vogliamo raccontarle una piccola storia istruttiva. Al Pronto Soccorso del “Bassini” di Cinisello Balsamo qualche giorno fa abbiamo dimesso una persona disabile, affetta da una patologia degenerativa che progressivamente va a paralizzare tutti i muscoli del paziente, peraltro già tracheostomizzato e con la peg (il famoso “sondino”) per l’alimentazione. In seguito a un eccesso di catarro, espettorato con violenza, la stessa peg era saltata e abbiamo dovuto intervenire, come da manuale. Nel tragitto di rientro la conversazione era a una sola voce, la nostra, perché lui poteva solo ascoltare: ci vedeva, ma non parlava. Annuiva soltanto. A un certo punto uno di noi gli ha fatto una carezza. Lui, ha sospirato, ha chiuso gli occhi ed è stato come se si “prendesse delle coccole”. Età oltre i 40. Allora, abbiamo insistito con la carezza. Quasi si addormentava, rasserenato. Lezione 1: vi sono pazienti disabili che nessuno tocca mai, forse da anni, cioè da quando hanno perso i loro parenti; ci siamo resi conto che il bisogno di contatto fisico talvolta è così forte che senza di esso un uomo perde il senso della stessa prossimità umana... al punto che ci è venuto da dire: «Ma tu guarda, quanto bisogno d’umano affetto una persona può portare dentro, tu lo soccorri materialmente ma umanamente non lo sfiori neppure!». Tutti – tutti! – portiamo dentro un bisogno senza confini ...e come è facile aiutarsi e come nello stesso tempo difficile trovare una carezza! Lezione 2: non è richiesto dal protocollo “dare la carezza”, non lo insegnano e, soprattutto, non è considerato un segno peculiare del bravo soccorritore…
Pippo e gli altri volontari di Croce Padre Kolbe
Davvero una piccola storia istruttiva, cari amici: la vicenda minima e coinvolgente di una carezza. Grazie per averla condivisa con noi, e proprio in questi speciali giorni del difficile tempo che stiamo vivendo. Ha la forza tranquilla eppure rivelatrice di una parabola e la concretezza della vita vera. E può aiutarci davvero a riportare alla mente qualcosa che ci riguarda profondamente, come un ricordo d’infanzia. Quella consapevolezza che la predicazione misercordiosa e incalzante di Papa Francesco già ha richiamato e rianimato con semplicità ed energia: abbiamo fame di tenerezza, tutti. E non solo nelle situazioni e nelle fasi della nostra esistenza in cui la fragilità emerge in modo prepotente e la sensibilità si fa più acuta. Eppure, cari amici, troppo spesso viviamo come se fosse disdicevole ricevere conforto e affetto e più ancora donarli. Basta l’efficienza del soccorso, quando c’è. E, in fondo, ognuno basta per sé. Ma non è mai troppo tardi per cambiare, per rivoluzionare lo sguardo sugli altri e su noi stessi. Non è mai troppo tardi per ritrovare l’allegria e la forza che ci sono necessarie per saper dare e accettare una carezza, cioè per prendersi cura gli uni degli altri. Perché non abbiamo da inventare nulla: le carezze si danno con le mani che abbiamo, anche se sono sudate di emozione e di ansia, screpolate dal freddo patito, segnate dalle ferite, rese ruvide dalla fatica di vivere. Perché le carezze si ricevono con la pelle che abbiamo, non con un’altra, magari levigata a proposito. Dobbiamo farci bastare non qualche presunzione, ma queste mani e questa pelle. E non c’è giorno migliore del giorno di Pasqua per ricominciare a capirlo, per sperimentarlo, per riassaporare i gesti innocenti e sapienti che dicono e ripetono un amore di padre e di madre, un amore di fratelli, che danno calore e luce ai rapporti umani e rendono più sopportabili solitudini e sofferenze. Grazie ancora, cari amici, per avercelo ricordato con il racconto di una storia piccola e buona. E auguri. Auguri a ciascuno di noi. Perché, proprio oggi, abbiamo la prova che la tenerezza di Dio per la nostra povera e splendida umanità continua a sconfiggere la smemoratezza e persino la morte. Gesù Cristo è veramente risorto.
Marco Tarquinio