che potessero in qualche modo minarle.

Questi principi furono elencati, proprio in questa rivista, in uno splendido articolo apparso qualche tempo fa, che presentava un ottimo “decalogo dell’educatore”, le cui sagge e oculate norme vorrei anzitutto richiamare, sottoscrivere e ribadire: 1. Mostrare affabilità, ma non debolezza; 2. Unire austerità a mitezza e battere su dovere e disciplina; 3. Mostrare e far percepire amore vero; 4. Mostrare che si è disposti al sacrificio per educare; 5. Impegnarsi di più con i caratteri difficili e ribelli; 6. Essere vigilanti senza trasformarsi in poliziotti; 7. Coltivare confidenza e sana familiarità con i ragazzi, anche partecipando volentieri ai loro giochi; 8. Correggere al momento opportuno; 9. Mostrarsi comprensivi verso le difficoltà dei ragazzi (anche in campo religioso); 10. Ricordare che Dio e i sacramenti sono la base dell’educazione, sia per gli educatori sia per gli “educandi”.

Vorrei ora, riallacciandomi idealmente a questi “comandamenti”, permettermi di chiosarli con un ulteriore decalogo, che, attualizzando alcune posizioni educative “classiche”, orienti dinanzi ad alcuni atteggiamenti concreti (da tenere o da evitare) su cui mi sembra che ci sia non poca confusione ai nostri giorni. Essi sono frutto, oltre che di attività speculativa, dell’esperienza che, come parroco, sono andato accumulando nei miei non molti ma intensi anni di ministero apostolico. 1. Sospettare sui figli non è peccato. Siamo stati tutti ragazzi e quasi tutti (concediamo che tra i lettori ci sia qualche santo…) abbiamo provato a fare i furbi con i nostri genitori. Non si capisce la grande ingenuità con cui molti genitori attuali non solo non mantengono un atteggiamento guardingo sui figli, ma sembrino ciechi anche dinanzi ad evidenti e gravi spie che cominciano ad apparire soprattutto in età adolescenziale. 2. Verificare se i figli sono degni di fiducia, ossia se non mentono. La menzogna è una delle figlie primogenite del nostro nemico, chiamato non senza motivo il “padre della menzogna”. I ragazzi, anzi i bambini, vi ricorrono non di rado per nascondere marachelle più o meno grandi. Guai a illudersi che “mio figlio mi dice tutto e non dice mai bugie!”. 3. Non tollerare mai e per nessun motivo mancanze di rispetto. Oggi molti ragazzini si permettono di rispondere in maniera villana e screanzata ai genitori, di mancare di rispetto anche pubblicamente, a volte addirittura di offendere apertamente i genitori. Lasciar fare senza intervenire risolutamente anzitutto è segno di debolezza (e non di bontà) e rende i genitori e gli educatori conniventi con tutti i comportamenti sprezzanti e arroganti che i ragazzi avranno da adulti con chicchessia: se non si rispetta chi ti ha dato la vita, come rispetterai tua moglie, il tuo collega, i tuoi governanti? 4. Verificare le compagnie, anche di zii, cuginetti e cuginette. Le cronache nere attuali sono piene di brutti episodi legati alle cattive compagnie, sovente tra le cerchie dei parenti ristretti. Innumerevoli sono i casi di prematura rovina di anime innocenti per la frequentazione di qualche parente poco raccomandabile. La vigilanza sulle compagnie è dovere fondamentale dei genitori, perché la sapienza popolare ammonisce che “chi va con lo zoppo impara a zoppicare”. 5. Insegnare che i premi vanno meritati. I beni non essenziali (motorini, oggetti elettronici, colonie estive, etc.) non possono e non devono essere elargiti senza condizioni: i ragazzi devono imparare che sono un premio per la loro bontà e per il loro impegno scolastico. Dare sempre e tutto anche a chi è immeritevole, indegno o ingrato è sommamente diseducativo. 6. Non assumere mai e per nessun motivo atteggiamenti contrari a professori e maestri. A mio avviso è questa una gravissima e diffusissima piaga: “guai chi tocca mio figlio, guai chi si permette di dargli un brutto voto, di contrariarlo, di mortificarlo”. Le nostre nonne, se si prendeva un brutto voto, riservavano immediati e salutari sculaccioni a completamento e complemento della giusta mortificazione subita a causa di poco studio, mostrandosi non nemiche ma alleate di chi educa e insegna come deve, applicando (come d’obbligo nel caso del rendimento scolastico) i principi di una rigorosa giustizia sostanziale. Oggi non pochi professori scrupolosi si sono visti recapitare avvisi di garanzia e denunce per aver “osato” mortificare un ragazzo con un brutto (e meritato) voto. Dio ci salvi da tanta sciocca miopia! 7. Evitare la televisione in camera e “seguire” l’uso dei computer. Quale occasione di peccato più grande della televisione o del computer, specialmente se si ha libero accesso ad Internet? Come pensare che un bambino di 8-10 anni sappia resistere ai precoci e violenti allettamenti del senso, continuamente sbattuti in faccia dai media? Come non capire che lasciare tali strumenti nella libera disponibilità di un preadolescente è come incitarlo a peccare? 8. Evitare usi precoci del telefonino. 

Anche il cellulare può rappresentare un pericolo, che diventa grave nel caso dei moderni smartphone, su cui è possibile accedere a video e scambiarli con un click tra amici non sempre raccomandabili. Se possibile, rimandare più in là che si può la consegna di un telefonino in piena disponibilità e limitarne l’uso allo stretto necessario. 9. Non scherzare o ironizzare su “fidanzatini” e sfavorire risolutamente esperienze sentimentali precoci. Molti genitori oggi minimizzano e scherzano sulle uscite di bambini e bambine che parlano di “fidanzato” anche a 4 o 5 anni e non sembrano affatto preoccupati che il proprio figlio o la propria figlia “esca con il suo ragazzo”, anche fino a tarda notte, anche a 13-14 anni… Sicuramente i santi educatori cattolici avevano, al riguardo, idee e posizioni radicalmente opposte… 10. Evitare se possibile la frequentazione di luoghi ad elevato “rischio di peccato”. A parere di chi scrive, due di essi emergono su tutti: le discoteche e le gite scolastiche. Le rovine che ho sentito causare da una sola serata in discoteca e dalla partecipazione ad una apparentemente tranquilla e innocua gita scolastica mi spingono ad ammonire, genitori e educatori, a ponderare seriamente e gravemente, davanti a Dio, tali problematiche, evitando soluzioni semplicistiche, buoniste o di comodo…


Prima di concludere la sezione dedicata al quarto comandamento, mi sembra opportuno spendere qualche ulteriore parola sul tema dell’educazione dei figli. Dopo aver passato in rassegna il decalogo dell’educatore e le sue applicazioni pratico-operative, vorrei portare l’attenzione su alcune “sindromi” dei genitori, oggi purtroppo molto diffuse, che minano alla radice il rapporto educativo (che presuppone una relazione non paritaria, ma fondata sul principio di autorità) e che sono la causa del naufragio sempre più endemico di larga parte della gioventù, a cui purtroppo siamo costretti ad assistere come spettatori non di rado consenzienti o quanto meno conniventi. Anche queste ultime considerazioni sono in larga parte figlie dell’osservazione e della personale (e per questo opinabile) esperienza pastorale di chi scrive. Il tono leggero e scherzoso in cui vengono formulate, vuole solo servire s temperare l’estrema serietà, per non dire la drammaticità, che le caratterizza.

Molto diffusa è anzitutto la sindrome dello struzzo, che poggia sul dogma-slogan: “a mio figlio non può capitare”. Di fronte agli scenari attuali, infatti, quando si assiste a qualche bella conferenza con dati e statistiche allarmanti (si pensi alla larghissima diffusione di droga e alcool anche fra giovanissimi, alla sempre più precoce iniziazione sessuale, al fenomeno del bullismo, etc.), i genitori che partecipano annuiscono col capo e strabuzzano gli occhi in segno di evidente sconcerto e preoccupazione. L’unica cosa che si esclude a priori è che il proprio figlio o la propria figlia possa vestire i panni dell’attore protagonista di quella brutta storia narrata dal conferenziere, con la nefasta conseguenza che quasi nessun ascoltatore si attiverà per prevenire quei mali tanto drammaticamente denunciati. Segue la “sindrome del cieco nato”, consistente nell’incapacità di guardare in modo oggettivo il proprio figlio, sapendone riconoscere insieme agli indubbi pregi anche gli inevitabili difetti. Il dogma-slogan di questa sindrome è “guai a chi tocca mio figlio”. Esempi concreti: guai al professore che si azzarda a mettere un voto negativo, una nota, guai al genitore dell’amichetto che si permettesse di fargli un rimprovero, guai al maestro sportivo o di musica che non pensi che mio figlio sia un campione incompreso o un talento nascosto. Le nostre nonne se si tornava da scuola con un brutto voto, prima menavano le mani e poi chiedevano (ma non sempre…) eventuali spiegazioni; le nostre mamme, dopo aver compatito il povero figlio bistrattato e incompreso, vanno a fare scenate (se non denunce…) al malcapitato professore o maestro di turno… Un’altra delle sindromi tipiche del nostro tempo, è la sindrome del telefono azzurro, che poggia sul dogma-slogan: “i figli non si picchiano”, ovvero la magna charta degli pseudo psicologi, sociologi, antropologi anni ‘70 e ‘80, che dopo aver applaudito alla rivoluzione studentesca hanno causato la proliferazione di personalità instabili, inconsistenti, arroganti e presuntuose, che un’educazione molle, senza un minimo di disciplina e severità, è inevitabilmente destinata a generare. Altra follia dei nostri tempi è la sindrome di cappuccetto rosso: “i figli devono fare le loro esperienze”. L’assurdità di questo improbabile ragionamento si dimostra praticamente da sola. Chi di noi si sognerebbe di approvare un ragazzino che dicesse: “prendo la sega elettrica e mi taglio un braccio, perché voglio provare come si vive con un braccio solo…”. La vita insegna che alcune esperienze sono nefaste e le conseguenze spesso irreversibili (almeno da un punto di vista pratico e salvo interventi straordinari di Dio), per cui non solo l’asserto è falso, ma è vero l’esatto contrario: ai figli non va data l’opportunità, per quanto possibile, di fare esperienze nefaste. Altro cancro endemico del nostro sciagurato tempo è la sindrome del medico pietoso, in base ai cui dogmi “i figli vanno sempre accontentati”, altrimenti soffrono, crescono frustrati, piangono, si sentono inferiori, etc. Tale sindrome attesta l’egoismo dell’educatore, che deve prendersi spesso la responsabilità e il dolore (talora non lieve) non solo di soffrire, ma anche di far soffrire in vista del bene. Una sindrome in fase oggi nettamente calante (ma presente soprattutto nelle situazioni di famiglie sfasciate) è quella della mamma chioccia, che esaspera l’aspetto, di per sé non contestabile, che i figli devono essere seguiti e controllati, elevando il tasso di controllo ai livelli dell’asfissia, del soffocamento e del diniego di tutto. Altro grave attestato di egoismo è la sindrome di Amnesty International, in base alle cui norme fondanti “la guerra è sempre da evitare”. Asserto di per sé condivisibile, anche nell’educazione, purché si ricordi la dottrina del peccato originale, in base alla quale in alcune circostanze il ricorso ai mezzi coercitivi è non solo inevitabile, ma anche doveroso.  Abbastanza fuori moda è invece la sindrome del padre-padrone, che vorrebbe ridurre l’educazione al solo uso, indiscriminato, massiccio e spregiudicato dei mezzi coercitivi, senza spiegazione, senza misura e senza discrezione. Grave e alquanto diffusa è invece la sindrome della rassegnazione imbelle o della desistenza, che applica maldestramente un dato oggi assai diffuso tra i genitori post-sessantottini: “siamo stati giovani anche noi e le abbiamo combinate di tutti i colori, cosa vogliamo pretendere dai figli? E poi, tutto sommato, non è che sia successa la fine del mondo… in qualche modo ne siamo venuti fuori”. Come se il fatto di aver commesso un peccato, bastasse a chiudere per sempre la bocca a chi ha il compito di correggerlo, prevenirlo o ripararlo… Un’applicazione sana di questi principi, viceversa, richiederebbe tanto maggiore sforzo educativo quanto maggiori fossero state le cadute e i disastri vissuti in età giovanile dagli educatori, onde impedire che i figli debbano subire gli stessi sconquassi e scompensi di genitori figli della “diseducazione” dell’ultimo quarto del terzo millennio. Restano la sindrome del timido, quella del modernismo e quella dell’illuso, anch’esse molto diffuse. La prima equivoca su un erroneo concetto di libertà, affermando che basta dire le cose, poi però non si possono imporre per forza né privare i figli della libertà, dimenticando che la libertà è tale e non degenera in puro arbitrio proprio e solo quando è specificata e ristretta entro limiti e argini ben precisi (si pensi alle leggi civili di un moderno stato democratico. Chi si sognerebbe di dire di non essere libero perché non può tranquillamente derubare il prossimo?). La seconda sbandiera il trito, ritrito e stupido slogan: “i tempi sono cambiati e non si possono più imporre certe cose o certi valori”, a dispetto di ciò che la Madonna, chiaramente e fermamente ebbe a dire a Fatima: ”verranno mode che offenderanno molto Dio. Non bisogna seguire le mode. La Chiesa non ha mode. Dio è sempre lo stesso”, ed anche a dispetto della Sacra Scrittura che afferma: “Gesù Cristo è lo stesso, ieri, oggi e sempre. Non lasciatevi sviare da dottrine varie e peregrine” (Eb 13,8-9). L’ultima è tanto più colpevole quanto maggiormente ingenuo è il dogma-slogan su cui poggia: “Di mio figlio mi posso fidare, perché a me dice tutto!”. Ho fatto molte prove con i gruppi di ragazzi chiedendo loro di dire la verità: “alzi la mano, ragazzi, chi tra di voi può affermare che ai genitori dice tutto”. Non ho mai visto una mano alzata… Se qualcuno, anche tra i lettori, avesse esperienze differenti… non esiti a contattare il sottoscritto o la redazione! Ne saremmo indubbiamente consolati, ma varrebbe comunque il proverbio, ispirato a popolare saggezza, che “una rondine non fa primavera”!
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Terzo comandamento: ricordati di santificare le feste

23/9/2014

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I DIECI COMANDAMENTI - Il terzo comandamento: ricordati di santificare le feste

I significati e gli obblighi del giorno del Signore

Il terzo comandamento obbliga i fedeli a santificare il giorno del Signore. Nella versione originaria, contenuta nel libro dell’Esodo, è l’unico comandamento, oltre al primo, a non avere semplicemente una formulazione imperativa, ma ad essere dettagliatamente articolato per una più perfetta comprensione del suo contenuto: “Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro” (Es 20,8-11). Santificare il Sabato, secondo il testo biblico, significa dunque fondamentalmente astenersi dalle fatiche del lavoro, in ricordo del “riposo” di Dio dopo la creazione del mondo. Sappiamo bene quanto Gesù dovette lottare con i suoi contemporanei che avevano fatto del precetto del riposo sabbatico una sorta di vero e proprio “incubo” (tuttora constatabile negli ambienti dell’ebraismo di stretta osservanza), attraverso interpretazioni ad litteram del tutto errate quando non proprio assurde: Gesù fu rimproverato in più circostanze di fare miracoli in giorno di Sabato e fu sgridato perché i suoi apostoli, stanchi e affamati, coglievano le spighe di grano per mangiarle. Vedendo tali comportamenti del tutto formalistici e esteriori, che avevano completamente travisato lo spirito del precetto, il Signore ebbe a pronunciare con estrema perentorietà il celebre aforisma: “Dio ha fatto il Sabato per l’uomo e non l’uomo per il Sabato” (Mc 2,27), dando così a intendere che il precetto del riposo settimanale e della santificazione del giorno del Signore deve essere vissuto nella gioia e nella libertà dei figli di Dio ed è finalizzato ad alimentare tali disposizioni, perfettamente degne dell’uomo e consone ai suoi più profondi bisogni.
Il senso di questo comandamento è più profondo di quanto sembra a prima vista e lo si comprende proprio interpretando rettamente il divieto di dedicarsi alle “fatiche del lavoro”. Il lavoro, infatti, secondo la Rivelazione, rientra tra i castighi imposti da Dio dopo la colpa d’origine e serve, oltre che ad elevare e nobilitare l’uomo e il creato, alla dura necessità di guadagnarsi il necessario per viverein questo mondo. Ma l’uomo, su questa terra, è di passaggio, onde non può e non deve perdere la bussola e il senso dell’orientamento, la percezione chiara della sua origine e del suo fine e le grandi motivazioni che muovono la sua esistenza. Il giorno del Signore, dunque, è un giorno in cui è fatto un vero e proprio obbligo, all’uomo, di mettere in secondo piano le necessità, i travagli e le fatiche della vita terrena e pensare alla vita celeste, alla vita dello spirito, a Colui dal quale viene e al Quale, inesorabilmente anche se a volte inconsapevolmente, tende. Ovviamente questo non può (e non deve) essere vissuto in forma estrema, rigida o malata (come era al tempo dei farisei): ma il valore del precetto (e gli obblighi, come vedremo, ad esso connessi) rimangono e sono validi.

C’è anche un’altra motivazione profonda alla base del terzo comandamento, più banale se si vuole, ma comunque da non sottovalutare. Il lavoro, dimensione fondamentale della vita terrena, assorbe molte energie e molto tempo all’uomo che vive in questo mondo, sottraendogli larga parte della disponibilità della sua giornata. Astenersene per un giorno significa ricevere in regalo da Dio del tempo (libero) per dedicarsi alla preghiera (che per limiti di tempo, ordinariamente, è alquanto trascurata), al dovere di rendere a Dio il culto che gli è dovuto (tramite la partecipazione alla sacra liturgia domenicale), al dovere di dare il giusto riposo al proprio corpo, al dovere di dedicarsi con calma alle altre realtà belle che il Signore regala (stare in famiglia, trascorrere qualche ora in sane attività ricreative, conversare con un amico, etc.). Come ebbe modo di scrivere il beato Giovanni Paolo II nella lettera Dies Domini, la nostra società, travolta da ritmi a dir poco forsennati e abituata a procedere a velocità supersoniche, ha quanto mai urgenza e bisogno di ricuperare il senso del giorno del Signore. L’uomo contemporaneo non sa riposare e, meno che mai, sa riposare nel Signore, fonte e origine del vero, sano e santo riposo.

Con la risurrezione di Gesù, avvenuta di Domenica, il giorno del Signore, oltre che ad essere “spostato” (non più il sabato in ricordo del riposo di Dio dalla creazione, ma la Domenica in ricordo del giorno della “nuova creazione”) ha peraltro acquisito ulteriori e ancor più grandi significazioni: è il giorno in cui si contempla la nostra umanità riscattata e liberata da tutti i bisogni, le miserie e i problemi legati alla vita presente. Gesù risorto, infatti, è la primizia di coloro che risorgeranno e, riacquisendo un vero corpo uguale a quello attuale, saranno però conformati al suo corpo deificato. Potranno mangiare, ma non sentiranno mai più la fame; potranno bere, ma non avranno più sete; non sentiranno più il freddo o il caldo, non avranno più bisogno di dormire, né sentiranno fatica e stanchezza; non conosceranno mai più dolori fisici, né malattie, né disfacimento o decadenze del corpo; non saranno più soggetti alle molteplici (e assai umilianti) necessità igieniche e fisiologiche legate alla vita presente, godranno di gloria, di agilità, di capacità di attraversare i corpi gravi senza incontrare resistenze, della visione della santissima umanità di Gesù, della Madonna e della compagnia di tutti i santi. Non sarà il caso di pensare spesso a queste stupende verità? E magari qualche volta anche al fatto che per i corpi risorti dei dannati varrà esattamente il contrario di quanto sopra? Non sarà anche opportuno ricordare che non esistono “lasciapassare” per il Paradiso distribuiti gratuitamente ma che, per godere di tale beatificazione eterna, bisogna passare attraverso molte fatiche e tribolazioni (simboleggiate dai sei giorni lavorativi) conservandosi fedeli in tutto e per tutto a Dio e alla sua legge? E perché questo sia concretamente possibile, non sarà necessario essere regolarmente istruiti su Dio e le cose di Dio?

Si comprende bene, dunque, già da queste note introduttorie, l’importanza e il valore di questo giorno e, quindi, la funzione di tutela di questi valori svolta dalle norme imperative da osservare per adempiere questo comandamento. Si badi, infatti, che questo comandamento (insieme al quarto) è formulato al positivo (contiene, cioè un dovere di “fare” non una proibizione di non fare qualcosa). Onde è quanto mai necessario avere chiare le condizioni minime per cui questo comandamento possa dirsi adempiuto ed anche se e quando si possa essere dispensati in tutto o in parte dalla loro osservanza. È quanto, a Dio piacendo, tenteremo di fare dalla prossima settimana.
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Secondo comandamento: la bestemmia contro lo spirito Santo

27/8/2014

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I DIECI COMANDAMENTI - Il secondo comandamento: la bestemmia contro lo Spirito Santo

Tra le svariate forme di bestemmia, una merita particolare studio e attenzione, per l’estrema gravità delle sue conseguenze: la bestemmia contro lo Spirito Santo. A tal riguardo, Gesù ebbe a minacciare che questa peculiare tipologia di bestemmia non avrebbe trovato perdono presso il tribunale dell’Altissimo, come testualmente leggiamo nei Vangelo: “In verità vi dico: tutti i peccati saranno perdonati ai figli degli uomini e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo, non avrà perdono in eterno: sarà reo di colpa eterna – poiché dicevano: è posseduto da uno spirito immondo” (Mc 3,27-30). Il testo parallelo di san Matteo, in cui Gesù si difende dall’accusa di scacciare i demoni per opera del principe dei demoni, aggiunge qualche ulteriore piccolo particolare: “Perciò io vi dico: qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata. A chiunque parlerà male del figlio dell’uomo sarà perdonato; ma la bestemmia contro lo Spirito non gli sarà perdonata, né in questo secolo né in quello futuro” (Mt 12,31-32). Come spiegare queste parole? Forse c’è un limite alla misericordia di Dio? Non sappiamo forse dalla fede che essa è infinita? E allora perché questo peccato non troverebbe mai perdono?
Prima di rispondere a queste domande, cerchiamo di focalizzare la fattispecie. I due episodi evangelici che abbiamo citato individuano un peccato ben preciso: dare a Gesù dell’indemoniato e attribuire la sua azione esorcistica all’aiuto del demonio. Cosa significa assumere questo atteggiamento? Significa di fatto chiudersi ad ogni possibilità di salvezza, travisando e stravolgendo perfino l’evidenza dei fatti. Tutti infatti sanno che l’autorità sui demoni è segno certo di santità e di assistenza divina; attribuirla all’aiuto di altri demoni (cosa assurda e impensabile) è mostrare un cuore così chiuso e ostinato da divenire praticamente tetragono all’azione della grazia. Dunque si tratta di colpa imperdonabile non per difetto nella misericordia di Dio, ma per difetto nelle disposizioni dell’uomo: Dio perdona chiunque si pente delle proprie colpe e accoglie la salvezza da Lui offerta in Gesù Cristo nostro Signore.
A partire da questo episodio, la Chiesa (sulla scia del sempre immortale e magistrale insegnamento del Dottore Angelico san Tommaso d’Aquino) ha delineato e identificato sei tipologie di bestemmia contro lo Spirito Santo, che potremmo anche chiamare di “chiusura radicale e definitiva all’azione della grazia”: la disperazione della salvezza, la presunzione di salvarsi senza meriti, l’impugnazione della verità conosciuta, l’invidia della grazia altrui, l’ostinazione nel peccato e l’impenitenza finale. Prima di esaminarle nel dettaglio occorre fare un’ulteriore breve premessa, per ricordare la visione cattolica (oggi non sempre chiara!!) del processo della giustificazione del peccatore, ovvero, in parole più semplici, di come “funziona” il meccanismo con cui Dio salva una creatura. Premesso che l’uomo decaduto è radicalmente incapace di compiere alcuna azione utile alla salvezza e di “meritare” in senso stretto la grazia di Dio (non può né salvarsi, né convertirsi), lo Spirito Santo svolge una triplice azione: prende l’iniziativa “toccando” l’anima del peccatore e muovendo la sua volontà verso il bene; aiuta la volontà del peccatore nello sforzo di decidersi a lasciare il male per abbracciare il bene; in caso positivo (conversione), lo Spirito Santo prenderà stabile dimora nell’anima (“grazia santificante”) per aiutarla a compiere le opere sante e giuste necessarie per meritare la salvezza e per dare ad esse, tramite la carità infusa, causa di merito in senso stretto sia del premio della vita eterna che di grazie sempre più grandi per santificarsi in misura sempre maggiore. Dinanzi a tale azione, tuttavia, l’uomo non si trova come destinatario totalmente passivo, ma deve cooperare a tutti i livelli. Anzitutto prima della conversione, compiendo quel poco di bene naturale e umano che sa e può, usando bene la facoltà dell’intelligenza, seguendo i richiami gravi della propria coscienza. In questo modo non “merita” la grazia della conversione, ma si dispone ad ottenerla grazie ai meriti di Gesù Cristo e alle preghiere e penitenze dei giusti offerte a Dio per la conversione dei peccatori. Durante il processo di conversione, perché dinanzi al richiamo dello Spirito Santo, la volontà resta radicalmente libera: può accogliere la grazia o rifiutarla. Dopo la conversione: ogni giorno l’anima dovrà sforzarsi di cooperare con la grazia per compiere il bene e le opere sante necessarie per meritare la vita eterna. Da queste brevi note, ben si comprende perché la Chiesa, nel presentare la retta dottrina sulla giustificazione ha sempre parlato di “sinergia” (letteralmente: “lavoro insieme”) tra la Grazia e la libertà dell’uomo. Quali saranno dunque i peccati e le bestemmie contro lo Spirito Santo? Nient’altro che i difetti radicali e ostinati dalla parte della libertà dell’uomo, che rendono vana l’azione della Grazia.
Partendo dunque dai casi evangelici, ben si capisce come rifiutare di riconoscere in Gesù il Salvatore, nonostante l’evidenza dei miracoli e degli esorcismi, determina l’impossibilità radicale della prima conversione. Per questo Gesù insegna che “chi crede in Lui ed è battezzato sarà salvo, mentre chi non crede sarà condannato” (Mc 16,16). La Chiesa fa eco a questo insegnamento attraverso l’antico adagio “extra Ecclesiam nulla salus” (“fuori della Chiesa nessuna salvezza”). Espressione da intendere non come condanna assoluta e automatica di tutti coloro che sono fuori della Chiesa, ma come affermazione che chi, conoscendo Gesù Cristo, il Vangelo e la necessità di appartenere alla Chiesa per ottenere la salvezza, si chiude inesorabilmente ad essi (rifiutando in modo consapevole la grazia della conversione), si condanna senza appello all’eterna dannazione, avendo chiuso il cuore alla mano tesa da parte della misericordia di Dio. Vedremo come tutte le tipologie di bestemmia contro lo Spirito, si spiegano con questa assurda e colpevole forma di radicale chiusura del cuore umano agli aiuti offerti dalla grazia.

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Il più grave peccato contro lo Spirito Santo è senza dubbio la disperazione della salvezza, che ha annoverato, tra i suoi autori, due celebri personaggi biblici: Caino e Giuda Iscariota. Il primo, macchiatosi di omicidio volontario contro il giusto fratello Abele, mosso dalla passione dell’invidia, elevò il primo grande grido blasfemo: “troppo grande è il mio peccato per ottenere il perdono” (Gen 4,13). Ancora più grave fu la disperazione del più grande peccatore della storia dell’umanità (oggi, peraltro, tanto frettolosamente quanto oltraggiosamente giustificato o addirittura osannato da parte di qualcuno…), Giuda Iscariota. Egli, dopo aver osato ricevere la prima comunione durante l’ultima Cena (ed essere stato, in quella sede, ordinato sacerdote ed aver avuto Gesù ai suoi piedi nel gesto di ineffabile carità del lavarglieli), non ebbe remore di andare a vendere il figlio di Dio per trenta denari. I vangeli ci raccontano che a un certo punto egli si pentì della sua colpa, ma non del pentimento santo che muove a contrizione e spinge ad invocare la misericordia, bensì del superbo rimorso di chi sa di aver commesso un peccato gravissimo, ma non si perdona e non chiede perdono. I vangeli ci dicono che Giuda morì suicida e che Gesù pronunziò a suo riguardo le tremende parole: “sarebbe meglio per quell’uomo che non fosse mai nato” (Mc 14,21). Sia detto a questo punto tra parentesi che, rebus sic stantibus, risulta quanto meno difficile comprendere come sia possibile, dinanzi a tali parole di nostro Signore, limitarsi anche soltanto a ipotizzare una possibile non dannazione dell’apostolo fedifrago, traditore e suicida. In ogni caso questo peccato è gravissimo perché offende la misericordia di Dio che è realmente infinita, più grande di qualunque colpa dell’uomo  e sempre pronta a riversarsi su di lui alle uniche condizioni che il peccatore, riconosciuta la colpa, la confessi con sincero pentimento, chiedendone perdono ed offrendosi, liberamente e volontariamente, alla dovuta espiazione e purificazione ad essa conseguente.
Specularmente opposta a questa, ma non meno grave, è la seconda fattispecie di bestemmia contro lo Spirito Santo, ovvero la presunzione di salvarsi senza meriti. Sbandierata orgogliosamente dagli eretici di ieri (gnostici, protestanti e quietisti in primis) e di oggi (buonisti e modernisti), si tratta di una vera e propria eresia oggi diffusissima, che serve a popolare l’Inferno di ignari buontemponi, pressapochisti e illusi. Questo peccato, infatti, presume disordinatamente della misericordia di Dio e presentandone una visione unilaterale e parziale giunge a dire che siccome Dio è buono qualunque cosa l’uomo faccia non andrà dannato e che sarebbe assurdo pensare che Dio, che è l’origine della Grazia (senza la quale l’uomo non può fare nulla di buono) premi per qualche opera che solo grazie a Lui sarebbe resa possibile. È inutile commentare amaramente come molti pulpiti di non poche Chiese pullulino di queste sciocchezze, sotto lo sguardo compiaciuto di sciagurati auditori. Certamente è vero che senza la grazia preveniente e coadiuvante l’uomo non può fare nulla di buono, ma è altrettanto vero che Dio ha voluto che il Paradiso fosse conseguito a prezzo di lacrime, sudore, sforzi e sangue, come Gesù non cessò di raccomandare nei Vangeli e che, proprio in virtù di questo, Egli concede un grado di gloria perfettamente e rigorosamente proporzionale ai meriti di ciascuno (come appare chiaramente, per esempio, dalle parabole dei talenti e delle mine). La giustizia di Dio, dunque, va considerata sempre come inscindibilmente connessa con la sua misericordia: per cui Egli usa una misericordia giusta (perdona sì, ma solo a chi è pentito e disposto all’espiazione) ed una giustizia misericordiosa (che retribuisce rigorosamente il bene fatto, fosse anche solo un bicchiere d’acqua dato per carità, mentre è clemente nel castigare e nel punire, esercitando un rigore sempre inferiore a quanto il peccato dell’uomo meriterebbe).
Altro gravissimo e brutto peccato contro lo Spirito è l’invidia della grazia altrui. A proposito dell’invidia un noto politico ebbe a dire che essa è un peccato che molti cristiani commettono, ma che ben pochi confessano, cosa che è pienamente confermata dall’esperienza di non pochi confessori. Questa fattispecie ha tuttavia, rispetto al generico vizio dell’invidia – consistente nel rallegrarsi del male e rattristarsi del bene altrui – la peculiarità di essere causata dalla santità del prossimo, percepita come un’accusa indiretta dei propri peccati personali e quindi scatenante la reazione dell’odio verso il giusto. Magistralmente descritta nel secondo capitolo del libro della Sapienza, essa ha avuto come protagonisti biblici, oltre al già menzionato Caino, l’empio re Saul (invidioso della grandezza e del valore di Davide) nonché i sacerdoti, scribi e farisei che vollero uccidere Gesù, mossi, a detta dei Vangeli, da questa orrida passione, come anche Pilato aveva compreso (cf Mt 27,18). La gravità di questo peccato è evidente: se Dio suscita un santo, lo fa anche (se non soprattutto) per mostrare col buon esempio delle sue virtù, la necessità della conversione e delle buone opere per essere accetti a Dio. Vedendo un santo lo si può (e, forse, lo si deve) “invidiare santamente”, nel senso che è possibile desiderare di essere come lui imitando le sue virtù (è proprio per questo, infatti, che Dio lo invia agli uomini); al contrario sdegnarsi contro di lui, colpevole solo di mettere in luce la verità e di denunciare le opere delle tenebre, significa chiudersi e rifiutare radicalmente una grande offerta di grazia elargita da Dio Padre, esponendosi così ad una serie di brutti peccati contro la carità del prossimo che vanno dal risolino ironico di compatimento al vero e proprio motteggio, dalle offese verbali all’accusa di follia, dalla persecuzione violenta al vero e proprio assassinio. Per quale colpa? L’unica che gli uomini empi non perdonano: quella di dire e “fare” la verità.
La quarta tipologia è l’impugnazione della verità conosciuta. Peccato, questo, gravissimo, perché toglie al peccatore una delle circostanze soggettive che sempre attenuano le colpe dei comuni mortali, ovvero l’ignoranza. Il grande dottore san Tommaso d’Aquino, al riguardo, afferma che, generalmente parlando, in ogni peccato c’è una certa ignoranza, perché quando l’uomo pecca non lo fa con l’intenzione espressa ed esplicita di fare del male o di farsi del male, ma sempre avendo di vista un bene particolare che vuole conseguire (anche se fuori dell’ordine voluto da Dio). Anche i peccati più orrendi, come per esempio l’omicidio, sottostanno a questa regola: si pensi a chi uccide per gelosia (mosso dall’amore per la sposa e dal desiderio di rimuovere il “male del suo rivale”), o si pensi anche all’orribile delitto dell’aborto (mosso dall’interesse egoistico di non affrontare i sacrifici e i travagli di una gravidanza e di una vita da far crescere). Si badi a comprendere bene quanto appena detto: le motivazioni che muovono al peccato sono semprefutili e basse e non tolgono né il gravissimo disordine degli atti né la tremenda responsabilità del peccatore davanti alla giustizia di Dio e, in alcuni casi, anche a quella degli uomini. Si vuole dire che, a differenza dei demoni, l’uomo non compie, ordinariamente, il male per il male, per il gusto di farlo, altrimenti diventerebbe realmente una sorta di demone incarnato (a dire il vero, peraltro, la storia non ci ha risparmiato qualche esempio di tale abbrutimento dell’uomo, che volendo fare il super-uomo ha incarnato il super-demone…). In più, alcune volte, a questa “ignoranza strutturale”, che meglio sarebbe chiamare “accecamento”, si può aggiungere l’ignoranza soggettiva della peccaminosità dei singoli atti. I confessori sanno benissimo che molte anime hanno commesso peccati anche gravissimi, senza rendersene minimamente conto. Tutte queste circostanze sono, paradossalmente, la causa anzi la condizione di possibilità della salvezza e della conversione dell’uomo, perché rendono il male che ha compiuto non così grave come quello dei demoni. È proprio la loro assenza, insegna l’Aquinate, infatti, a rendere i demoni inconvertibili: proprio perché, a differenza dell’uomo, un angelo, prima di peccare, sa e vede chiaramente l’intrinseca cattiveria dell’atto e tutte le sue nefaste conseguenze; per cui se, nonostante questa assoluta chiarezza mentale, pecca, la sua volontà si “attacca” in maniera così forte e radicale al male compiuto da divenirne inseparabile. Detto questo, la fattispecie che stiamo esaminando consiste nel peccato che un uomo commettesenza avere come scusanti l’ignoranza soggettiva della sua peccaminosità oppure l’ignoranza generica della sua malizia. Il caso classico è quello di un peccatore che si converte e riceve il perdono e torna a compiere, spudoratamente e infischiandosene della verità conosciuta, il male da cui per misericordia Dio lo aveva salvato. Al riguardo, suonano davvero tremende le parole che ebbe a pronunciare san Pietro in una delle sue lettere: “Se infatti, dopo aver fuggito le corruzioni del mondo per mezzo della conoscenza del Signore e salvatore Gesù Cristo, ne rimangono di nuovo invischiati e vinti, la loro ultima condizione è divenuta peggiore della prima. Meglio sarebbe stato per loro non aver conosciuto la via della giustizia, piuttosto che, dopo averla conosciuta, voltar le spalle al santo precetto che era stato loro dato. Si è verificato per essi il proverbio: Il cane è tornato al suo vomito e la scrofa lavata è tornata ad avvoltolarsi nel brago” (2Pt 2,20-22). In tale fattispecie, infatti, si calpesta non solo la Grazia, ma anche la verità ed il peccato commesso diventa simile a quello dei demoni. In questi casi, dopo una tale chiusura colpevole, un’ulteriore grazia da parte dell’Altissimo è davvero una rarità e per ottenerla occorrono innumerevoli preghiere, sforzi e sacrifici.
Veniamo ora a considerare l’ostinazione nel peccato, altro grave problema di non poche anime. Essa si verifica quando un peccatore abusa della misericordia di Dio scambiandola con debolezza e prendendola come scusa per continuare a peccare senza troppe preoccupazioni. È il classico caso di chi pensa che basta confessarsi e tutto finisce, Dio perdona sempre, tutto e senza condizioni. Ora, la misericordia di Dio è infinita, ma come sappiamo essa si riversa solo su chi è sinceramente pentito. Non deve mai diventare una sorta di acquiescenza o autorizzazione a peccare. Ciò è tanto vero che i dottori e i confessori illuminati, tra cui Sant’Alfonso Maria de’ Liguori e san Pio da Pietrelcina, erano molto severi con i peccatori recidivi: una assoluzione, due assoluzioni, ma già alla terza ricaduta, senza alcun miglioramento, l’assoluzione almeno la differivano, ammonendo i confessori che chi avesse assolto un tale penitente ostinato non sarebbe andato, a sua volta, esente da peccato mortale (stiano dunque molto attenti i confessori dalla manica troppo larga…). Dio ci perdona affinché ci convertiamo; la sua misericordia è l’ultima ancora di salvezza, non un segno di debolezza. Dio è senza dubbio un Padre misericordioso, ma occorre ricordare che è anche un giudice severo, come Gesù insegna nel Vangelo (per esempio nella parabola dei talenti). Per cui è bene non sfidarlo.
Infine, l’ultima fattispecie di questa brutta categoria di peccati: l’impenitenza finale. È dottrina comunemente insegnata dagli scrittori ecclesiastici (e confermata da numerosi santi e mistici) che la misericordia di Dio è talmente grande da “rincorrere” il peccatore fino all’ultimo istante, in cui il Signore, proprio in punto di morte, fa l’ultimo invito all’anima di pentirsi e accogliere la sua misericordia. Chiusa la porta a quest’ultimo richiamo, non resta che la dannazione. Si capisce con ciò, facilmente, come anche quest’ultimo caso rappresenti l’ennesima, definitiva autoesclusione dell’uomo dalla misericordia di Dio. Tuttavia si badi a non cadere in un nuovo abuso di questi gesti estremi di misericordia del Padre, sragionando con considerazioni di questo tipo: “Siccome Dio fa l’ultimo richiamo al peccatore in punto di morte, a che serve convertirsi e privarsi dei piaceri del peccato? Mi godrò la vita e poi mi pentirò in punto di morte!”. Anche questo ragionamento sarebbe un ulteriore gravissimo oltraggio alla misericordia di Dio, trasformando un suo gesto estremo di amore e clemenza in una sorta di permesso di peccare senza limiti per tutta la vita. Dimenticando che, come recita un noto adagio, “si muore come si è vissuti” e molto difficilmente un peccatore, colpevolmente incallito e impenitente, accoglierà l’ultimo appello della divina misericordia. Meglio “cercare il Signore mentre si fa trovare” (Is 55,6) e affrettarsi a spezzare i vincoli del male, ricordando che peccare non significa godere, ma cadere nella più atroce delle schiavitù, autocondannarsi alla tristezza, alla noia e alla depressione, rischiare di cadere nella più nera disperazione, temporale ed eterna.
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Il secondo comandamento: la bestemmia

23/8/2014

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I 10 COMANDAMENTI - Il secondo comandamento: la bestemmia

Grido del demonio e vergogna dell’uomo 

Se il nome di Dio è tanto santo da dover essere nominato solo quando è necessario, con retta intenzione (di invocazione, lode o preghiera) e con estrema riverenza (chinando umilmente il capo), che cosa si dovrebbe dire o pensare dell’orrido e inqualificabile peccato di bestemmia, di cui il popolo italiano (con alcune regioni in testa) vanta il “nobile” primato europeo (e forse mondiale)?

Uno dei santi che è stato più fieramente nemico della bestemmia, contro cui era severissimo e quasi implacabile è il santo Curato d’Ars. Di lui possediamo una splendida omelia (pronunciata nella quinta Domenica dopo Pentecoste[1]) a cui faremo ampio riferimento nella trattazione di questo peccato, che è più ampio e più complesso di quanto a prima vista potrebbe sembrare.

Cominciamo da ciò che è più o meno da tutti conosciuti e che potremmo chiamare bestemmia in senso stretto, ovvero l’ingiuria rivolta contro il nome di Dio. Questo peccato, scrive il santo Curato, è così orribile che i cristiani non dovrebbero avere coraggio di commetterlo. Significa infatti detestare e vomitare fango e veleno contro una bellezza infinita ed ingiuriare villanamente e volgarmente Colui che è causa solo del bene. La bestemmia è dunque, ad un tempo, atto di somma ed estrema superbia e irriverenza, commesso verso Colui che, se volesse, potrebbe istantaneamente fulminare il bestemmiatore e precipitarlo nell’Inferno (cosa che non fa solo per la sua infinita misericordia, e non per debolezza e impotenza); atto che esprime l’estrema stupidità dell’uomo, che ingiuria l’Unico che è sempre e comunque suo Amico, anzi l’unico Amico che è sempre fedele e che mai sbaglia; ed infine atto che esprime la somma maleducazione, grossolanità e volgarità dell’uomo, ovvero il distintivo degli ignoranti, dei cafoni e dei grezzi, che degrada ed abbrutisce l’uomo rendendolo simile ai demoni, che sono i bestemmiatori per antonomasia. Un gesto inescusabile e inqualificabile sotto ogni aspetto e in ogni modo: chi crede infatti dovrebbe guardarsi bene dal bestemmiare il suo Dio; chi non crede dovrebbe guardarsi dall’ingiuriare ciò che per lui è il nulla, scadendo nella più bieca maleducazione: perché non dice: “mannaggia al nulla?”. Sant’Alfonso M. de. Liguori, a coloro che obiettavano di dover trovare una valvola di sfogo ai momenti di rabbia e collera, insegnava a… bestemmiare il diavolo! Perché (eccetto la venialità dell’ira che accompagna lo sfogo) non c’è niente di male a dire “mannaggia al demonio” o attribuire al diavolo i caratteri degli animali appartenenti alla specie suina (tanto lui è ben più brutto e schifoso di questi…). Vedremo più avanti, quando arriveremo al quinto comandamento, che un altro grande santo (san Filippo Neri) ha insegnato a mandare al prossimo gli… “accidenti santi”! Ma di ciò parleremo a suo tempo.

Tornando al punto che stiamo trattando, si potrebbe pensare che quanto detto basti per esaurire l’argomento bestemmia. Purtroppo però esiste un’altra vastissima mole di bestemmie che possono essere formulate anche da credenti e devoti un po’ troppo facili ad aprire la bocca senza ricordare che ha due finestre di chiusura (le labbra e i denti) così da dire, in maniera magari elegante e umanamente “comprensibile”, delle gravissime ingiurie contro Dio. Dice infatti sant’Agostino che si bestemmia anche quando si attribuisce a Dio qualcosa che non ha o che non gli conviene, oppure gli si toglie qualcosa che ha o gli conviene, o infine si attribuisce ad una creatura ciò che è dovuto e proprio solo del Creatore. Il santo Curato d’Ars, commentando la frase, individua cinque specie (molto comuni) di bestemmia:
1)    Dire che il buon Dio non è giusto nel fare alcuni tanto ricchi e colmi di beni, mentre altri sono miseri e poveri che a stento hanno pane da mangiare;
2)    Dire che non è vero che Dio sia poi così buono, perché lascia alcune persone nel disprezzo e nella malattia, mentre altre sono amate, stimate e in buona salute;
3)    Dire che il buon Dio non vede tutto (anche i nostri pensieri…) o che non si cura di ciò che accade sulla terra;
4)    Dire: “perché il buon Dio usa tutta questa misericordia con questo tale, con tutto ciò che costui ha combinato?”;
5)    O infine, quando capita una disgrazia, arrabbiarsi con Dio dicendo: “Me infelice! Il buon Dio non poteva farmene di più! Credo che ignora che sono al mondo, o se lo sa, è soltanto per farmi soffrire”.

Proviamo a essere sinceri: chi di noi può dire di non aver mai detto (o solo pensato) almeno una delle cose or ora elencate? Sapevamo che queste sono bestemmie sotto certo aspetti più gravi dell’ingiuria rivolta a Dio in un momento di rabbia (che ha l’attenuante, senz’altro minima ma pur esistente, di essere uscita dalla bocca senza ragionamento), in quanto sono frasi dette con piena avvertenza (sapendo quel che si dice) e deliberato consenso (volendo proprio dire una simile sciocchezza)? La prima tipologia, per esempio, esprime un vero e proprio giudizio sull’operato di Dio e dimentica un dato di fatto fondamentale: chi è la causa della povertà, oppure chi ne è il responsabile? Dio? O l’uomo? Mi permetto di segnalare alcuni dati. Tempo fa un tale si prese la briga di fare i conti di quanto le sette nazioni più sviluppate del mondo spendessero in un anno per nuovi investimenti militari (attenzione: nuove armi e tecnologie, non conservazione delle vecchie!). Ebbene concluse che con l’equivalente di quei soldi, si sarebbe completamente risolto il problema della fame nel mondo per un intero anno, problema certamente drammatico dato che, a tutt’oggi, ogni tre secondi muore un bambino di fame. E che dire delle adozioni a distanza? Chi di noi può dire di non avere 13 euro al mese (42 centesimi al giorno) per adottare un bambino del quarto mondo? Vogliamo poi parlare del cibo sprecato? Su “Avvenire” del 20 Ottobre del 2010[2] furono riportate queste agghiaccianti cifre sull’Italia: ogni anno si perdono 20.290.767 tonnellate di cibo (oltre venti milioni di tonnellate!!!); tale cifra equivale a 37 miliardi di euro annuo di spreco (pari al 3% del PIL); con ciò che si butta, potrebbero sfamarsi, ogni anno 44.472.914 persone, pari ai ¾ della popolazione italiana. Siamo ancora convinti che i bambini muoiono di fame perché Dio è ingiusto, brutto e cattivo, e dà la ricchezza a pochi facendo morire di fame altri?...

San Giovanni Maria Vianney, dopo aver elencato i cinque modi “alternativi e (per lo più) sconosciuti con cui si può bestemmiare, passa a citare espressamente l’insegnamento di un altro grandissimo santo e teologo della Chiesa cattolica: san Tommaso d’Aquino. Egli approfondisce il tema della bestemmia come “parola ingiuriosa o oltraggiosa rivolta contro il buon Dio, la Madonna e i santi”; il che potrebbe far semplicisticamente pensare alla bestemmia comunemente proferita come volgarità rivolta in modo ingiurioso contro Dio o i santi. In realtà, come vedremo subito, le cose non stanno esattamente così. Il santo curato infatti elenca quattro modalità di ingiuriare o oltraggiare la divinità ben più raffinate della becera bestemmia da osteria:
1)    Per affermazione, dicendo: “il buon Dio è crudele e ingiusto nel permettere che soffra tanti mali, che sia calunniato in questa maniera, che perda quel denaro o quel processo. Ah, come sono sfortunato! Tutto va in rovina a casa mia, non posso avere niente, mentre tutto riesce a casa degli altri!”.
2)    Si bestemmia quando si dice che il buon Dio non è onnipotente e che si può fare qualche cosa senza di lui;
3)    Si bestemmia quando si attribuisce ad una creatura ciò che è dovuto soltanto a Dio;
4)    Si bestemmia dicendo: “Ah, S… N… di D…!” Che orrore!

Qualche breve considerazione su queste ulteriori modalità non molto conosciute di bestemmiare. Pensiamo alla prima: quante volte si sente dire che Dio è ingiusto nell’aver fatto morire un bambino, nell’aver permesso quell’incidente, o nel non avermi donato la vita che desideravo… Un peccato antichissimo, che affonda le sue radici nelle numerosi e gravi mormorazioni contro Dio che, a suo tempo, lanciarono gli Israeliti durante la quarantennale peregrinazione nel deserto, dopo l’esodo dall’Egitto. Si tratta di una cosa più seria di quanto si pensi, perché costituisce un vero e proprio giudizio o atto di accusa contro l’Altissimo, che invece tutto dispone, sempre, per il nostro bene, cosa di cui non dobbiamo assolutamente dubitare soprattutto se ci troviamo in stato di grazia, ricordando le parole dell’Apostolo delle genti secondo cui “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Rm 8,29). Dunque la malattia della “lamentosi”, che causò agli Israeliti il tormento dell’essere morsicati dai micidiali serpenti velenosi (cf Num 21,1-10), è più grave di quel che comunemente si pensi. E’ come se si dicesse a Dio di aver fatto male tutte le cose, dimenticando che la nostra mente piccola e le nostre vedute ristrette dovrebbero semplicemente vergognarsi di competere con Colui che tutto sa, tutto può e soprattutto tutto dispone per il bene nostro e di tutto, come dobbiamo sempre fermamente credere anche quando le circostanze dovessero divenire completamente avverse e infauste.

Anche negare l’onnipotenza di Dio è una forma di bestemmia, così come contraddire a quel luminoso insegnamento di Gesù (cf Gv 15,5) secondo il quale “senza di Lui non possiamo fare nulla” (non “molto” e nemmeno “poco”). Il problema dell’esistenza del male non lo si risolve negando l’esistenza di Dio (“c’è il male, dunque Dio non esiste altrimenti lo impedirebbe”) o bestemmiandolo (“Dio non toglie il male, dunque è cattivo”), ma ricordando la libera volontà degli esseri creati e soprattutto l’esistenza e l’azione di colui che nelle promesse battesimali chiamiamo “l’origine e la causa di tutti i mali”.

Anche attribuire ad una creatura titoli divini (cosa non troppo infrequente oggi), in maniera esplicita ma anche implicita è un’ulteriore grave oltraggio rivolto alla divina maestà. Non è raro oggi vedere, per esempio, il qualche concerto rock striscioni che attestino il “tributo di vera e propria adorazione” reso da alcuni “fans” ai propri sciagurati idoli. Simili esagerazioni blasfeme possono capitare con l’attore o l’attrice di turno, con la squadra o il calciatore preferito, o col politico più in voga.

Infine c’è quella misteriosa frase che il santo Curato non osa trascrivere, per la delicatezza straordinaria tipica di tutti i santi, che sembrerebbe poter essere letta semplicemente come un’imprecazione (attribuendo alla “s” “santo”, alla “n” “nome”, e alla “D” maiuscola “Dio”). In effetti anche l’attuale catechismo avverte circa la necessità di astenersi da simili frasi, perché quand’anche non fossero accompagnate da intenzione di bestemmia, costituiscono comunque una specie a se stante di peccati. Se si pensa all’esclamazione inorridita con cui il santo chiosa l’espressione puntata e la si confronta con la faciloneria leggera con cui anche non pochi fedeli usano queste espressioni, si troverà senza dubbio molto ampia materia di meditazione per le nostre coscienze grossolane e indelicate…
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Il secondo comandamento: Dio e il suo nome

4/6/2014

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I DIECI COMANDAMENTI - Il secondo comandamento: Dio e il suo nome

Il secondo comandamento proibisce di nominare invano il nome del Signore nostro Dio. Come abbiamo già avuto modo di osservare questo precetto (come tutti) contiene e veicola anzitutto un valore importante ed essenziale da riconoscere, perseguire e tutelare: in questo caso la santità del “nome” di Dio e il rispetto e l’adorazione a Lui dovuti come Essere Supremo, Sommo ed Eterno.

Nella Sacra Scrittura il nome designa sempre l’essenza e l’identità profonda della persona. Ciò che vale per i nomi di molti idiomi, vale per tutti i nomi ebraici: sono sempre intrisi di un significato molto profondo che è un po’ come l’identikit di colui che porta quel dato nome. Pensiamo, solo per fare qualche esempio, al significato del nome di Gesù (“Jahvèh salva”), a quello dell’arcangelo Michele (“chi è come Dio”), a quello del profeta Elia (“Dio è Jahvèh”). Il nome individua dunque la persona, la ragione profonda del suo essere ed anche il contenuto della sua missione. Si pone a questo punto perentoria una domanda: Dio ha un nome? E cosa significa il termine “Dio”?

Come afferma san Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae (S. Th., I, q. 13), riferendo il pensiero di san Giovanni Crisostomo, la possibile etimologia del termine “Dio” (in greco “theòs”) è triplice: come derivante dal verbo “theein”, che significa “correre”, ad indicare la rapidità, o meglio l’istantaneità con cui Dio agisce e provvede a tutte le cose (noi sappiamo che per Dio basta un movimento della volontà per creare o modificare qualunque cosa); come derivante dal verbo “aethein” (“ardere”), in riferimento al fatto che Dio è un “fuoco divoratore” (Dt 4,24; Eb ,12,29) come afferma la Scrittura e come ci attesta la prima grande epifania di Dio di cui tra breve parleremo: con ciò si alluderebbe all’incendio eterno di amore che caratterizza la vita intima della divina essenza; infine come derivante dal verbo “theaomai” (“vedere”), che rimanda al fatto che Dio vede chiaramente e simultaneamente tutte le cose. Quest’ultima significazione trova conferma dall’etimo derivante dal sanscrito “thieu”, che significa “luce”. Da questo breve e sintetico excursus emergono già chiaramente alcuni caratteri di questo “essere supremo che tutti chiamano Dio” (volendo chiosare le celebri espressioni adoperate da sant’Anselmo e San Tommaso d’Aquino), quali l’assoluta ed istantanea potenza, l’ineffabile ed eterno amore, il supremo controllo e l’infallibile e simultanea conoscenza di tutto lo scibile, reale o potenziale.
Basterebbe questo per prendere coscienza del timore e tremore con cui tutte le creature dovrebbero accostarsi a questo supremo Ente. Ma Dio, nella sua infinita bontà, ha voluto anche rivelare il suo nome proprio nella celebre teofania del roveto ardente che ebbe come spettatore il suo servo Mosè (cf Es 3,1-15). In questo episodio Dio, dopo essersi mostrato attraverso l’immagine del roveto che ardeva senza consumarsi (chiara allusione alla grande simbologia legata al fuoco); dopo aver esortato Mosè a togliersi i sandali (dettaglio molto importante e dall’alta valenza significativa, dato che scalzi andavano fin da allora gli schiavi, ovvero coloro che erano assolutamente privi di ogni diritto e proprietà); dopo aver ricordato la sua primitiva rivelazione come Dio personale ed in rapporto personale con gli uomini sue creature (“Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”), si rivela finalmente come “io sono Colui che sono”. Purtroppo una simile straordinaria affermazione, magistralmente spiegata da san Tommaso d’Aquino e oltremodo adeguata per farci apprendere una qualche cognizione, certamente misteriosa ma al tempo stesso vera e profonda di chi Dio è, a noi uomini del ventesimo secolo, figli del nichilismo e della postmodernità, potrebbe sembrare banale, o forse priva di senso o addirittura incomprensibile. Invece con questa sublime espressione vengono affermate, in modo assoluto, tre proprietà che appartengono a Dio e a Dio solo: 1) l’identità tra essere ed essenza; 2) l’eternità; 3) l’immutabilità.

Nessuno si spaventi dinanzi all’apparente difficoltà della prima affermazione. Cosa significa che in Dio l’essere si identifica con l’essenza? Una cosa che Gesù, nel Vangelo, spiega in termini per noi certamente più comprensibili, dicendo: “io sono [non “io ho”] la Vita”. Nel senso che mentre per ogni ente creato, la vita non è affatto una realtà necessaria (io posso pensare ad un cane senza che necessariamente questo debba esistere) ed è comunque sempre contingente (ogni creatura ha una data di nascita ed una di morte), in Dio vale il contrario: l’essenza di Dio, ciò che fa di Dio ciò che è, è “l’essere il Vivente”. Dio non solo ha, ma è una Vita che non ha data di nascita né di morte. Badiamo bene a questa affermazione e alla sua portata. Noi esseri creati, infatti, possiamo concepire l’eternità solo in avanti (“qualcosa che non finisce mai”), ma non all’indietro (“qualcosa che non ha inizio”). Se noi siamo capaci di portarci indietro di miliardi e miliardi di anni e ci chiediamo se Dio c’era, la risposta è sempre affermativa e questo vale per l’infinito, senza poter arrivare ad un punto di inizio, né ad una causa anteriore. Ricordo una volta durante una lezione di catechismo un bambino obiettarmi: “ma Dio, chi l’ha fatto? E quando è nato?”. Ottima domanda, che tutti dovremmo porci. Ma la risposta esatta è semplicemente che Dio non l’ha fatto nessuno e c’è sempre stato e sempre sarà. Questo concetto, peraltro, può essere espresso in forma, per così dire dinamica, anche tenendo presente le possibili traduzioni di questa frase. Chi conosce la grammatica ebraica, inoltre, sa che “io sono colui che sono” contiene due verbi all’imperfetto e che l’imperfetto ebraico si può tradurre in  italiano con tre tempi: imperfetto, presente e futuro. Dunque quell’espressione potrebbe tradursi (correttamente) in tutti questi modi: “io ero Colui che ero”, “io ero Colui che sono”, “io ero Colui che sarò”; “io sono Colui che ero”, “io sono Colui che sono”, “io sono Colui che sarò”; “io sarò Colui che ero”, “io sarò Colui che sono”, “io sarò Colui che sarò”. La traduzione convenzionale rende tuttavia cristallinamente e staticamente questi aspetti: “io sono” (= la mia essenza) “colui che sono” (= colui che è e vive in un eterno ed immutabile presente). La trascendenza assoluta di Dio su tutto il creato è dunque affermata in modo netto e inequivocabile. Come trattare con un Essere “di questa portata”? Come osare anche solo pronunziare, pur con somma riverenza, il suo nome? Quanto grande sarà la santità di esso?
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Primo comandamento: i peccati contro la carità

18/5/2014

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I DIECI COMANDAMENTI - Il primo comandamento: i peccati contro la carità

AMERAI IL SIGNORE DIO TUO
CON TUTTO IL CUORE, CON TUTTA LA MENTE E CON TUTTE LE FORZE
I peccati contro la carità

L’ultimo argomento che ci resta da trattare per chiudere, almeno in maniera essenziale, il lungo capitolo dei peccati contro il primo comandamento, è quello concernente i peccati contro la virtù teologale della carità. In base ad essa, ogni fedele è obbligato ad amare Dio con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze e il prossimo come se stesso. Ora, per ciò che concerne la seconda “ala” del duplice comandamento dell’amore (che qualche padre della Chiesa paragonava appunto a una colomba che per volare adopera due ali), il contenuto dell’amore fraterno è specificato dai comandamenti della seconda tavola (dal quarto al decimo). È invece materia del primo comandamento (e, vedremo, anche del secondo del terzo), la prima parte del precetto della carità, tanto sovente dimenticata o addirittura ignorata da non pochi che si onorano del nome di cristiani.

Il senso del primo comandamento è molto intuitivo: renderci coscienti che essendo Dio “il Tutto” e Colui dal quale tutto abbiamo ricevuto, deve avere nella nostra vita, assolutamente e sotto tutti gli aspetti, il primo posto. Deve essere il centro delle nostre energie intellettive (“la mente”), affettive (“il cuore”) e fisico-corporali (“forze”). Facciamo subito qualche esempio (non esaustivo) per comprendere a cosa questo precetto ci obbliga e ci proibisce.

Amare Dio con tutta la mente significa, anzitutto, dedicare tempo, energie e attenzione alla conoscenza di chi Dio è e di cosa pensa e vuole; in altre parole è obbligatorio curare la propria formazione cristiana. L’ignoranza crassa (grave e dipendente da negligenza colpevole), infatti, oltre che costituire un peccato grave, non scusa da tutti i peccati che si commettono a causa di essa. Quante volte si sente dire: “Padre, è peccato? Ma io non lo sapevo!”. E quante si potrebbe rispondere: “ma tu che hai fatto per saperlo?”. Altra dimensione dell’amare Dio con tutta la mente è saper adorare Dio nei suoi disegni, anche quando sono per noi dolorosi e incomprensibili. Chi dinanzi ad una croce o una prova (un lutto, una morte prematura, una disgrazia, una calamità naturale, etc.), pur senza giungere ad odiare Dio e bestemmiarlo, comincia a lamentarsi: “ma perché Dio ha permesso una cosa del genere”, pecca contro il dovere di sottomettere la nostra povera e limitata intelligenza all’infinita sapienza di Dio, che tutto dispone per il nostro bene e si rende simile al popolo di Israele che nel deserto mormorava in continuazione giudicando Dio, le sue opere e la sua pedagogia, che aveva disposto di condurre il suo popolo nella precarietà e nella prova per quarant’anni nel deserto. Esempio luminoso di questa grande opera è Abramo, che accettò l’inumana prova di offrire a Dio in sacrificio il proprio unico figlio, e proprio quello che Dio gli aveva miracolosamente concesso in età senile e da cui Egli stesso aveva giurato di far derivare una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia del mare. Si badi che analogo discorso vale per il rispetto dovuto alla Chiesa, al suo insegnamento e ai suoi ministri, anche indegni, che nessuno si deve permettere di giudicare ma per i quali bisogna pregare e offrire sacrifici (e, se le circostanze lo richiedono, correggerli con umiltà, dolcezza e carità).

Amare Dio con tutto il cuore significa dargli il primo posto fra i nostri affetti. Gesù ha detto chiaramente nel Vangelo: “chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me. Chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me” (Mt 10,37). E ha detto anche: “se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26). Qui si apre il campo a innumerevoli peccati che pur commessi per debolezza, sono comunque oggettivamente da considerare molto gravi. Amare Dio più di un figlio, per esempio, significa, tra le altre cose, lasciarlo libero di seguire la propria vocazione, specialmente quella alla vita consacrata. Quanti genitori impediscono ai propri figli di farlo? Con quali conseguenze nefaste? Più di qualche santo (e recentemente anche qualche mistico) ha affermato che per i genitori che si macchiano di questa colpa è preparato un Purgatorio durissimo e che si protrarrà fino al Giudizio universale! Stessa cosa vale per il caso contrario: un figlio, dinanzi a un genitore che gli impedisse di seguire il Signore, deve obbedire a Dio e non ai genitori. E se per debolezza cedesse, questo gli sarà imputato a colpa. Altro esempio, riguardante marito e moglie. Un marito non vuole avere più figli e usa metodi contraccettivi o chiede un uso sbagliato e immorale del matrimonio. La moglie che dovesse accondiscendere non pecca solo contro il sesto comandamento (come il marito), ma anche contro il primo, perché per amore del marito accetta di trasgredire la legge di Dio. Che differenza tra queste brutte situazioni ed alcune storie di mamme martiri che non hanno esitato nei primi secoli ad affrontare il martirio lasciando orfani bimbi ancora infanti, oppure di sante donne vergini (una per tutte: santa Cecilia), che riuscirono a far rispettare la propria verginità a mariti pagani, che invece di ucciderle si convertirono (e molti di essi morirono martiri!).

A proposito di martirio, veniamo all’amare Dio con tutte le forze. Per comprendere questo obbligo basta tener presente queste luminose e chiare parole della Lettera agli Ebrei: “non avete ancora resistito fino al sangue nella vostra lotta contro il peccato” (Eb 12,4). Non si può mai e per nessuna ragione scendere a compromesso col male, meno che mai con la scusa che “i tempi sono cambiati” (frase che sembra essere il Vangelo del terzo millennio…). Il male è male, sempre, comunque, dovunque. Non deve essere fatto, né approvato, né consentito, mai, in nessun modo e per nessun motivo. Va denunciato e combattuto con coraggio. Guai, per esempio, a quei genitori permissivi che sono la causa della rovina dei figli solo perché non vogliono affrontare le lotte e le ribellioni conseguenti a un’educazione severa: genitori che mandano i ragazzi in vacanza con la fidanzata, che permettono mode invereconde alle figlie, che non vigilano sull’osservanza dei doveri religiosi dei figli. Amare Dio con tutte le forze vuol dire anche offrire a Dio il nostro lavoro, nel senso che un cristiano non solo lavora onestamente e con impegno, ma lavora in obbedienza a Dio, curando la massima perfezione possibile nell’esecuzione del lavoro (anche umilissimo) ed offrendo parte dei propri beni per le necessità dei poveri e della Chiesa. Infine, qualora fosse necessario e Dio lo richiedesse, in virtù del primo comandamento e di questo precetto in particolare, non bisogna esitare ad affrontare il martirio in difesa della fede o per non commettere un peccato, come ci ricordano, qui in Italia, i luminosi esempi di santa Maria Goretti (morta ammazzata per non aver consentito a un tentativo di violenza) e di santa Giovanna Beretta Molla (morta di malattia subito dopo il parto per aver voluto portare avanti una gravidanza nonostante il parere contrario dei medici).
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Primo comandamento: i peccati contro la speranza

12/5/2014

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I DIECI COMANDAMENTI - Il primo comandamento: i peccati contro la speranza

Nell’articolo precedente abbiamo iniziato il discorso sui peccati contro il primo comandamento riguardanti le tre virtù teologali. Prima di passare ai peccati contro la virtù della speranza, bisogna ancora spendere qualche parola su quelli contro la fede, affrontando la tematica del “dubbio ostinato”. C’è infatti da abbattere un luogo comune molto diffuso: che è lecito, anzi possibile o addirittura inevitabile avere qualche dubbio sulle verità di fede. Infatti, si dice, come è possibile non avere qualche dubbio su ciò che è assolutamente non evidente come le verità di fede? Ebbene, dubitare circa le verità di fede (ancor più nel caso di dubbio ostinato) non solo è peccato ma è peccato gravissimo. Le verità di fede, infatti, sono tali perché rivelate da Dio e, in quanto tali, poggiate sul crisma certo ed infallibile della sua autorità indiscussa e della sua veracità assoluta e indiscutibile. Dubitare su una verità di fede, pertanto, sarebbe come ammettere che Dio possa sbagliare o indurre in inganno. Viceversa una verità di fede, quando è tale, è da ritenersi più certa e assoluta delle cosiddette “verità scientifiche”, che poggiano su evidenze incontrovertibili rispetto ai sensi. Si ricordi che la vera questione in gioco nel famoso “caso Galileo”, tanto sbandierato da certa propaganda anticristiana e laicista, era esattamente questa. Galileo affermava la superiorità delle “verità scientifiche”, che si fondano sull’osservazione empirica, sulle verità di fede, che sono del tutto inevidenti. Per dirla in termini semplici, che due più due faccia quattro non si discute, ma sull’eternità dell’Inferno forse si potrebbe esprimere qualche perplessità. In ogni caso dall’evidenza della prima affermazione contro l’inevidenza della seconda, si inferisce la superiorità della prima. Ora la Chiesa reagì e puntò i piedi proprio perché in questo, il pur meritevole e grande scienziato pisano, non aveva visto bene; infatti è più facile che due più due faccia cinque piuttosto che una verità di fede non sia vera! E l’autorità di Dio su cui poggia una verità di fede è ben superiore all’evidenza sei sensi e dell’osservazione! Pensiamo, alla luce di ciò, quanto lontana sia la “sensibilità” dell’uomo contemporaneo dal dovere di aderire “con fede divina e cattolica” (che non ammette dubbi e tentennamenti) a tutte e singole le verità rivelate da Dio che la santa Chiesa ci propone a credere!

Venendo ora ai peccati contro la virtù teologale della speranza, bisogna anzitutto ricordare che grazie a questa virtù noi attendiamo da Dio la vita eterna e le grazie necessarie per meritarla con le buone opere che ogni seguace di Gesù Cristo può e deve fare. I primi due peccati contro la virtù della speranza, pertanto, sono di tipo specularmente opposto, ma entrambi gravissimi perché configurano due fattispecie concrete di peccato contro lo Spirito Santo: si tratta della “disperazione della salvezza” e della “presunzione di salvarsi senza meriti”. Il primo peccato fu commesso da due (tristemente) noti personaggi biblici: Caino e Giuda. Il primo pronunziò l’espressione blasfema “troppo grande è il mio peccato per avere perdono” (Gen 4,13), mentre il secondo, autore del più grave peccato che mai fu e sarà compiuto nella storia, pensò bene di togliersi la vita anziché andare a chiedere umilmente perdono ai piedi di quella Croce su cui stava morendo, anche per lui, Colui che egli vilmente aveva consegnato per trenta denari. Questo peccato nega l’onnipotenza della misericordia di Dio ed il fatto che Egli, per quanto sta in Lui, desidera che “tutti siano salvati ed arrivino alla conoscenza della verità”, come scrive san Paolo nella prima lettera a Timoteo (1Tim 2,4). Non esiste dunque peccato, per quanto grave e orribile, che non possa essere rimesso dall’onnipotente misericordia di Dio, alla sola condizione che chi lo ha commesso ne sia realmente pentito e sia pronto ad espiarne le conseguenze. Non meno grave e pericoloso è l’atteggiamento diametralmente opposto, oggi disgraziatamente assai diffuso ed anzi considerato da qualcuno intangibile verità di fede: la presunzione di salvarsi senza meriti. Sono in molti infatti a presumere stoltamente della bontà e misericordia, pensando che tutti andranno in Paradiso, che Dio non può tollerare che qualcuno si danni (“vogliamo scherzare??? Un’eternità interminabile di tormenti! Ma, per favore, dove sta allora la misericordia di Dio?”), che non è affatto vero che esistono premi per le virtù e castighi per i peccati. Oggi non sono pochi, anche tra i sacri ministri, a dire scempiaggini grosse quanto l’universo intero, che se non fosse per i danni immensi che producono in chi vi dà ascolto, sarebbero solamente da ignorare e commiserare pregando il Signore che faccia un po’ di luce a questi ignari (si spera…) servi del principe delle tenebre. È verissimo che Dio vuole che andiamo in Paradiso, ma per giungere a questa benedetta mèta occorre compiere opere sante, passare per la porta stretta della Croce e della rinuncia, per la via obbligata dell’osservanza dei comandamenti, addirittura arrivando ad affrontare una lotta fino al sangue contro il peccato (cf Eb 12,4). Pertanto chi presume di poter stoltamente confidare nella misericordia di Dio, senza operare i doverosi sforzi ascetici per “conseguire la mèta della nostra fede, cioè la salvezza delle anime” (1Pt 1,19), commette gravissimo peccato di abuso della divina misericordia e dimenticanza della divina giustizia e se non corregge questa visione luterana e quietistica della giustificazione, non potrà accedere alla vita eterna e non entrerà nel Regno di Dio.

Sono contro la speranza anche degli sciocchi e assurdi peccati che costituiscono la vergogna dell’uomo intelligente, quali quelli disuperstizione. La superstizione consiste nel credere che le cose possono riuscire qualora si compiano alcuni gesti scaramantici o qualora gli astri esercitino certi influssi, si portino degli amuleti, si scacci la sfortuna, etc. Ecco dunque apparire cornetti e ferri di cavallo, letture di oroscopi o consultazioni di tarocchi, o sciocchezze quali non passare sotto la scala, evitare il gatto nero, toccare ferro se si vede una bara, non fare nulla il Venerdì 17, etc. Tutte queste cose offendono la virtù della speranza per un motivo semplicissimo: il buon andamento della nostra vita e delle nostre cose dipende da una sola cosa, cioè dalla benedizione di Dio e dalla sua grazia, che si ottengono mediante la preghiera, la frequentazione dei sacramenti e la richiesta di benedizioni (alla propria persona, alla casa, alla macchina, al lavoro, etc.) ai ministri di Dio. Ritenere, come insegna san Tommaso, che la nostra vita possa essere condizionata in qualche modo da queste sciocchezze, oltre che offendere gravemente Dio, svela la stupidità dell’uomo, essere intelligente che pensa che cose inanimate o sciocchezze varie (molto al di sotto di lui) possano in qualche modo influenzare il corso degli eventi.

I santi potevano permettersi di chiosare altri santi. San Pio, pertanto, si permise di completare un celebre aforisma di Sant’Alfonso M. De Liguori (“chi prega si salva, chi non prega si danna”) aggiungendo “chi prega poco è in pericolo”. Mettiamo in pratica questa esortazione del santo stigmatizzato del Gargano e tutto andrà per il meglio, facendo attenzione a svuotare la casa (oltre che il cuore) da ogni oggetto superstizioso, ricordando che alcuni di essi, oltre a non servire a nulla, attraggono anche presenze malefiche in noi e attorno a noi.
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