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Expo. Quel «siam pronti alla vita» come un preservativo sull’Inno d’Italia 

6/5/2015

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Expo. Quel «siam pronti alla vita» come un preservativo sull’Inno d’Italia 
di R. Casadei


Benvenuta la polemica sull’Inno d’Italia in versione rimaneggiata cantato all’inaugurazione dell’Expo di Milano il primo maggio. Sulla rivisitazione musicale del brano musicato da Novaro e scritto da Mameli qualcuno ha alzato il sopracciglio, ma è soprattutto sulla sostituzione dell’ultimo «siam pronti alla morte» del baldanzoso testo originale con un buonista «siam pronti alla vita» cantato da un coro di bambini che le lame di commentatori e personalità politiche si sono incrociate.
Benvenuta la polemica, perché quando qualcuno si ribella ai tentativi di cambiamento di ciò che dovrebbe costituire un simbolo intoccabile, e quando si discute attorno alla coscienza che si deve avere della vita e della morte, e sulla rilevanza civile di tale riflessione, quando questo succede significa che quella cosa che chiamiamo Italia, intesa come comunità di destino fra gente che parla la stessa lingua e si riconosce in una storia comune, non è ancora morta. Non è ancora consegnata all’omologazione planetaria del tutto Stato e del tutto mercato.

Ovviamente io sto dalla parte di tutti quelli che hanno deprecato l’esperimento. Facendo notare che la patria cantata negli inni nazionali è Stato, e gli stati si sono costruiti tutti – tutti – col ferro e col sangue. Nessuno Stato è nato per gentile concessione dell’Onu o della Corte di giustizia europea, tutti sono nati da ribellioni, insurrezioni, secessioni, guerre patriottiche nelle quali è morta un sacco di gente. Ed è evidente che senza la disponibilità dei patrioti a rimetterci la vita, nessuno degli stati nazione cantati negli inni nazionali si sarebbe potuto costituire.

Christian Rocca eccepisce che far cantare ai bambini «siam pronti alla morte» è roba da madrassa talebana. Forse non sa che i bambini americani davanti alla bandiera a stelle e strisce cantano «Their blood has washed out their foul footsteps’ pollution. No refuge could save the hireling and slave from the terror of flight, or the gloom of the grave», che significa «Il loro sangue ha cancellato la contaminazione delle loro sporche impronte. Nessun rifugio ha potuto salvare il mercenario e schiavo dal terrore della fuga, o dalle tenebre della morte», riferito ai nemici britannici dei patrioti statunitensi. E l’allegra Marsigliese contiene strofe come «Qu’un sang impur abreuve nos sillons!», cioè: «Che un sangue impuro imbeva i nostri solchi!», riferito al sangue dei nemici che mettevano in pericolo la Francia rivoluzionaria.


Talebani pure i francesi e gli americani, che fanno cantare queste cose ai loro bambini? No, semplicemente consapevoli delle loro radici, della loro storia, e dell’importanza di non rinnegarle per non vedere compromessa e cancellata la propria identità. Mentre da noi tutta la storia d’Italia è stata condensata nel biennio 1943-45, e il resto non esiste più. Perciò nessuno si scandalizza se ai ragazzini viene fatta cantare “Bella ciao!”, che esalta il sacrificio di un combattente partigiano, e se il 25 aprile gli si fa gridare “Ora e sempre, Resistenza!”. Invece evitargli di intonare «siam pronti alla morte» sarebbe educativo e progressista.

Ma queste non sono le sole motivazioni per le quali è giusto prendere per i fondelli chi ha imposto la versione buonista dell’Inno di Mameli in mondovisione. C’è altro. C’è il crescente analfabetismo antropologico, filosofico e dei sentimenti che ha ormai investito l’Italia insieme al resto dell’Occidente, e che ogni giorno si manifesta con nuovi esempi. L’ammorbidimento dell’Inno di Mameli è solo un caso fra tanti, ma molto istruttivo. L’arrangiatore, Stefano Barzan, si è difeso in tivù dalle accuse di sacrilegio mettendo in evidenza la potenza simbolica del suo arrangiamento: il «siam pronti alla vita!» dei bambini era preceduto dal «siam pronti alla morte!» cantato da un coro di adulti attempati, ha fatto notare. L’analfabetismo sta proprio qui: per Barzan e per tutti quelli che approvano la sua operazione la morte è qualcosa riservato ai vecchi, mentre la vita spetta ai giovanissimi.

Sappiamo che non è così: la morte e la vita riguardano tutti, perché la morte è possibilità che può avverarsi in ogni momento, indipendentemente dall’età: chiedete conferma ai nepalesi, se avete dubbi in proposito. Il Mameli di Barzan è semplicemente un altro prodotto della negazione della morte, del tentativo di esorcizzarla e di delegittimarla, che è la caratteristica della cultura moderna, ma anche di quella post-moderna. Mentre gli Antichi e l’Europa cristiana conoscevano bene il posto della morte nella vita, i moderni e i post-moderni vedono in essa solo uno scandalo che si dovrebbe poter eliminare. Inutilmente Martin Heidegger ha scritto che l’uomo comincia a vivere in modo autentico quando prende coscienza di essere un essere-per-la-morte. L’hanno liquidato dandogli del nazista.

Contrapporre la vita alla morte è il più grossolano errore che il pensiero può compiere: vita e morte sono le due facce di un’unica medaglia, che è quella dell’esistenza umana. Tutto ciò che è nato morirà, tutto ciò che muore è nato. Vivere è morire un po’ per volta, morire è compiere qualcosa che presuppone la vita. Contrapporre morte e vita è puerile e ignorante. Esaltare l’amore per la vita di noi occidentali contro il supposto amore per la morte dei fanatici islamici è una pericolosa semplificazione che disarma l’Occidente nella guerra che gli estremisti gli hanno dichiarato. Le opposte retoriche possono servire agli scopi tattici dell’una e dell’altra parte, ma il problema di fondo è un altro, la questione strategica è un’altra: vince la guerra chi riesce a persuadere che la sua interpretazione del senso dell’esistenza è quella giusta.

L’esistenza è nascere, vivere, morire. Giovani dell’Occidente e dell’Oriente corrono sotto le bandiere del califfato perché le società di appartenenza non offrono loro una risposta persuasiva intorno al significato dell’esistenza (che è vita e morte, essere-nel-mondo ed essere-per-la-morte, direbbe Heidegger), mentre i jihadisti estremi prendono sul serio la domanda di senso. Certamente la loro risposta è criminale e delirante, ma di là la risposta semplicemente non c’è: ai giovani noi diciamo soltanto “vivi”, “goditi la vita”. Ma senza senso non c’è godimento, ovvero il godimento scade, diventa perversione, coazione a ripetere, eccetera.

I seminari di Jacques Lacan e la logoterapia di Viktor Frankl hanno chiarito il punto, ma vale per loro lo stesso discorso accennato per Heidegger: l’Occidente ha prodotto il massimo di sofisticazione del pensiero e della riflessione intellettuale, si è liberato dell’ingenuità delle letture religiose letterali della realtà, ma quando i suoi più grandi pensatori lo hanno rimesso di fronte a quelle stesse questioni alle quali la religione aveva dato una risposta (assolutamente soddisfacente in termini simbolici, fraintesa dai moderni che l’hanno dichiarata antiscientifica), ha semplicemente censurato le questioni e le domande. È per questo che oggi rischia di essere sconfitto persino da un nemico apparentemente impresentabile e obiettivamente poco dotato come l’Isis.

Dicevo sopra che gli esempi di analfabetismo simbolico, emotivo, antropologico piovono su di noi numerosi. La prima puntata di Amici di Maria De Filippi ha generato dibattiti, e in alcuni scandalo, soprattutto per l’intervento di Roberto Saviano, prezzemolino del benpensantismo. Non mi capacito che non abbia fatto scandalo il balletto di una delle squadre, che ha mimato scene di amore fisico sulle note di “Una furtiva lacrima”, spargendo qua e là profilattici imbustati. La prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili è imperativo che tutto copre e giustifica, anche la più ignorante delle associazioni di idee e la più stronza profanazione della più struggente romanza della musica operistica italiana.

Qual è infatti la giustificazione per associare L’elisir d’amore di Donizetti ai preservativi? Le parole con cui la romanza si conclude: «Ah, cielo! Si può morir d’amor». Per i ragazzi e le ragazze della squadra di Emma “si può morir d’amor” significa, piattamente, che scopando ci si può beccare l’Aids. Da cui la necessità di seminare preservativi mentre si mimano gli struggimenti dell’anima innamorata. Il significato originario, la natura distruttiva dell’amore fra uomo e donna, che quando non dura o non è corrisposto strazia colui/colei che è lasciato/a o respinto/a fino alla morte spirituale e a volte a quella fisica, è totalmente sfregiato. La malinconia della melodia è l’espressione musicale di questa consapevolezza drammatica. Nemorino dovrebbe essere entusiasta di aver capito, dalla lacrimuccia apparsa sul ciglio di Adina, che costei ricambia il suo amore. Invece se ne viene fuori con un canto malinconico e struggente. Perché “d’amor si può morir”.

Ma Klaudia, Santo e Sabatino ad Amici e Barzan all’Expo hanno la soluzione in tasca: la morte si evita portando sempre in tasca qualche profilattico e facendo cantare ai bambini «Siam pronti alla vita!». Risultato garantito.
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