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PERDERE LA MIA RELIGIONE

8/10/2016

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by Berlicche

Nei tempi andati, nell'Europa di qualche secolo fa, con religione non si indicava ciò che si intende adesso. L'uomo era religioso, punto e basta. Era una virtù; una caratteristica dell'umano, più interna che esterna. Con esso si intendeva il rapporto dell'uomo con il trascendente, con il sacro, con lo straordinario.

Per quasi tutte le culture c'è in questo termine, o nelle sue varie traduzioni, una sorta di contratto tra l'uomo e il divino, in cui quest'ultimo concede il suo favore in cambio di riti, o devozione. Il riconoscimento della sovra-umanità è la garanzia alle regole comuni di comportamento, la base della convivenza sociale. Se per i cristiani questo contratto è una libera alleanza, in altre culture è imposizione, editto da rispettare, dovere da ottemperare. Avere una religione voleva dire quindi sottoporsi a questo legame.

Chi non aveva religione, o ne aveva poca, voleva dire che non riconosceva l'ordinamento comune del mondo. Non riconoscendo le regole, era in qualche maniera fuori dalla società. Quello di cui si accusava i cristiani nei primi secoli era proprio questo: attribuendo la divinità al solo Cristo e non all'imperatore o altri dei erano considerati irreligiosi, ribelli alle regole e perciò pericolosi, capaci di tutto. La preoccupazione degli apologeti dei primi tempi era proprio questa: dimostrare che credere in Cristo non voleva dire non avere regole, ma avere una regola così alta da comprendere tutte le altre.

La trasformazione del concetto di religione in quello moderno avviene quando si comincia a negare la trascendenza. Se si nega che esista qualcosa di più alto dell'uomo allora, se si vogliono avere regole, bisogna sostituire il divino con l'umano. O meglio: occorre dare all'umano un potere sovraumano, concedendogli quegli attributi che un tempo erano riservati alla divinità. Lo Stato è divinizzato; in alternativa il potente, la Costituzione, il Giudice, il Partito, il Mercato... tutte queste entità diventano soggetti religiosi, in quanto si pongono su un piano superiore all'uomo comune e impongono dei riti.
Mentre però il trascendente è per definizione  su un piano più alto della vita terrena, questi sostituti umani non possono dire altrettanto. Per suscitare fedeltà e imporsi devono usare un miraggio di progresso dal fiato corto, l'edonismo spicciolo del piacere oppure la forza. Tutte soluzioni che mancano di vera presa, e quindi incapaci nel tempo di mantenere la promessa, una regola giusta di vita, la felicità.

Abbiamo quindi, oggi, questo paradosso: si riconosce il termine religione solo a quanto si riferisce ad una trascendenza pur essendoci soggetti che, negandola, ne assumono tutte le prerogative. Perché l'uomo in qualche maniera è obbligato a riconoscere di bastare a se stesso;  di non essere abbastanza grande, di avere necessità di qualcosa di maggiore di lui. E' fatto così: anche se magari consciamente lo rifiuta, l'istante dopo si appella a questa religione che lo vincola.
​
Che se è roba umana, ha lo stesso esatto problema di chi la pratica: non è abbastanza grande. Chi sposa la moda rimane presto vedovo, si dice. La religione del contemporaneo domani l'avrò già persa.
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