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I CINQUE PRECETTI GENERALI DELLA CHIESA                 QUINTO PRECETTO: NON CELEBRARE SOLENNEMENTE LE NOZZE NEI TEMPI “PROIBITI”

1/2/2015

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I CINQUE PRECETTI GENERALI DELLA CHIESA

QUINTO PRECETTO: NON CELEBRARE SOLENNEMENTE LE NOZZE NEI TEMPI “PROIBITI”

IL CARATTERE PENITENZIALE DI AVVENTO E QUARESIMA

L'ultimo precetto generale della Chiesa proibisce la celebrazione solenne delle nozze nei tempi "proibiti" ovvero nei periodi penitenziali dell'Avvento e della Quaresima. Una disposizione che, a prima vista, potrebbe sembrare un poco anomala, ma che, a ben guardare, rivela profondi insegnamenti sia sul sacramento del matrimonio che sulla santificazione dei tempi penitenziali.

Le nozze, infatti, in tutta la sacra Scrittura sono, per antonomasia, il momento dell'allegria, della gioia, dei banchetti. Sono inoltre il simbolo reale dell'unione tra Dio e il suo popolo e della gioia reciproca che dovrebbe caratterizzare questo mistico rapporto, sia nella sua dimensione collettiva che in quella individuale. Tutti questi aspetti sono egregiamente e splendidamente significati nel celebre episodio delle nozze di Cana, che non casualmente Gesù scelse come occasione per compiere il suo primo miracolo, dalle fortissime coloriture simboliche. A questo banchetto nuziale di due sposi, infatti, parteciparono Gesù e Maria, il Nuovo Uomo e la Nuova Donna, primizie della nuova umanità destinata ad una ritrovata e rinnovata unione con Dio. Quel vino che venne a mancare (simbolo appunto della gioia e dell'amore, immancabile in ogni banchetto, specialmente nuziale) simboleggiava la gioia perduta dall'umanità a causa del peccato, ma già nuovamente in atto nella coppia Gesù e Maria che intendeva e voleva - congiuntamente, attraverso l'opera della redenzione - rendere all'uomo la perduta felicità dell'unione con Dio nella vita di grazia. L'ora della redenzione fu anticipata nel simbolo del vino nuovo, offerto come primizia agli sposi dopo essere stato già gustato, con divini e ineffabili fragranze fin dal primo istante dell'incarnazione, dal Nuovo Adamo e dalla Nuova Eva. 

Il beato Giovanni Paolo ebbe modo nelle sue catechesi sulla famiglia di mostrare come il mistero nuziale fosse segno simbolico - ma vero - delle mistiche nozze di Cristo con la Chiesa. Un'unione che la redenzione ha reso realmente possibile e vera fin da questa vita, ma che avrà il suo compimento pieno e perfetto solo nel banchetto nuziale eterno, allorquando saranno celebrate, come ci ricordano gli ultimi capitoli del libro dell'Apocalisse, le nozze dell'Agnello. Prima di quel giorno e di quell'ora, la relazione nuziale tra Dio e l'uomo è turbata e labile, a causa della permanenza della concupiscenza nell'uomo, che lo espone al rischio di tradire, anche gravemente, il patto di alleanza nuziale col suo Signore. Il profeta Osea è uno splendido esempio di come la teologia biblica concepisca la storia della salvezza (che è storia del rapporto di Dio col suo popolo) in termini nuziali, descrivendo le infedeltà dell'uomo come un vero e proprio "adulterio". Il rimedio a questa possibilità assai reale e incombente di tradimento (sempre e solo da parte dell’uomo) è dato soltanto dalla penitenza, ovvero da uno stile di vita che, coniugando preghiera intensa e mortificazione generosa, sappia mantenersi fedele alle esigenze dell'Alleanza. In questo senso i due grandi tempi penitenziali dell'anno liturgico richiamano assai opportunamente e sapientemente i fedeli all'importanza della dimensione penitenziale della vita cristiana, il primo accentuando la prospettiva della preghiera e della vigilanza in attesa dello sposo, il secondo calcando sulla necessità di mortificare i sensi nella pratica del digiuno e degli altri esercizi tipicamente quaresimali.

Alla luce di quanto sinteticamente esposto, dovrebbe essere più comprensibile il senso di questo precetto. Se infatti le nozze sono un segno mistico dell'unione consumata dell'umanità col suo Signore, che ci colmerà di ineffabile felicità ma di cui non è possibile godere pienamente in questa vita, è evidente che una celebrazione solenne e festosa di questo sacramento nei tempi penitenziali urta e stride con il pensiero che essi intendono suscitare circa la caducità della vita terrena e la sua dimensione intrinsecamente e necessariamente penitenziale. Ovviamente ci possono essere molte buone motivazioni che suggeriscano agli sposi di celebrare le nozze in questi tempi. Non bisogna del resto dimenticare che insieme alla dimensione mistica - che il matrimonio contiene sotto la specie del segno - c'è anche una molto più concreta e realistica prospettiva terrena, ribadita peraltro da Gesù in persona, quando nella disputa con i sadducei ricorda che sono "i figli di questo mondo" a prendere moglie e marito, cosa che non accadrà nell'altro mondo. Quando dunque serie e legittime esigenze spingano gli sposi ad accelerare i tempi di celebrazione del matrimonio lo si potrà fare anche in questi tempi; astenendosi tuttavia da ogni forma di solennità e mantenendo uno stile sobrio e discreto, per ricordare che ciò che le nozze significano misticamente è una promessa che attendiamo con gioia e trepidazione, ma che dobbiamo anche meritare con la nostra fedeltà alle esigenze dell'alleanza nuziale con nostro Signore.

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La proibizione di celebrare con solennità le nozze nei tempi “proibiti” ci offre lo spunto per spendere qualche ultima parola su alcune disposizioni da osservare ed altre da evitare perché le finalità e gli obiettivi dei tempi penitenziali possano essere pienamente realizzati nelle anime dei fedeli.

Al di là delle prescrizioni vincolanti e particolari della Chiesa – che a suo tempo vedemmo essersi di molto ridotte nell’attuale periodo storico – è infatti quanto mai importante cogliere e vivere il senso della penitenza cristiana, perché la sua ignoranza, dimenticanza, trascuratezza o minimizzazione produce delle nefaste conseguenze nella vita dei fedeli. Abbiamo accennato, nella puntata precedente, che i due tempi forti dell’Avvento e della Quaresima, pur avendo la penitenza come tratto comune, ne accentuano due dimensioni distinte e complementari.

L’Avvento vorrebbe aiutarci a rinvigorire, curare maggiormente e, in alcuni casi, riprendere o riscoprire l’importanza essenziale della preghiera nella vita cristiana. La preghiera, come i santi con tutta la tradizione della Chiesa attestano, è indispensabile per ottenere le grazie, per tenere viva la fede, per riconoscere i segni della presenza e della mano di Dio nella nostra storia, per conservare una dimensione profondamente religiosa dell’esistenza terrena, intesa come tempo di lavoro, lotta, prova e impegno (talvolta anche eroici) in cui ci prepariamo - compiendo bene la nostra missione - all’incontro definitivo con il celeste Sposo. A lui “renderemo la nostra anima” ed Egli ci chiederà conto della nostra sponsale fedeltà a Lui. L’Avvento ci ricorda che Gesù è venuto nella carne e che tornerà alla fine della storia. Queste due venute “universali” accadono, in modo analogo, nella vita di ogni uomo. Gesù viene in continuazione in cerca dell’uomo, viene nella sua vita, col pericolo di non essere accolto né riconosciuto, come non lo fu da molti, troppi, al tempo della sua nascita e durante la sua missione terrena. Come tutti lo vedranno nel suo secondo avvento glorioso, così ogni singolo uomo che muore e lascia questa terra, lo vedrà nel giudizio particolare. E come Cristo sarà giudice della storia, così sarà giudice di ogni persona nel giudizio particolare, dopo aver “rincorso” e cercato l’uomo, per tutta la durata della sua esistenza con la sua misericordia. Nell’Avvento, dunque, si preghi di più, si preghi meglio, o forse si impari a pregare se non lo si è mai fatto (anche se, magari, si sono borbottate frettolosamente tante preghiere). E dato che il clima adatto alla preghiera è il silenzio, si cerchi il più possibile di evitare il rumore, magari spegnendo la televisione, o la radio, o lo stereo o il computer e si trovi tempo e spazio per dedicarsi all’orazione e alla meditazione.

Come l’Avvento ci ricorda che senza la preghiera non possiamo né conservare la fede, né crescere nella grazia, né riconoscere le venute del Signore nella nostra vita, né lavorare per lui in attesa di incontrarlo, così la Quaresima ci ricorda un’altra essenziale verità di fede: il problema del peccato e delle sue conseguenze. Il peccato, unico vero male radicale e “assoluto”, separa l’uomo da Dio, separa l’uomo da se stesso, separa l’uomo dagli altri e produce delle conseguenze devastanti per sé e per gli altri, cosa che, se è evidente solo in alcuni tipi di peccato (se uccido una persona non risuscita, se diffamo una persona è molto difficile rendergli l’onore, se disonoro una vergine non posso riparare il danno “materiale”, etc.), rimane vera anche per il più piccolo peccato pensiero che produce male in chi lo commette e nel suo destinatario. Sempre e comunque. 

La lotta col peccato avviene a un duplice livello: bisogna togliere la separazione che produce da Dio, da se stessi e dagli altri e sradicarlo dall’anima e ciò avviene col sacramento della penitenza ben celebrato, che termina in un’autentica conversione della vita. Bisogna, tuttavia, anche lavorare sui suoi effetti nefasti, per neutralizzarli, ripararli o almeno mitigarne la portata e questo avviene con la penitenza “virtù” ovvero con quelle opere penose ai nostri sensi che servono a riparare le conseguenze dei nostri peccati. La lussuria lascia nell’anima un attaccamento disordinato ai piaceri illeciti? Dovrò privarmi anche di qualche piacere lecito, col digiuno. L’avarizia è la radice di tutti i mali, come dice san Paolo? Imparerò a condividere i miei beni con chi ne ha bisogno, attraverso la pratica dell’elemosina. Ho offeso Dio trascurandolo, derubandolo del suo giorno, offendendone il nome? Riparerò con Messe, preghiere, Rosari e Via Crucis, in cui gli dimostrerò tutto l’amore che gli ho indebitamente negato. Rebus sic stantibus, è quanto mai contrario allo spirito della Quaresima, darsi, in questo tempo, ai divertimenti quali i balli, le feste, i pubblici spettacoli, gli eventi mondani, i banchetti o cose simili. Anche se non esiste nessuna prescrizione sotto pena di peccato mortale che proibisce di andare in una sala da ballo in Quaresima, è evidente che farlo significherebbe non comprendere lo spirito di questo tempo.

Alla luce di questo excursus vorremmo evidenziare che la legge, che abbiamo cercato di approfondire, è sempre in certo modo limitata, fatta, come scrive san Paolo, per il peccatore (cf 1Tim 1,9), per “costringerlo” a raggiungere almeno quel minimo etico indispensabile per non offendere gravemente il Creatore. Ma, per noi figli di Dio, la legge è divenuta, come insegna san Giacomo, la “legge della libertà” (Gc 1,25), ovvero una luce e una spinta a comprendere il senso profondo dei precetti per viverne genuinamente lo spirito anche al di là di ciò che è “strettamente obbligatorio e necessario”. Anche perché nei figli di Dio, la legge suprema è la carità. E l’unica cosa in cui non dobbiamo mai temere di eccedere è l’amore di Dio, che, per quanto grande, sarà sempre abbondantemente al di sotto di ciò che Egli merita.
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I CINQUE PRECETTI GENERALI DELLA CHIESA                         QUARTO PRECETTO: SOVVENIRE ALLE NECESSITÀ DELLA CHIESA SECONDO LE PROPRIE POSSIBILITÀ

16/10/2014

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I CINQUE PRECETTI GENERALI DELLA CHIESA

QUARTO PRECETTO: SOVVENIRE ALLE NECESSITÀ DELLA CHIESA SECONDO LE PROPRIE POSSIBILITÀ

Il quarto precetto generale della Chiesa regola il dovere di tutti i fedeli di partecipare, in modo proporzionato alle proprie possibilità, alle necessità materiali della Chiesa, affinché essa possa svolgere la sua missione evangelizzatrice, missionaria, pastorale e caritativa nel mondo. L’argomento è di quelli scottanti e anche su questo c’è tanto pressappochismo unito a scarsissima formazione (e informazione) da parte di non pochi fedeli. Peraltro alcune “leggende nere” collegate a recenti fatti di cronaca, contribuiscono ulteriormente a creare confusione e disinformazione su questo argomento.

Diciamo subito, per sgombrare immediatamente il campo da possibili equivoci, che il messaggio cristiano non ha assolutamente nulla a che fare né con il comunismo né con il pauperismo. La proprietà privata è lecita e conforme al disegno di Dio, non altera il principio della destinazione universale dei beni, la povertà evangelica è un consiglio e non un obbligo da vivere effettivamente da parte di tutti, e non è affatto vera l’equazione ricchi = peccatori incalliti, praticamente dannati e poveri = giusti sfruttati e perseguitati, sicuri abitatori futuri del cielo. Il migliore amico di Gesù, Lazzaro, figlio del governatore della Siria Teofilo, non era certo un poveraccio (anzi!) e le eresie nate nel corso della bimillenaria storia della Chiesa da un’esasperazione rigida e apodittica della povertà evangelica non si possono contare. La Chiesa ha sempre insegnato che i beni, anche materiali (compresi i soldi), sono “beni”, certamente temporali e da doversi impiegare al servizio del bene (cosa tutt’altro che scontata), ma pur sempre “beni”. Certamente, a causa della condizione decaduta dell’uomo, l’avidità di beni e di denaro, la tendenza all’accumulo egoistico di essi con totale chiusura del cuore alle necessità del prossimo, rappresentano un pericolo assai reale, come insegna l’episodio evangelico del giovane ricco con il conseguente insegnamento di Gesù circa i pericoli delle ricchezze (cf Mt 19,16-30 e paralleli) e l’analogo episodio dell’anonimo ricco epulone, condannato all’Inferno per la sua totale chiusura di cuore alle necessità del povero derelitto Lazzaro (Lc 16,19-31). Ma su questa, come su altre materie, il fedele cristiano deve formarsi e imparare, anche grazie all’ascesi e alla mortificazione, un uso buono e santo del denaro e dei beni materiali, consapevole del fatto che, se non sono certamente i principali e i più grandi, sono al tempo stesso indispensabili per sovvenire alle necessità e agli impegni della vita in questo mondo. Uso santo che consiste nel trattenere per sé e per la propria famiglia tutto ciò che è necessario ad una vita decorosa e dignitosa, senza indulgere a lussi gratuiti o esagerati, riservando il sovrappiù alle due destinazioni da sempre praticate e raccomandate dai maestri di spirito: le necessità dei poveri e i bisogni della Chiesa.

Il Nuovo Testamento ci fornisce numerosi esempi di questa primitiva presa di coscienza ecclesiale dell’importanza di quest’argomento e di come la carità, necessariamente, dovesse abbracciare anche queste dimensioni “concrete e terrene” dell’esistenza umana. I primi sette diaconi furono, infatti, istituiti per il “servizio delle mense” (cf Atti degli Apostoli, cap. 6), ovvero quella prima embrionale forma di carità con cui la Chiesa, attraverso le risorse di tutti i fedeli, sopperiva alla condizione di indigenza o miseria di alcuni suoi membri. Un fenomeno, questo, non solo circoscritto a livello locale (la Chiesa di Gerusalemme), ma praticato anche a livello “inter-ecclesiale”, come forma di solidarietà con cui le Chiese più ricche sovvenivano alle necessità delle comunità più povere. La famosa “colletta” organizzata da san Paolo a Corinto per una chiesa sorella, ne è solo uno tra i tanti esempi emblematici attestati dalle fonti (Cf Seconda lettera ai Corinzi, capitoli 8 e 9). Sono, inoltre, note e attestate dal secondo capitolo degli Atti degli apostoli alcune consuetudini sorte spontaneamente nella comunità primitiva di Gerusalemme, quali quella di tenere alcune cose in comune o di vendere alcuni beni per condividere il ricavato con chi era privo del necessario. Infine san Paolo ricorda ai Corinzi come le spese per il suo sostentamento durante la missione nella loro comunità furono sostenute dalla Chiesa di Macedonia, per evitare che qualcuno potesse pensare che l’azione missionaria dell’Apostolo fosse mossa da fini non nobili e intenzioni non buone (cf 2Cor 11,7ss).

Sulla base di quanto emerso da questo primo excursus, possiamo enucleare i seguenti principi fondamentali circa la dottrina ecclesiale sui beni temporali. La Chiesa ha sempre realisticamente compreso la necessità dei beni materiali per questa vita, ripudiando inopportuni angelismi o pauperismi. Ha promosso nella coscienza dei fedeli, anche accogliendo alcuni liberi atti eroici (come la vendita di beni propri a scopo caritativo), la formazione su questo punto, insegnando che fa parte della sacrosanta “comunione dei santi” anche la disponibilità a condividere generosamente il denaro e i beni temporali e materiali. Consapevole dell’importanza fondamentale della missione apostolica e del fatto che gli apostoli, per quanto santi e asceti, avevano (e hanno) bisogno almeno del necessario per mangiare, vestirsi e quant’altro occorre per lo svolgimento della loro missione, non ha esitato a promuovere una particolare sensibilità missionaria, accettando che le comunità cristiane si facessero carico delle esigenze economiche insite nella missione apostolica, sulla base dell’adagio evangelico del Signore secondo il quale “l’operaio ha diritto alla sua mercede” (Lc 10,7). La Chiesa, infine, ha promosso fin dalle origini delle “strutture istituzionali” che potessero provvedere in forma stabile e organizzata alle necessità dei poveri e degli indigenti della comunità.

Come si può agevolmente vedere, le moderne “conquiste” degli Stati sociali e del cosiddetto “Welfare” hanno antenati ben lontani, che fanno comprendere come la Chiesa ha svolto una funzione educatrice del mondo dal di dentro, in questo come in tanti altri settori del vivere, acquisendo degli evidentissimi meriti che non possono essere in nessun modo misconosciuti e che dovrebbero indurre ad estrema cautela chi non fa altro che gettare fango o sparare a vuoto sulla Chiesa e sulla sua missione nel mondo.

Chiarito che “i soldi servono per vivere” – fermo restando che non si vive per i soldi – dovrebbe apparire evidente che sia il denaro sia il possesso di alcuni beni temporali sono essenziali, anzi imprescindibili, perché la Chiesa possa compiere la sua missione. Gli uomini di Chiesa che sono chiamati ad amministrare questo patrimonio dovranno certamente agire con molto scrupolo e rettitudine perché il buon uso dei beni sia effettivamente osservato e dovranno rendere conto al Signore qualora ci fossero distorsioni o sbavature nell’adempimento di questo delicato mandato. Tuttavia di essi la Chiesa non può fare a meno, salvo omettere di compiere la sua missione. Essa, stante la volontà del suo Fondatore, consiste essenzialmente e principalmente nell’evangelizzazione del mondo intero: “andate in tutto il mondo e annunciate il Vangelo ad ogni creatura” (Mt 28,16). Tutto il resto viene dopo e in subordine, perfino il dovere di sovvenire – anche materialmente – chi versasse in condizioni di povertà materiale. La Chiesa, infatti, non è una Onlus che si occupa di assistenza materiale né una sorta di “Caritas mondiale”. Essa esiste per portare al mondo la salvezza, cosa che passa per l’annuncio del Vangelo, ovvero del bisogno che ogni uomo ha di essere redento e salvato dal peccato – unico e vero male universale e nefasto – e che questa salvezza viene dalla conversione a Cristo e dall’accettazione di Lui, del Suo messaggio e dei mezzi salvifici che Egli ha istituito e che sono amministrati dalla Chiesa, da Lui fondata, che ne continua in ogni tempo e in ogni luogo la missione redentrice. Evidentemente per svolgere questa missione la Chiesa ha bisogno di mezzi e di denaro: i missionari, per quanto morigerati, hanno bisogno almeno di mangiare e coprirsi e di un tetto dove riposare; i mezzi di trasporto costano; gli edifici di culto devono essere costruiti, amministrati e mantenuti; e così via. L’attuale clima di pauperismo dilagante, purtroppo, ha l’effetto di obnubilare non di rado qualche mente e di indurire qualche cuore, per cui tende a ingenerarsi una strana mentalità in base alla quale “dare i soldi alla Chiesa” sarebbe inutile o addirittura quasi peccaminoso, in quanto sottrarrebbe le risorse all’unica finalità per cui, secondo un certo pensiero comune, dovrebbero essere destinati: le necessità dei poveri. 

Eppure nei Vangeli si trova un episodio (uno dei rarissimi casi attestati in tutti e quattro i Vangeli, i sinottici e quello di san Giovanni) dove Gesù in persona cerca di formare rettamente le coscienze dei suoi discepoli, che pur mantenendo alta la sensibilità verso il problema della povertà (Lui stesso si è identificato con i poveri ed è vissuto poveramente) non devono contrapporla ingenuamente alle esigenze connesse al servizio di Dio e della sua causa. Si tratta del famoso episodio dell’unzione di Betania in cui, nella redazione di san Giovanni (cf Gv 12), si fanno anche nomi e cognomi dei protagonisti. Maria, sorella di Lazzaro (identificata dalla tradizione con colei che, prima della conversione, era Maria di Magdala, la peccatrice di cui si parla nel settimo capitolo del Vangelo di san Luca), rompe un vasetto contenente un unguento del valore di 300 denari per ungere Gesù. La stima del valore fu fatta in estemporanea da Giuda Iscariota, che la redarguì per aver sprecato tale somma che avrebbe potuto (e, secondo lui, dovuto) essere riservata ai poveri. Gesù difese Maria e ammonì Giuda, ricordando che i poveri sarebbero sempre stati con noi e sarebbe sempre stato possibile trovare modo e tempo di beneficarli, ma non per questo non si sarebbe potuto (e dovuto) riservare beni e denaro per Lui. Con questo il Signore dava una duplice ammonizione. La prima era quella di dimenticarsi eventuali soluzioni “definitive” del problema della povertà (“i poveri sono sempre con voi”), che, in questo mondo, non ci saranno. Solo la carità e le opere di misericordia contribuiranno a lenire, nel corso della storia, le sempre nuove e variegate forma di povertà, che nessun sistema politico, soluzione economica e nemmeno impegno caritativo ecclesiale potrà mai del tutto eliminare. La seconda era quella di non cadere nella trappola di riservare al Signore sempre il minimo o gli “scarti”. Se si pensa che, a detta degli interpreti, un denaro era (a quei tempi) la paga giornaliera di un operaio a giornata (basti pensare alla parabola dell’operaio dell’ultima ora per rendersene conto), 300 denari erano equivalenti a quasi un anno di stipendio di un operaio… Se volessimo tentare un’equivalenza in euro, considerando almeno 50 euro al giorno come paga di un salariato, avremmo un valore di 15000 euro (50 x 300) per questo famoso unguento usato per ungere Gesù… Diciamoci la verità: quanti di noi si sarebbero associati all’espressione mista di stupore e sdegno di Giuda Iscariota (sarà un caso che l’ha pronunciata proprio lui…)? Eppure Gesù non l’ha sottoscritta, prendendo per contro le difese di Maria, che aveva compreso come al Signore e, analogicamente, alla Sua causa va sempre riservato il meglio e le primizie. I santi hanno sempre osservato questa regola, vivendo a volte una povertà estrema per sé, ma esigendo una grande magnificenza quando lo richiedeva, per esempio, il decoro del culto o dei luoghi sacri. Si pensi a quante chiese furono restaurate e abbellite dai frati di san Francesco e al fatto che questi esigeva che i vasi sacri fossero di metallo prezioso, preferibilmente d’oro, lui che per se stesso si privava perfino dei sandali per camminare! Oppure allo stile del santo Curato d’Ars che girava con una talare ampiamente al di sotto del limite della decenza, ma spendeva e spandeva per restaurare la sua chiesetta (attingendo ampiamente dal suo…) o per l’acquisto di paramenti sacri raffinatissimi e costosissimi, tanto da suscitare lo stupore dei venditori che pensavano che quel prete trasandato e povero non avrebbe avuto di che pagare tanto ben di Dio… Speriamo che dietro tante preoccupazioni un po’ troppo accorate e dietro tanti moralismi inopportuni non si celi un novello spirito di Giuda Iscariota, che si stracciò le vesti per i 300 denari impiegati per ungere Gesù e non si vergognò di venderlo (solo qualche giorno dopo) per un decimo (trenta denari…). Cura per Gesù, per il culto e per la missione della Chiesa vanno perfettamente d’accordo con la cura dei poveri. Come gli esempi di Gesù e dei santi – di tutti i santi – hanno sempre mostrato e dimostrato…
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I CINQUE PRECETTI GENERALI DELLA CHIESA        TERZO PRECETTO DELLA CHIESA: SANTIFICARE I GIORNI DI PENITENZA CON DIGIUNO E ASTINENZA

2/10/2014

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I CINQUE PRECETTI GENERALI DELLA CHIESA

TERZO PRECETTO DELLA CHIESA: SANTIFICARE I GIORNI DI PENITENZA CON DIGIUNO E ASTINENZA


NON MANGIARE LA CARNE IL VENERDI E DIGIUNARE NEI GIORNI PRESCRITTI 
L'attuale disciplina penitenziale della Chiesa

Il terzo precetto generale della Chiesa disciplina la santificazione canonica dei giorni di digiuno e di penitenza: “non mangiare la carne nel venerdì e negli altri giorni di astinenza e digiunare nei giorni prescritti”. Come si evince agevolmente dalla lettera del testo, si tratta delle due opere penitenziali del digiuno e dell’astinenza, la cui prassi, già ampiamente attestata sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento e raccomandata esplicitamente da Gesù, è universalmente attestata fin dai primordi del cristianesimo. La disciplina dei giorni penitenziali è andata variamente a comporsi lungo il corso della storia, conoscendo dei momenti caratterizzati da estrema severità alternati a regimi molto mitigati, quale è quello attualmente in vigore.

Prima di entrare nel merito e nel concreto della trattazione ci sembra opportuno far riferimento ad un importante documento del Magistero, la Costituzione apostolica “Paenitemini” di Papa Paolo VI, che individua i fondamenti dogmatici e scritturistici del dovere, per ogni cristiano, di “fare penitenza”. Vorremmo, in questa prima parte della trattazione relativa a questo precetto, citare i punti salienti della prima parte della Costituzione relativa ai fondamenti della penitenza, riservandocene il commento per le puntate successive. In un secondo momento citeremo i passaggi della seconda parte, dove il santo padre dà le disposizioni normative tuttora vincolanti nell’attuale disciplina ecclesiastica. I corsivi delle citazioni sono stati apposti dal sottoscritto.

Il Pontefice si preoccupa anzitutto di evidenziare l’origine biblica e veterotestamentaria del digiuno e delle opere di penitenza: “Nell’Antico Testamento si rivela con sempre maggiore ricchezza il senso religioso della penitenza. Anche se ad essa l’uomo ricorre per lo più dopo il peccato per placare l’ira divina, o in occasione di gravi calamità, o nell’imminenza di particolari pericoli, o comunque allo scopo di ottenere benefici dal Signore, possiamo tuttavia costatare come l’opera penitenziale esterna sia accompagnata da un atteggiamento interiore di «conversione», di condanna cioè e di distacco dal peccato e di tensione verso Dio. Ci si priva del cibo e ci si spoglia dei propri beni - il digiuno è generalmente accompagnato non solo dalla preghiera, ma anche dall’elemosina, - anche dopo che il peccato è stato perdonato, anche indipendentemente dalla domanda di grazie; si digiuna e si usa il cilicio per affliggere «la propria anima» (cf Lv 16,31), per umiliarsi al cospetto del proprio Dio (cf Dn 10,12), per volgere la faccia verso Iahvè, per disporsi con più facilità alla preghiera, per comprendere più intimamente le cose divine, per prepararsi all’incontro con Dio. La penitenza è quindi, già nell’Antico Testamento, un atto religioso, personale, che ha come termine l’amore e l’abbandono nel Signore: digiunare per Dio, non per se stessi”.

Più avanti il santo Padre mostra come Gesù in persona visse e insegnò la penitenza: “Cristo, che sempre nella sua vita fece ciò che insegnò, prima di iniziare il suo ministero, passò quaranta giorni e quaranta notti nella preghiera e nel digiuno, e inaugurò la sua missione pubblica col lieto messaggio: «Il regno di Dio è vicino», cui tosto aggiunse il comando: «Ravvedetevi e credete nel Vangelo» […]. L’invito del Figlio alla «metánoia» diviene più indeclinabile in quanto egli non soltanto la predica, ma offre anche esempio di penitenza. Cristo infatti è il modello supremo dei penitenti: ha voluto subire la pena per i peccati non suoi, ma degli altri”.

Dopo aver evidenziato la pratica e l’insegnamento del Maestro, ne spiega come la Chiesa sua sposa abbia recepito e vissuto tale importante aspetto della vita cristiana: “Dinanzi a Cristo, l’uomo è illuminato da una luce nuova, e per conseguenza riconosce sia la santità di Dio sia la malizia del peccato; attraverso la parola di Cristo gli viene trasmesso il messaggio che invita alla conversione e concede il perdono dei peccati, doni questi che egli pienamente consegue nel Battesimo. Tale sacramento, infatti, lo configura alla Passione, alla Morte e alla Risurrezione del Signore, e sotto il sigillo di questo mistero pone tutta la vita futura del battezzato.Seguendo perciò il divino Maestro, ogni cristiano deve rinnegare se stesso, prendere la propria croce, partecipare ai patimenti di Cristo; trasformato in tal modo in una immagine della sua morte, egli è reso capace di meritare la gloria della risurrezione. Seguendo inoltre il Maestro, dovrà non più vivere per se stesso, ma per colui che lo amò e diede se stesso per lui, e dovrà anche vivere per i fratelli, dando compimento «nella sua carne a ciò che manca alle tribolazioni di Cristo... a favore del suo corpo che è la Chiesa» (cf Col 1,24)”.

Davvero magistrale è, infine, la sintetica spiegazione dei fondamenti dogmatici, antropologici e morali del dovere per il cristiano di fare penitenza: “Il carattere preminentemente interiore e religioso della penitenza, e i nuovi mirabili aspetti che in Cristo e nella Chiesa essa assume, non escludono né attenuano in alcun modo la pratica esterna di tale virtù, anzi ne richiamano con particolare urgenza la necessità e spingono la Chiesa, attenta sempre ai segni dei tempi, a cercare, oltre l’astinenza e il digiuno, espressioni nuove, più atte a realizzare, secondo l’indole delle diverse epoche, il fine stesso della penitenza. La vera penitenza però non può prescindere, in nessun tempo, da una ascesi anche fisica: tutto il nostro essere, infatti, anima e corpo, anzi tutta la natura, anche gli animali senza ragione, come ricorda spesso la Sacra Scrittura, deve partecipare attivamente a questo atto religioso con cui la creatura riconosce la santità e maestà divina. La necessità poi della mortificazione del corpo appare chiaramente se si considera la fragilità della nostra natura, nella quale, dopo il peccato di Adamo, la carne e lo spirito hanno desideri contrari tra loro. Tale esercizio di mortificazione del corpo, ben lontano da ogni forma di stoicismo, non implica una condanna della carne, che il Figlio di Dio si è degnato di assumere; anzi, la mortificazione mira alla «liberazione» dell’uomo, che spesso si trova, a motivo della concupiscenza, quasi incatenato dalla parte sensitiva del proprio essere; attraverso il «digiuno corporale» l’uomo riacquista vigore e «la ferita inferta alla dignità della nostra natura dall’intemperanza, viene curata dalla medicina di una salutare astinenza» (Messale Romano di S. Pio V, Colletta della feria V dopo la I domenica di Passione)”.

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I fondamenti dogmatici, ascetici e spirituali della penitenza cristiana, oggi ahimé, SONO non di rado trascurati quando non proprio dimenticati o addirittura contestati. Processo questo che iniziò, disgraziatamente, in concomitanza con la celebrazione e la conclusione del Concilio Vaticano II, non certo per colpa o a causa di inesistenti “nuove dottrine” formulate in merito dal Concilio, ma per quella malaugurata tendenza ad attribuire al Concilio cose che non ha mai detto in nome di un’ermeneutica della “discontinuità” contro cui ha dovuto lottare strenuamente il papa emerito Benedetto XVI. In questo senso assai significativa è la data di promulgazione della Costituzione: 17 Febbraio del 1966, solo pochi mesi dopo la chiusura del Concilio.

Contro i novelli propugnatori dell’antico errore luterano del “sola Scriptura”, il pontefice si preoccupò subito di evidenziare i fondamenti biblici della penitenza. Digiuno, preghiera e elemosina sono ampiamente attestati e praticati sin dall’Antico Testamento con queste motivazioni: placare l’ira divina dopo il peccato, ottenere grazie e benefici dal Signore, accompagnare con gesti penitenziali esteriori il cammino interiore di rinuncia e distacco dal peccato, disporre l’anima ad una più profonda intimità e unione con Dio. Nell’Antico Testamento sono attestate le pratiche penitenziali di indossare il cilicio (cf Gen 37,34; 2Mac 3,19; Gl 1,13) di coprirsi il capo di cenere (cf Gdt 9,1; Est 4,1; Lam 2,13), di dormire per terra (Sal 131,3) e di indossare come veste un sacco (cf Ne 9,1; Is 37,). Né più né meno di ciò che fece san Francesco (e tanti santi hanno fatto e fanno prima e dopo di lui).
Nostro Signore Gesù Cristo fu il penitente per antonomasia (“il modello supremo dei penitenti”): oltre all’umiltà, il lavoro e il nascondimento obbediente e sottomesso dei trent’anni di vita a Nazareth, abbiamo l’inizio della vita pubblica inaugurato dal grande digiuno di 40 giorni, la sua predicazione esplicita sulle opere penitenziali e sul digiuno in particolare (cf Mt 6,16 ss; Lc 5,33 ss), ma soprattutto le pene acerbissime della passione a cui si sottopose come vittima di espiazione per i peccati del mondo intero (cf 1Gv 2,2).

I discepoli di Gesù hanno ben compreso questo esempio e si sono, da sempre, uniti al mistero della passione di Gesù infliggendosi penitenze e mortificazioni volontarie (si legga l’elenco delle penitenze compiute da san Paolo in 2 Cor 11,24-27, dove l’Apostolo parla, tra l’altro, di “veglie senza numero e frequenti digiuni”), sia per le motivazioni già note nell’Antico Testamento, sia per le due “nuove” motivazioni tipicamente neotestamentarie: anzitutto l’imitazione di Cristo e inoltre, secondo le parole di san Paolo, “completare nella propria carne quello che manca ai patimenti di Cristo in favore del suo corpo che è la Chiesa” (cf Col 1,24). Un motivo, quest’ultimo, assolutamente inedito, che richiama la novità del digiuno cristiano annunziata da Gesù (cf Mt 9,14-17) e che consiste nell’offrirsi, insieme al Maestro, non solo in penitenza per i peccati propri ma per espiare i peccati altrui, contribuendo alla conversione dei peccatori e alla riparazione dei debiti contratti dall’umanità peccatrice con la divina giustizia. È questo il “vino nuovo in otri nuovi?”, ovvero lo spirito nuovo con cui gli uomini nuovi (i cristiani rinati da acqua e da spirito) compiono le opere penitenziali? A parere di chi scrive sembrerebbe proprio di sì.

Dal punto di vista prettamente ascetico–dogmatico, tuttavia, insieme a tutte queste nobilissime e altissime finalità della penitenza, ce n’è una, radicata nella visione antropologica cristiana dell’uomo, che fa comprendere come la penitenza sia non solo utile e raccomandabile ma assolutamente necessaria: la condizione decaduta dell’uomo a causa della colpa d’origine, che ha ferito la natura umana inclinandola inesorabilmente e costantemente verso il male e il basso, ferita che nemmeno il sacramento del Battesimo chiude e rimargina e che rimane aperta e infetta fino a quando l’uomo vive la vita terrena. Questa tendenza “al basso” comporta un’inclinazione naturale verso i piaceri dei sensi, alcuni dei quali sono leciti e altri illeciti. Dinanzi ad essi l’uomo si trova in situazione di estrema debolezza, per cui facilmente cade nel godimento dei piaceri illeciti (si pensi ai piaceri venerei al di fuori del matrimonio) e altrettanto facilmente supera la misura e la moderazione in quelli leciti (si pensi ai piaceri della tavola e al vizio capitale della gola). La mortificazione e la penitenza, in questo senso, svolgono il compito di fortificare la volontà e abituare la persona ad abbracciare la croce, in modo tale che possa essere più forte e risoluta nel combattimento spirituale che bisogna affrontare contro i nemici dell’anima (anzitutto la carne, poi il mondo e il demonio). La “carne”, infatti, non va identificata “sic et simpliciter” con il corpo, ma nella teologia paolina esprime esattamente la debolezza dell’uomo nel tendere con estrema facilità verso le forme più basse di piacere, alcune delle quali sono sempre e comunque illecite e costituiscono materia grave (si pensi, per esempio, a tutto il vastissimo campo dell’impurità) e che vanno represse e dominate a qualunque costo. Nessuno che non abbia fatto un buon allenamento, può vincere queste battaglie.


Guai, dunque, guai e ancora guai a chi si azzarda ad insegnare diversamente da queste sacrosante verità, inoppugnabili dal punto di vista dogmatico e ascetico, biblicamente fondate e insegnate e praticate dall’ininterrotta bimillenaria tradizione della Chiesa. Oggi da qualche parte si osa cianciare dell’inutilità o addirittura della peccaminosità della pratica della penitenza, specialmente corporale, sulla base dello specioso pretesto (di per sé, per la verità, non sbagliato) che anche il corpo sarebbe da rispettare e trattare bene in quanto creato da Dio e che Gesù Cristo avrebbe già fatto abbastanza penitenza per noi, così che farla sarebbe quasi offenderlo o dubitare dell’efficacia della sua passione. Si badi alla sottile astuzia che sta dietro questi ragionamenti tendenziosi, che si confuta solo con le argomentazioni da noi appena evidenziate, a commento di quanto insegnato, quanto mai opportunamente, da Papa Paolo VI. Si ricordino i moniti continui della Signora del cielo, che invita da due secoli gli uomini alla preghiera e alla penitenza, con crescente premura e insistenza. Ognuno è libero di scegliere da che parte stare: con la Chiesa e la Madonna o con qualche sciagurato uomo di Chiesa che insegna dottrine di uomini, trasformandosi in “maestro del nulla”. Sapendo che di questa, come di tutte le scelte morali, si dovrà rispondere al Signore; e che sbagliare in questa materia comporta gravissime conseguenze. In questa e nell’altra vita.
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I CINQUE PRECETTI GENERALI DELLA CHIESA  SECONDO PRECETTO: CONFESSERAI I TUOI PECCATI ALMENO UNA VOLTA ALL'ANNO E TI COMUNICHERAI ALMENO A PASQUA

3/9/2014

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I CINQUE PRECETTI GENERALI DELLA CHIESA

SECONDO PRECETTO: CONFESSERAI I TUOI PECCATI ALMENO UNA VOLTA ALL'ANNO E TI COMUNICHERAI ALMENO A PASQUA

Il secondo precetto generale della Chiesa dice testualmente: “confesserai tutti i tuoi peccati al ministro di Dio almeno una volta l’anno e ti comunicherai almeno a Pasqua”.
Si badi anzitutto molto attentamente alla modalità di formulazione di questo precetto, cadenzato dalla duplice ricorrenza del termine “almeno”. Locuzione che lascia intendere la bontà, la sapienza e la conoscenza del cuore dell’uomo che possiede la santa Madre Chiesa e che la spinge a chiedere il minimo indispensabile per non mettere a serio repentaglio la possibilità dell’eterna salvezza. Se si bada attentamente alle parole con cui la Chiesa, a seconda delle circostanze, obbliga, esorta o consiglia, si coglierà questo afflato materno, che da un lato la anima a spingere e incitare i suoi figli alle più alte vette della santità, dall’altro tempera lo zelo con la coscienza della miseria e della debolezza del cuore dell’uomo. Ci accingiamo dunque ad approfondire il contenuto di questo precetto tenendo presente che esso mira a salvaguardare quelle condizioni minime e indispensabili di fruizione dei sacramenti che si possono ripetere, al di sotto delle quali si può seriamente compromettere la salute dell’anima.
Come insegna san Tommaso d’Aquino, questi due sacramenti sono l’uno ordinato alla pulizia e alla cura dell’anima che, dopo la colpa d’origine, tende inesorabilmente verso il basso, l’altro alla sua alimentazione e crescita nel bene, come il cibo materiale lo è per il corpo. Già meditando su questa analogia, pensiamo cosa sarebbe dei nostri corpi se facessimo la doccia una volta l’anno o se mangiassimo una sola volta l’anno. Il cattivo odore sarebbe a dir poco fetidamente nauseante e le forze fisiche sarebbero del tutto compromesse… Mosè, Gesù e san Francesco fecero tremendi digiuni di quaranta giorni consecutivi, ma nessuno arrivò a digiunare per 364 giorni! Questo basti per confermare ulteriormente quanto detto sopra. Alla sponda opposta di questo minimo indispensabile ci sono le regole d’oro per coloro che desiderano curare la propria anima come uno splendido giardino e tendere verso le vette della cristiana perfezione. In questo caso la confessione deve essere possibilmente settimanale (Padre Pio raccomandava di non superare mai gli otto giorni) e la comunione quotidiana. Nel mezzo c’è ciò che caratterizza la vita di un buon cattolico praticante che custodisca la vita ordinaria della grazia, in modo da poter fare la comunione ogni Domenica in cui ascolta la santa Messa di precetto, cadenzando la confessione al livello di circa una volta al mese, onde tenere sotto controllo lo stato di grazia della sua anima.
Veniamo finalmente a cercare di determinare ciò che caratterizza questo precetto, comunemente noto come “precetto pasquale”. Riguardo la santa comunione, la Chiesa obbedisce alle parole chiare e apodittiche del suo Signore e Maestro: “Se non mangiate la mia carne e non bevete il mio sangue, non avrete in voi la vita” (Gv 6,53). Ne consegue che la santa comunione è indispensabile alla salvezza dell’anima. Ecco perché è un vero e proprio obbligo canonico il fatto di dover ricevere almeno in occasione della solennità di Pasqua, la santa eucaristia e, quindi, premettere a questo gesto la confessione sacramentale senza la quale non è possibile accostarsi alla santa comunione. L’altra circostanza in cui un fedele è obbligato a ricevere la santa eucaristia è il viatico, ovvero l’ultima comunione che si riceve quando le condizioni di salute lasciano presagire l’imminenza della morte.

E’ necessario che il fedele faccia molta attenzione alla confessione annuale, se sceglie di assestarsi su questo livello minimo indispensabile. Mi spiego: questo precetto, in qualche modo, presuppone il primo, cioè una vita di pietà comunque definibile come “praticante”. C’è, infatti, molta gente che diserta regolarmente e abitualmente la Messa domenicale e crede di pacificare la propria coscienza davanti al buon Dio facendo una striminzita confessione prima di Pasqua, partecipando alla Messa di Pasqua, comunicandosi, per poi riprendere le sue cattive abitudini a partire…dal Lunedì di Pasquetta! È chiaro che in questo modo non solo questo secondo precetto non viene adempiuto, ma c’è il serio rischio di essersi macchiati di due gravi sacrilegi (confessione sacrilega e comunione sacrilega). Cercheremo dunque, già dal prossimo articolo, di vedere quali accorgimenti è necessario prendere perché la confessione e la comunione pasquale siano valide e ben ricevute.

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I CINQUE PRECETTI GENERALI DELLA CHIESA        PRIMO PRECETTO: PARTECIPERAI ALLA SANTA MESSA TUTTE LE DOMENICHE E LE FESTE COMANDATE

23/8/2014

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I CINQUE PRECETTI GENERALI DELLA CHIESA

PRIMO PRECETTO: PARTECIPERAI ALLA SANTA MESSA TUTTE LE DOMENICHE E LE FESTE COMANDATE

Ora occuparci di specificare a quali condizioni la partecipazione alla santa Messa è fruttuosa, ovvero non si limita a un semplice formale adempimento di un obbligo ma reca copiosi frutti di santificazione nell’anima, cosa che corrisponde in pieno alle intenzioni di Colui che ha "inventato" questo autentico prodigio per la nostra santificazione.
Prima di occuparci di questa partecipazione, che dal Concilio Vaticano II è stata definita “piena, attiva e consapevole”, dobbiamo specificare quali sono le altre “feste comandate” oltre le domeniche, onde puntualizzare l’esatta determinazione dell’obbligo canonico. 

Nell’attuale calendario e disciplina della Chiesa, le feste di precetto sono le seguenti:
- il primo Gennaio, solennità di Maria Santissima Madre di Dio (purtroppo non di rado dimenticata a causa delle “para-liturgie mondane” del 31 Dicembre…); 
- l’Epifania del Signore (6 Gennaio); 
- la solennità dell’Assunzione (15 Agosto); 
- la solennità di Ognissanti (1 Novembre); 
- le solennità dell’Immacolata (8 Dicembre) e del 
- Natale (25 Dicembre).

Vediamo ora alcune indicazioni per una fruttuosa partecipazione al santo Sacrificio della santa Messa. E' anzitutto sommamente raccomandabile non solo arrivare puntuali, ma possibilmente qualche minuto prima, per avere il tempo di raccogliersi e prepararsi "distaccandosi" (almeno nel cuore e nei pensieri) dalla routine e dal vortice delle occupazioni (e spesso preoccupazioni) della vita quotidiana. 

In Chiesa va osservato un degno contegno esteriore, che significa abbigliamento adeguato e dignitoso, compostezza nei gesti e nella postura, osservanza delle norme liturgiche circa la posizione da tenere nei singoli momenti della santa Messa: in piedi, in ginocchio, o seduti. 

Non bisogna tacciare frettolosamente queste indicazioni di "fariseismo" o "mera esteriorità", perché l'antropologia cattolica rispetta l'unità essenziale e sostanziale tra corpo e anima, per cui, ordinariamente, l'esteriore manifesta l'interiore e, a volte, lo aiuta e lo plasma. 

Se la liturgia mi dice di stare in ginocchio durante la consacrazione, è perché vuole che io adori il mistero del Verbo che discende sull'altare per la mistica immolazione. 
Questa posizione dovrebbe esprimere l'atteggiamento interiore di somma ed estrema riverenza, ma qualora questa fosse impedita da pensieri  e distrazioni, la postura esteriore aiuta l'anima a rientrare in sé, raccogliersi e rendersi conto di quello che accade. 

Similmente lo stare seduti durante la liturgia della parola serve a favorire la concentrazione nell'ascolto, che deve essere accogliente e riverente, di Dio che ci parla e della voce del suo ministro che spiega, attualizza e spezza la Parola proclamata e così via. 

Abbiamo detto che anche l'abbigliamento deve essere adeguato e dignitoso, ovvero osservare i canoni anzitutto della decenza e poi anche della modestia e di una sobria eleganza. 
Chi di noi, se dovesse essere ricevuto dal Presidente della Repubblica, ci andrebbe in ciabatte e shorts? 
Quale donna oserebbe presentarsi davanti al Papa sbracciata, scollata o sgambata? 
Pensiamo sempre, chiosando le parole che nostro Signore disse paragonandosi a Salomone, che ben più del Papa e del Presidente della Repubblica c'è dinanzi a noi nelle nostre Chiese! 

E come sarebbe estrema scortesia (per non dire maleducazione o cafonaggine) arrivare in ritardo ad un appuntamento col Presidente del Consiglio, non si vede come mai con tanta leggerezza le porte delle nostre chiese continuino, fastidiosamente, ad aprirsi e chiudersi fino alla liturgia offertoriale. (e, talora, anche oltre). Possibile che nostro Signore non meriti nemmeno un po' di buona educazione e bon ton?


Durante la santa Messa, oltre che essere sempre attenti e presenti ai vari momenti del rito, evitando di chiacchierare, ridere, distrarsi o girovagare con la testa e con gli occhi, bisogna partecipare attivamente alle preghiere da dire e recitare: le risposte date al sacerdote, il Confiteor e il Gloria, il Sanctus, le acclamazioni varie e, dove eseguiti, partecipare ai canti liturgici. 

Ovviamente il massimo del raccoglimento e della partecipazione interiore spetta (checché ne pensi più di qualcuno) alla seconda parte della Messa, dove la presenza di Dio si fa vera, reale e sostanziale. 

Se poi si è nelle condizioni di poter prendere parte alla santa comunione, si badi di curare anche la preparazione prossima a questo momento, per il quale mi permetto qualche consiglio di natura prettamente personale, imparato dalle tradizioni delle nostre nonne. 
- All'Agnus Dei è bene (anche se non più prescritto nel Novus Ordo) mettersi in ginocchio e, prima di alzarsi per mettersi in fila, recitare l'atto di dolore, per purificare la nostra anima anche dalle più piccole macchie e da eventuali distrazioni o piccole irriverenze compiute durante la sacra liturgia. 
- Durante il tempo in cui si sta in fila è quanto mai opportuno risvegliare il desiderio e la consapevolezza di Chi è Colui che si sta per ricevere, moltiplicando brevi comunioni spirituali del tipo: "Gesù ti amo, nel mio cuore ti bramo", oppure: "Gesù amore, vieni nel mio cuore". Questo per meglio risvegliare la nostra mente ed eccitare i nostri affetti nel preparare una degna accoglienza al Re dei re. 
Ribadisco in questa sede che, pur essendo fino ad oggi consentito dall'attuale disciplina ecclesiale - anche se in via di indulto - ricevere la sacra particola in mano, questa prassi appare molto pericolosa e poco consona ad esprimere l'adorazione dovuta a Colui che riceviamo, per cui è preferibile e consigliabile attenersi alla tradizione millenaria della Chiesa di ricevere l'Ostia direttamente in bocca e - se e ove possibile - in ginocchio. 
- Dopo la Comunione è bene inginocchiarsi e raccogliersi per un primo immediato ringraziamento al Signore, che è bene si protragga per almeno quindici minuti (tale è il tempo medio che impiega il nostro organismo ad assimilare la sacra particola, causando il venir meno della presenza reale di Gesù). 
- E' quanto mai esecrabile la prassi di "scappare" via subito dopo la benedizione senza neanche fermarsi per il canto finale, così come, quando si è ricevuta la santa comunione, omettere il doveroso ringraziamento per il tempo appena indicato. 

Vorrei concludere con una parola sul segno di pace nel rito romano. Questo gesto ha carattere meramente simbolico e non deve diventare occasione di distrazione proprio prima della comunione. Basta scambiare la pace col vicino senza esagerare nel voltarsi o andare a cercare chissà chi. 

A parer di chi scrive, vivendo così la santa Messa, si ha la possibilità di trarne copiosi frutti anche nella nuova forma, che - effettivamente - se mal compresa (o mal vissuta) potrebbe ingenerare o favorire qualche dissipazione o distrazione. Spetta all'ars celebrandi del sacerdote, ma anche all'actuosa participatio dei fedeli, fare in modo di vivere in maniera sacra, santa e dignitosa anche questa nuova forma di celebrazione della santa Messa, conservandone integra e intatta, l'intrinseca, immutabile e infallibile forza  e potenza santificatrice.
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I CINQUE PRECETTI GENERALI DELLA CHIESA Introduzione

23/8/2014

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I CINQUE PRECETTI GENERALI DELLA CHIESA

Introduzione

La vita di un figlio di Dio che vive in grazia, oltre che all’osservanza dei dieci comandamenti, è vincolata anche all’esercizio delle virtù cristiane, che la tradizione e il Magistero della Chiesa hanno distinto in morali e teologali, nonché all’osservanza di una serie di precetti che la Chiesa, nella sua qualità di madre premurosa del bene dei suoi figli, si è preoccupata di definire per garantire almeno ad un livello minimale l’adempimento dei doveri essenziali di un cattolico verso Dio. La perfezione della vita cristiana trova inoltre cristallina e mirabile esemplificazione nelle otto beatitudini, che costituiscono la vetta e il culmine del cammino verso la piena santificazione dell’uomo. Alcuni fedeli, infine, sono chiamati dal Signore ad una più piena e perfetta conformazione a Lui attraverso i consigli evangelici, consistenti nei voti di castità, povertà e ubbidienza, che Egli per primo praticò eroicamente sulla terra e che alcuni sono chiamati a vivere non solo nello spirito (cosa doverosa per tutti i fedeli) ma anche nella lettera.
Le virtù teologali sono così chiamate perché sono infuse nell’anima direttamente da Dio e nessun uomo potrebbe, con le sole sue forze, né ottenerle né accrescerle: si tratta della fede, della speranza e della carità, che, infuse nei cuori dei fedeli col sacramento del Battesimo, si consolidano, fortificano e accrescono in misura proporzionale all’uso dei mezzi di grazia (preghiera e sacramenti) e alla corrispondenza alle divine ispirazioni, mentre si indeboliscono fino a potersi perdere completamente in caso di totale assenza di vita interiore da parte del battezzato. Quelle morali trovano la loro espressione principale nelle quattro virtù cardinali, così chiamate perché rappresentano il cardine e l’asse di tutta la vita morale della persona: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Erano conosciute anche dai filosofi pagani (Socrate, Platone e Aristotele ne parlarono e le insegnarono) e, a differenza di quelle soprannaturali, possono essere acquisite dagli uomini (non necessariamente credenti) mediante lo sforzo e la ripetizione costante dei loro atti. Le otto beatitudini sono il cammino per la piena felicità “spirituale” (che comincia su questa terra) e conformano in modo radicale a Cristo Salvatore: la povertà di spirito, lo spirito di cristiana penitenza, la mansuetudine profonda, il desiderio profondo della santità, la misericordia, la purezza di cuore, il portare la pace e l’essere pronti a tutto pur di rimanere fedeli alla via della verità sono le disposizioni stabili che rifulgono nei santi, in quanto esprimono il dominio pieno e integrale sulle più basse e più funeste passioni insite nel cuore dell’uomo decaduto dopo la colpa d’origine. La professione dei consigli evangelici, infine, pone il fedele nel cosiddetto “stato di perfezione”, ossia in una condizione in cui si trovano tutti i mezzi per raggiungere una perfetta imitazione di Cristo, ferma restando la libertà del consacrato ed il suo dovere di corrispondere generosamente all’altezza ed eccellenza delle grazie ricevute.
Dall’approfondimento di tutte queste tematiche speriamo che emerga l’immagine del perfetto soldato di Cristo, pronto e ben armato nel rendere un’esemplare testimonianza di coerenza e di fedeltà, attraverso l’osservanza perfetta della legge di Dio, la fuga da ogni vizio e peccato, la pratica sempre più intensa degli atti di virtù, impregnati dello spirito delle beatitudini evangeliche. In questa prospettiva i consacrati dovrebbero rappresentare una sorta di “avanguardia” dell’esercito di Dio, sempre alla condizione che corrispondano fedelmente e generosamente all’altezza della loro vocazione. Per la prossimità della trattazione rispetto a quella dei comandamenti, di cui rappresenta una sorta di corollario, mi sembra opportuno iniziare con l’approfondimento dei cinque precetti generali della Chiesa.
E’ anzitutto necessario chiarire che la Chiesa ha il diritto, il dovere e il potere di imporre leggi e precetti, vincolanti in coscienza, ai propri figli. Questo potere è stato dato dal Signore Gesù in persona sia personalmente e singolarmente a san Pietro (Mt 16,19) che agli apostoli come collegio (cf Mt 18,18) e si trasmette, integro e intatto, ai loro legittimi successori (il sommo Pontefice e il collegio episcopale). Un potere tanto serio e incisivo che viene ratificato dal cielo stesso, secondo le medesime parole di nostro Signore che afferma perentoriamente: “quello che legherete sulla terra sarà legato nei cieli e quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 18,18). In termini canonici, questo potere dà origine alla cosiddetta “potestà di giurisdizione”, che, unitamente a quella prettamente sacerdotale (“potestà d’ordine”) finalizzata all’amministrazione dei sacramenti, costituisce l’essenza della pienezza del sacerdozio, che viene comunicata ai membri del clero con il sacramento dell’episcopato, che è il massimo grado dell’ordine sacro e che conferisce le potestà apostoliche in tutta la loro ampiezza e portata.

Esempi di esercizio della potestà di giurisdizione, solo per fare qualche esempio, sono la facoltà di comminare la scomunica per certi gravissimi peccati, la facoltà di stabilire leggi e regole per il degno e corretto espletamento della liturgia, la potestà di definire autorevolmente determinate verità di fede e di morale, la concessione di indulgenze, etc. I cinque precetti generali della Chiesa rappresentano la demarcazione normativa del minimo indispensabile a cui un fedele cattolico deve impegnarsi per ritenere sostanzialmente adempiuti i suoi doveri verso Dio e la Chiesa, onde non mettere a repentaglio serio la salvezza della propria anima. Essi sono così formulati: 1) Parteciperai alla santa Messa tutte le domeniche e le feste comandate; 2) Confesserai tutti i tuoi peccati almeno una volta all’anno e ti comunicherai almeno a Pasqua; 3) Santificherai con il digiuno e la penitenza i giorni stabiliti dalla Chiesa; 4) Sovvenirai alle necessità anche materiali della Chiesa in proporzione alle tue possibilità; 5) Non celebrerai in modo solenne le nozze nei tempi penitenziali. Dal prossimo articolo cominceremo ad approfondirli punto per punto. Terminata la loro trattazione ci occuperemo dapprima delle virtù e dei vizi, poi delle beatitudini e infine dell’eccellenza dei consigli evangelici..
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