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LIBERAZIONE 70 ANNI DOPO: ORA DI DIRE LA VERITA'

25/4/2015

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di Robi Ronza

70° anniversario del 25 aprile 1945.  Al di là dall’ondata di retorica dalla quale oggi verremo alluvionati, il settantesimo anniversario della Liberazione, ossia della fine ufficiale della Seconda guerra mondiale in Italia (poiché è di questo che esattamente si tratta), merita di venire colto come buona occasione per verificare che cosa tale data significhi nella storia del nostro Paese. 

È ora di farlo dopo che abbastanza tempo è trascorso da quei giorni; e già del tutto trascorsa è ormai la vicenda di quell’immane conflitto  e della Guerra fredda che ad esso fece quasi immediatamente seguito. E parte mia, essendo figlio e nipote di figure di rilievo della Resistenza, anche per questo dato personale lo posso fare in libertà senza che nessuno possa tacciarmi di nutrire  pregiudizi personali al riguardo.

Per cominciare merita di venire precisato, anche se non è una questione cruciale, che la data del 25 aprile è già di per sé non un dato di fatto bensì una scelta politica.  È il giorno in cui a Milano le forze tedesche ancora in armi nella città e dintorni si arresero ai partigiani e non agli Alleati (che erano comunque alle porte e forse proprio a tal fine rallentarono la loro avanzata). Nel Nordest, nella valle dell’Adige, in Friuli, nella Venezia Giulia e altrove, i combattimenti proseguirono sino ai primi giorni di maggio. 

Per cominciare poi a cogliere  nel suo valore, ma finalmente anche nei suoi limiti, quanto si celebra con il 25 Aprile in primo luogo occorre  a mio avviso sfrondare i fatti del 1943-1945 da tutto ciò che alla loro memoria venne aggiunto per necessità politiche sopravvenute a causa della Guerra fredda. A causa di essa infatti l’Italia venne a trovarsi in una delicatissima situazione. Democrazia occidentale dove però un Partito comunista di obbedienza sovietica era la seconda forza politica del Paese, l’Italia confinava per di più, con una frontiera  che ancora grondava sangue, con la Jugoslavia, governata da un regime nazional-comunista che si era ritagliato un ruolo di Stato cuscinetto tra i due opposti schieramenti della Guerra fredda: gli Stati Uniti e i loro alleati dell’Europa occidentale da un parte e dall’altra l’Unione Sovietica e i suoi alleati dell’Europa orientale.  

Per evitare al nostro Paese l’ulteriore tragedia di una guerra civile come quella scoppiata in Grecia, dove il locale Partito comunista aveva giocato la carta dell’insurrezione,  tra la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi e il Partito Comunista di Palmiro Togliatti si addivenne a un insieme di accordi non scritti ma rigorosamente definiti e osservati grazie ai quali in una certa misura i comunisti erano per vari aspetti nella maggioranza di governo pur mentre formalmente stavano all’opposizione.

Un certo modo di intendere la Resistenza e il 25 Aprile non è altro che la base simbolica su cui tale modus vivendi si appoggiava. Il punto di partenza era la pari dignità politica e il pari primato che, al di là del fatto che fossero al governo o all’opposizione, venivano ugualmente riconosciuti  a tutti i partiti  che “avevano fatto la Resistenza” e “avevano fatto la Costituzione”. Questo insieme di forze, di cui dunque il Partito comunista faceva parte, costituiva il cosiddetto “Arco costituzionale” il  cui unanime consenso veniva ritenuto necessario in un certo numero di  cruciali questioni. 

In tale prospettiva si decise di ampliare rispetto alla realtà dei fatti il ruolo storico della Resistenza, moto di ribellione in nome della libertà certamente nobile ma inevitabilmente non di massa, e inoltre rilevante soltanto al Nord, in Toscana, brevemente a Roma nonché in alcune altre poche aree dell’Italia centrale. E dentro la Resistenza divenne anche necessario aumentare in modo analogo  il peso del contributo comunista, decisivo in Emilia e forse a Genova, ma non altrove.  Viceversa venne messa la sordina su malefatte di ambiente comunista: dai massacri delle “foibe”  nella Venezia Giulia alle uccisioni di preti e seminaristi, e altri delitti nell’immediato dopoguerra in Emilia e altrove. Solo diversi anni dopo la fine della Guerra fredda questi fatti potranno venire pienamente alla ribalta.

Nel quadro della medesima forzatura rientrano anche altre due censure relative rispettivamente al Corpo Italiano di Liberazione, ossia alle forze dell’esercito italiano schierate a fianco degli  Alleati nel 1943-44, e a quella mobilitazione popolare, largamente sostenuta dalla Chiesa, grazie alla quale (fatto troppo spesso dimenticato) quasi l’84 per cento degli ebrei italiani sfuggì alla deportazione nei  campi di sterminio nazista, e vennero soccorsi e aiutati nello loro fuga verso la salvezza migliaia di militari sbandati dopo l’8 settembre.  

Sarebbe ormai tempo di cominciare a ricordare che la Resistenza fu anche tutto questo. Lo ha tra l’altro giustamente ricordato il presidente Mattarella in una sua non convenzionale intervista pubblicata ieri su la Repubblica. “Il 25 aprile fu lo sbocco”, ha detto Mattarella, “di un vero e proprio moto di popolo: la qualifica di «resistenti» va estesa non solo ai partigiani, ma ai militari che rifiutarono di arruolarsi nelle Brigate Nere e a tutte le  donne e gli uomini che, per le ragioni più diverse, rischiarono la vita per nascondere un ebreo, per aiutare un militare alleato o sostenere chi combatteva in montagna o nelle città”. 

Era ora di dirlo, ma bisogna riconoscere che Mattarella l’ha detto dando così il suggello dell’autorevolezza istituzionale alla rottura di un tabù che a circa venticinque anni dalla fine della Guerra fredda restava ciononostante ancora intatto.

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